giovedì 29 maggio 2014

Ex ore exemplum

Ok.
Ci ho provato.
Che non mi si dica che non c'ho provato.
Ho provato a far tacere il mio subconscio (il quale, dopo aver fatto valere il suo diritto di secessione dalla mia personalità, ora si fa chiamare Indy* e risiede stabilmente sulla mia spalla sinistra), a cui sussurravo eddai, essù, e non te la prendere, ma alla fine niente. Lo spirito di Mara Maionchi se ne è definitivamente impossessato e ora il mio orecchio sinistro è arroventato da una sequela di improperi in più lingue diverse, alcune delle quali rimaste perfino sconosciute all'uomo, che mi curo di non trascrivere per non turbare i bambini sensibbbili, i pensionati e le donne in gravidanza. Orsù, perché tanto livore? È presto detto: la visione del trailer di "Maleficent", film Disney con Angelina Jolie in uscita al cinema in questi dì. E dove sta il problema, direte voi. E non ve ne siete ancora accorti, dirò io.
Il film si chiama Maleficent. E io non ho visto il trailer in inglese.
E come si chiamava la cattiva de "La bella addormentata nel bosco" nella versione italiana?
Indy: - Malefica. Che razza di domande.
Ecco, appunto. E come viene chiamata nel trailer e (da ciò si deduce) nel resto del film? Malefica.
Io non riesco seriamente a capire perché non sia stato cambiato il titolo anche al film. Non riesco a vedere nemmeno il più fioco barlume di coerenza in tutto ciò. In Francia e in Spagna, per esempio, il nome è stato tradotto nelle rispettive lingue: perché questo da noi non è successo? Cos'è, i nostri distributori temevano un'ondata di battute sconce basate sulla seconda metà del nome italiano? Spero che sia questa la risposta, dato che francamente è la più accettabile che io sia riuscita a trovare in ben cinque minuti di pensatoio. L'altra finalista invece era l'opzione che il nome non fosse stato tradotto per rendere tutto più internescional, ché noi ormai siamo nell'era di Internet, della globalizzazione, degli scambi facili, immediati e veloci e chi vuoi che se ne freghi di tradurre in italiano un nome che già in inglese rende bene l'idea perfino se viene sussurrato ad un pesce?
Io, prego. Io me ne frego. E per una questione di principio.
Perché io non sono né troppo ignorante né troppo pigra per tradurre, ma, se volessi avere a fare con la lingua dei Britanni, vedrei direttamente il film in inglese, no? Perché oggi si tratta del titolo di un film e sembra che io stia sollevando un polverone per nulla, ma basta fare un piccolo tuffo nel mare magnum della Rete per scoprire che, per esempio, i tanto idolatrati meme che andavano di moda l'anno scorso in Italia riportavano, sotto le ben note faccine, le frasi originali inglesi, cosa che invece non accadeva in quelli dei nostri cugini d'Oltralpe, i quali sono tra l'altro pure famosi per la loro puzza sotto il naso quando si parla di purismo linguistico (l'altra puzza, invece, riguarda quella delle baguette sotto le ascelle). Gli esempi che potrei fare sono pressoché infiniti, ma non voglio che questo post si trasformi in una crociata contro l'inglese, giacché a quest'ultimo non ho assolutamente nulla da rimproverare: siamo noi italiani, che padroneggiamo più o meno (diciamo più meno che più) bene la lingua primogenita dei divini greco e latino e poi vogliamo saccheggiare a pieni mani l'anglico linguaggio, ad avere la colpa. Come se noi non avessimo una personalità nostra e una lingua sufficientemente versatile! Cos'ha l'italiano in meno rispetto all'inglese? Non è la nostra la lingua universale, è vero, e una conoscenza base dell'inglese è necessaria a tutti a prescindere dalla propria futura professione e dal ruolo che si rivestirà nella società, ma inglesizzare tutto è una cosa sbagliata, perché significa stravolgere due lingue. Noi non siamo i Paesi scandinavi, in cui l'inglese convive fianco a fianco con la lingua madre da diversi anni, e tuttavia anche loro hanno bene a mente la distinzione tra le due lingue: perché, insomma, creare un mer(d)aviglioso ibrido fra le due quando puoi averle pure entrambe? Quello di "lingua" è un concetto estremamente dinamico e l'italiano, idioma di una patria per secoli calpestata da calzari stranieri, sa bene di cosa si parli: anno dopo anno, dominazione dopo dominazione, abbiamo assorbito silenziosamente una parola dietro l'altra, ma l'abbiamo assorbita consapevolmente, attivamente, anche modificandola se necessario. Quella di oggi, inutile specificare, è un'assimilazione passiva, frutto di un'assoluta indifferenza al reale valore di ciò che è già posseduto e di ciò che bussa alla porta, accolto a braccia aperte solo perché si tratta della novità, mero oggetto di un comportamento diffusissimo ma probabilmente fermo all'età adolescenziale. Dov'è finito l'amor proprio? Non la tronfia vanità e l'inconcepibile pretesa di essere i migliori in assoluto, ma l'attaccamento a ciò che ci è proprio e in mezzo al quale siamo nati. Sapevo che i miei connazionali avevano la spiacevole tendenza a denigrare le cose di casa propria (sì, insomma, lo sapevamo che questa tendenza tutta italiana del lamentarsi sempre e comunque doveva pur andare a parare da qualche parte, no?) ed ero in un certo senso preparata, ma... insomma, quando accade qualcosa di amaro, non si è mai abbastanza pronti. Ragazzi, imparate le lingue, ché sono belle e vi fanno conoscere popoli, pensieri e culture, preferitene qualcuna se lo desiderate, ma non cercate di mischiarle per pura pigrizia. Altrimenti poi non ci sarà più nessuno da chiamare barbaro!
Ho scritto questo in un giorno particolare: la vigilia del mio esame orale di inglese e il presunto compleanno di Dante. Ecco, ricordiamoci che circa settecento anni fa il Sommo Poeta stava scrivendo (e terminando) il Purgatorio. E una lingua che vanta Dante fra i suoi primi fruitori e promotori può tutto e anche di più.

P.S. Menzione d'onore al mio magister che mi ha suggerito di sostituire l'abusatissimo termine "ship" in riferito alle coppie di libri, film, fumetti etc. con "arruffianare". Suona benissimo.

*Indy come "Indiana Jones".
O come "India".
O come "indipendenza (sottinteso: da una deficiente)".
Nah, come "Indiana Jones".

giovedì 22 maggio 2014

De nocte

Musica, maestro.
Sulla notte tanti hanno scritto tanto. La luna ha da sempre esercitato un'attrazione magnetica sulle menti dei poeti e degli artisti in generale, quasi assimilabile proprio al fenomeno che la lega alle maree, e uomini di ogni epoca non hanno smesso di cercare nelle stelle le risposte ai propri dilemmi esistenziali o, più semplicemente, tentare di interpretare la loro posizione come una qualsivoglia figura d'uomo, animale o essere mitologico. Certo, poi si sono sempre stati gli alternativi: Caligola, per esempio, con la luna voleva copulare, ma questo è un caso a parte, insomma, so' ragazzi, poi cambian... ah no. Foscolo, invece, ha dedicato alla sera uno struggente sonetto che credo di poter considerare a tutti gli effetti la mia poesia preferita e anche il mio diletto sociopatico, Leopardi, ha fornito il suo superbo contributo alla causa. Van Gogh ha immortalato l'immobile e vorticoso moto delle stelle in questo gran popò di opera, e Mozart, dal canto suo, ha donato al mondo e consacrato alla notte questo brano divino. La notte, la luna, le stelle... meritano dunque davvero tutta l'attenzione che il mondo dell'arte ha riservato loro nel corso dei secoli?
Sì.
Che razza di domande.

[- Psss, Pizia! Questa domanda l'hai posta tu stessa!
- Subconscio, smettila di dirmi cosa fare. Sta' zitto.
- Io non ti ho detto cosa fare, ti ho detto che hai rigettato una domanda che hai posto tu stessa. Secondo me sei bipolare.
- Sta' zitto.
- Scusa.]

Ho viaggiato abbastanza per poter affermare di aver visto numerosi capolavori d'ogni tipo, d'ogni epoca, tecnica e materiale; ho ammirato spettacoli naturali di variegata natura ma ugualmente mozzafiato; ho macinato volumi su volumi e ho così conosciuto tempi e spazi nuovi senza muovermi dal mio letto; ma non sono mai riuscita a provare una sensazione anche solo lontanamente simile a quella che caratterizza i miei abbracci con la notte. L'idea che la cosa più bella del creato occupi metà della giornata e sia alla portata di tutti ma non se ne accorga nessuno è probabilmente una delle cose che mi sconcerta maggiormente da quando io stessa ho scoperto il fascino della notte. Insomma, come fate a restare indifferenti a cotanta magnificenza? La notte è stupenda, è l'infinito della natura, è la fantasia delle costellazioni e l'incontrollata proliferazione dei nomi greci per designarle; la notte è il vortice delle stelle e delle storie, il rifugio degli amanti e dei criminali (fate finta che anche loro facciano parte del programma poetico di cui sto attualmente costruendo l'impalcatura), il regno dei felini, il velo che copre delicatamente trame, intrighi e delitti, è il buio profondo dell'oblio surrogato offerto dal sonno, è l'illusione della catastrofe incombente e della salvezza assicurata, è la poesia del mistero e dei passi alla cieca. La Notte, complice degli inganni, nella mitologia greca era considerata generatrice di mostri, di Sogni, Incubi e Menzogne, di Morte, Sonno e Illusione, di Contrasto, Odio e Discordia: la Notte era perciò la Magna Mater Mali. Ma la notte non è solo fascino e malignità: ella è anche muta filosofa e musa ispiratrice ed il suo astro, la Luna, è ancora l'eterna innamorata di Endimione, e da millenni ormai ogni notte la dea si bea, commossa e appagata, della vista del suo amato re; e la luna è ancora il sorriso dello Stregatto e il volubile astro delle donne e della femminilità, è l'argentea signora del silenzio e aveva torto Shakespeare nel dire che lei era invidiosa del sole: non a tutti interessano le luci del palcoscenico, c'è chi si accontenta di un'eleganza apparentemente di secondo piano e preferisce un velo di cristallo ad un mantello dorato, rivestendosi di una calma serafica e indifferentemente benevola nei confronti delle amene vicende umane.
E poi c'era Sailor Moon, la paladina che vestiva alla marinara, che di Foscolo non conosceva nemmeno l'esistenza e al massimo sapeva distinguere il sole dalla luna per via della gatta parlante.

giovedì 15 maggio 2014

Mater semper certa est, pater...

C'è una pubblicità, realizzata dalla nota marca spagnola di abbigliamento Desigual in occasione della festa della mamma, che ha fatto discutere, e anche parecchio. Il perché è presto detto: per la cronaca, si può visionare lo spot non censurato qui. Insomma, c'è una tipa dall'aria sveglia e seria come Lindsay Lohan dopo un tratto di cento chilometri in autostrada che prima si ficca un cuscino sotto lo striminzito e caleidoscopico vestitino che indossa e poi, con aria ammiccante, buca con un ago una fila di preservativi. Egggià. In primis, più che del messaggio veicolato dallo spot mi preoccuperei delle smorfie della modella che ricordano da vicino l'aberrante copertina dell'ultimo libro di Barbara d'Urso. In secundis, ricorderei al mondo una delle regole di Internet: non date da mangiare al troll. Non fomentate le provocazioni, insomma, lasciate perdere: quella della Desigual, così dichiaratamente frivola e sfacciata, non è nient'altro che una provocazione. Fastidiosa, certo; irritante, pure: ma, diciamocela tutta, ormai è stata già condannata alla damnatio memoriae come in effetti meritava. A prescindere dal clima caldo della politica in Spagna circa la revisione della legge sull'aborto e lo scimmiottamento dall'hashtag #yodecido (sostituito, come si è visto, con #tudecides), la pubblicità fa schifo anche perché se resti incinta col cavolo che poi ti puoi permettere di indossare quei due straccetti intinti in una colorazione fatta arrivare dritta dritta con la DeLorean dagli anni Settanta (e poi, cento euro per una borsa? sticazzi!). Come ha detto un utente a casaccio su Internet, per rendere la pubblicità ugualmente spiritosa ma non offensiva sarebbe bastato che la ragazza si fosse limitata a gettare i preservativi in un cestino. Ok, non a tutti vengono in mente queste folgoranti ideone degne dei gradini più alti dell'Iperuranio platonico, ma... davvero? Un altro spot che dipinge la donna come la solita strega che trama alle spalle dell'uomo, novella Medea che si vanta di tirare da sola i fili del ciclo vitale della propria prole? I prototipi dell'avvelenatrice e della femme fatale sono fuori moda, e al massimo vanno bene per le attrici di Hollywood che hanno a che fare con complotti e intrighi internazionali e indossano attillatissimi vestitini rasofiga, non per qualcuno che dovrebbe "impersonare" sul piccolo schermo la donna media. Nella realtà i figli si fanno in due e si decidono in due: alla portatrice di vaggiaina spetta anche la panza porta-erede e pure la distribuzione capillare di latte della Lola, ma per il resto le responsabilità si condividono. Maternità e paternità sono due facce della stessa medaglia, ma ciò non significa che siamo perfettamente sovrapponibili: l'istinto materno, in genere, entra in azione prima di quello paterno (E MI SEMBRA PURE GIUSTO) e inoltre vanta un legame fisico col pupo che il padre si può solo sognare. La capacità di avere in sé le forme di vita nel loro stadio embrionale è dall'alba dei tempi il segno che ha contraddistinto l'intero genere femminile, che da quel momento in avanti è stato valutato (e, ahimé, "condannato") proprio in virtù di questa sua magica capacità. Col ribaltamento dei tempi è invece avvenuto qualcosa di diverso: anziché far "sanare" il rapporto tra maternità, femminilità e società si è deciso di rendere l'una nemica dell'altra, di rendere le donne uguali e non pari agli uomini, di demonizzare la femminilità come qualcosa di frivolo e accettandola solo qualora avesse accolto in sé certi viril costumi (non a caso fra le stesse donne è motivo d'orgoglio essere considerato il maschiaccio del gruppo) e di relegare la maternità in un angolino quasi di disprezzo. No, non intendo affermare che avere figli (e non sfornare marmocchi, prego) sia l'unica e sola via di realizzazione per una donna, affatto, né che sia una cosa che bisogna fare e basta o che porti solo gioie come angelicamente descritto da qualche nonna con dichiarati problemi di Alzheimer: tuttavia, negare l'importanza di un tal argomento nella vita femminile, qualunque sia l'opinione di ciascuna mammifera in questione, sarebbe oltremodo ipocrita. Abbiamo bisogno di scrollarci di dosso l'immagine della madre martire e angelo del focolare, vero, ma non della madre che antepone il bene della prole al suo: non dobbiamo correre il rischio di passare da un estremo all'altro come invece è stato disgraziatamente fatto. Non c'è bisogno che la genitrice, dopo il parto, annulli la sua personalità in favore del mantenimento dei propri figli, ma allo stesso tempo è necessario che sacrifichi a loro una parte più o meno consistente del suo tempo. Voglio insegnare alle donne come si fa la mamma? No, ovvio (ammetto inoltre che in un giorno più o meno lontano mi piacerebbe eccome avere eredi). Ma, come al solito, in medio stat virtus: non era la maternità in sé una cosa negativa, era il modo in cui veniva presentata alle donne ad esserlo, e il fatto che certa gente non abbia saputo distinguere e discernere questi due concetti ha perfino cambiato la storia. Hanno voluto insegnare alle donne ad essere come gli uomini, ignorando però che questi non fossero affatto modelli di perfezione e che magari, in certe occasioni, lo sforzo del prendere esempio dall'altro sesso sarebbe dovuto toccare a loro.

giovedì 8 maggio 2014

De varietate itinerum

Sono una viaggiatrice per natura. Non una di quelle che mollerebbero tutto e subito per partire all'avventura, ma una di quelle che programmano metodicamente cosa fare, quanto spendere, cosa visitare e poi magari stravolgono tutti i piani se trovano qualcosa di interessante sul posto. Sono una viaggiatrice puntuale ma improvvisata, una di quelle che iniziano a trovare l'Empireo già quando stanno solo percorrendo il tragitto in auto (non è il mezzo di trasporto più poetico che si possa immaginare, ma è quello più economico, il che significa anche l'unico che io e la mia famiglia abbiamo a disposizione) e guardano il paesaggio anche se l'hanno già visto altre volte. Io vengo da una terra piatta: quella del sole, del mare e del vento, sì, ma non quella della neve e delle valli, quella dei giganti della terra che sovrastano l'orizzonte e del freddo pungente. Vengo da una terra rara, in un certo senso, perché le pianure in Italia non abbondano, ma cerco ovviamente ciò che per me non è comune e, sebbene in genere le mete prefissate siano le città d'arte, anche uscire dal mio limbo (e non lembo) di terra mi sembra un paradiso. Vivo ancorata qui tutta la vita e mi stuzzica a priori non solo l'idea di viaggiare, ma anche semplicemente quella di partire. Andare via, staccare. Celebrare i Saturnali della routine. La tradizione di famiglia prevede da alcuni anni un breve tour di una particolare zona d'Italia nella prima settimana di settembre: certo, sarebbe più corretto parlare di tour de force, date le bizzarre e incredibili modalità con cui si sviluppano i nostri scalcinati itinerari. A causa dell'eterna mancanza di pecunia siamo costretti a risparmiare sugli alloggi (preferiamo però tagliare sulla quantità e non sulla qualità) e a trascorrere, quindi, due giorni in una città che magari ne necessiterebbe cinque di visita. Dato che però non abbiamo certo intenzione di sacrificare il Colosseo per i Fori Imperiali e poi lo sanno tutti che un po' di movimento fa sempre bene, impacchettiamo per bene lo stretto indispensabile, ce lo portiamo a spalla in zainetti comprati dai cinesi riguardo ai quali ci dobbiamo pure considerare fortunati se non ci causano eritemi incurabili e, con i piedi fasciati nelle scarpe più comode che possano esistere e coperti di cerottini per stroncare le vesciche sul nascere (perché nasceranno, oh sì se nasceranno), vaghiamo di museo in museo, di chiesa in chiesa, di parco in parco, di fontana in fontana per placare la nostra sete di cultura (seeeh) e la voglia di sgambettare come gattini appena svezzati. Vogliamo che, chiariamolo, sparirà dopo cinque minuti, quando in genere cominceremo a strappare cartine geografiche per la rabbia, sbagliare fermate dell'autobus o della metropolitana, dimenticare gli orari di apertura e chiusura dei monumenti, inorridire per i prezzi astronomici dei panini con la mortadella a piazza Navona (dove, per la cronaca, ci sono quasi esclusivamente ristoranti chic), chiedere informazioni ai turisti cinesi muti (ebbene sì, è successo anche questo), intavolare conversazioni pseudo-bilingui con le turiste americane nei bagni pubblici, cronometrare perfino il tempo in cui ammirare un tale dipinto che diventa bello solo se è opera di qualcuno di famoso che è universalmente conosciuto o che ho trovato io sui libri di storia e spendere minuti interi a trattare coi venditori di souvenir sul perché la figurina di un tal santo costi tanto o sulla miniatura di quella colonna non ci faccia lo sconto, ché tanto ne compriamo in quantità per nonne zii cugini e parenti fino al ventordicesimo grado. E poi le soste per bere, no aspetta deficiente quella non è acqua potabile, quella per far riposare i piedi, imbecille ti sei seduto su un formicaio, quelle per andare in bagno, entra nel bar e prenditi un caffè anche se stamattina è il sesto, quelle per fare le foto, mettetevi in posa che siete gli unici che vanno alle parti e poi non si fanno gli album fotografici, quelle per motivi vari, mamma mi si sono slacciate le scarpe e ho perso i lacci. E come dimenticare i sempiterni problemi con l'autovettura di famiglia, le asfissianti chiamate ai nonni per sapere se anche quel giorno avessero nutrito quella colonia di fiere fameliche che portano l'improprio nome di "gatti" e se questi non avessero lasciato qualche sorpresina (non raramente è accaduto che, tornati dal viaggio, avessimo trovato la gatta sgravata che, sogghignando sotto i baffi, sembrava dirci e mo' beccateve 'sti micetti). Però. Però c'è anche la risata all'acquisto delle cartoline più fighe e coi riferimenti porno più spinti per gli amici, lo splendore di un panorama dalla cima di un colle o da un campanile, l'emozione nel sapere che magari i muri che stai toccando sono stati costruiti migliaia di anni fa e toccati da milioni di altre mani, le amicizie improvvisate coi gestori dei locali e le chiacchierate sull'andamento dell'economia della regione for dummies e l'affluenza turistica, così, come se ce ne importasse davvero qualcosa e non volessimo riflettere sul fatto che noi, in questi posti bellissimi, non ci viviamo affatto; ci sono i volantini di eventi che si svolgeranno quando noi non ci saremo, ma resta il sentimento e la punta di orgoglio nel dire "io c'ero, ci sono stato, io so, oida!" e anche solo per un attimo mi sono reinserito nel vorticoso circolo della vita, toccando altre realtà comuni e pure, ovviamente, anche le massime vette raggiunte dalla mente umana in un quadro, una statua, un libro, un monumento per cui, teoricamente, mi sono recato fin lì. C'è la bellezza del combaciare tra eterno e fuggevole, tra infinito e caducità, tra una roccia e una foglia. C'è la bellezza della nostra normalità che per un po' cambia ed entra in contatto col diverso e con l'immenso.

giovedì 1 maggio 2014

De servitudine risus

Ho pensato molto prima di scrivere questo post. Voglio dire, io penso sempre un sacco, ma stavolta mi sono impegnata a tal punto che perfino i più stacanovisti tra i miei neuroni, a dispetto della crisi nel mercato del lavoro, hanno chiesto il licenziamento e m'hanno pure fatto causa per sfruttamento. Ora la mia scatola cranica è più vuota di quella dell'utente medio di Internet. La parola medio, ovviamente, è intesa nel senso "internettiano" del termine: non allude, cioè, ad un qualcosa che effettivamente ha riscontrato una frequenza media in dati statistici, ma a qualcosa di altamente disprezzabile in quanto perfetta sintesi degli attributi della massa (termine che va molto di moda) da cui l'homo loquens, chiaramente, si discosta. L'utente medio non è medio per niente, anzi, è la summa maxima di tutti i vizietti e i difettucci che ciascuno di noi ritiene tali e attribuisce perciò, forse perfino inconsciamente, al prossimo.
Il titolo del post mi è stato ispirato proprio dal mondo del web e il suo significato italiano è "Sulla schiavitù della risata"; una particolarità della frase, che fortunosamente riesce a mantenere anche in italiano, è il fatto che sia incerto se il genitivo "risus" sia oggettivo o soggettivo: se, cioè, in altre parole, la risata sia la schiava o la padrona. Navigando nei meandri dell'universo in linea capita da sempre di imbattersi in battute più o meno ironiche, sarcastiche, umoristiche, satiriche, comiche o perfino insinuanti e offensive verso chicchessia, e quasi nessuno è capace di operare le opportune distinzioni, tanto è solo una battuta, l'importante è che si rida e basta, senza pensarci. Fatevi una risata, smettetela coi moralismi sono i cavalli di battaglia del sostenitore della risata a tutti i costi, di quello che probabilmente, mentre fa scorrere velocemente lo sguardo sui film che trasmettono la sera in TV, elimina automaticamente quelli drammatici perché tanto sono tristi e si sofferma invece solo sulle commedie. L'importante è ridere: se una cosa è stata fatta per ridere, bisogna ridere e basta. Come... macchinette. Come automi a cui viene fornito uno stimolo e da cui ci si aspetta una determinata reazione. Né più né meno che meri robot, incapaci di sperimentare l'effimera ebbrezza del possesso e del conseguente uso di una delle qualità che ci rende umani: lo spirito critico. Analizzare da sé ciò che ci viene propinato e riconoscerlo come giusto o sbagliato a seconda della propria personalità ci consente di non conformare quest'ultima al senso comune. È vero, quello che può essere irrispettoso per uno può essere normale per l'altro, ma penso di poter affermare che in linea di massima vi sono argomenti che ognuno di noi riconosce come particolarmente delicati e sente di dover trattare con le pinze perfino quando si sconfina nel vasto e dilettevole campo dell'umorismo nero. Per la cronaca, l'umorismo nero è per definizione macabro e non adatto ai più sensibili, ma ciò non significa che non meriti d'essere preso di mira quando scivola anch'esso nelle volgarità, che nella stragrande maggioranza dei casi sono totalmente ininfluenti all'effetto finale della battuta e riescono soltanto a trasformare quella raffinata boccetta di cianuro che dovrebbe essere l'ironia macabra in un ammasso di coltellacci grezzi. Sì, l'ironia, umorismo, sarcasmo (scegliete il termine che preferite: ognuno di essi ha leggere sfumature di significato rispetto agli altri due ma in questo mare magnum di superficialità perdersi nelle disquisizioni lessicali è l'ultima cosa da fare) sono armi, armi vere e proprie, di cui è stato sottovalutato per troppo tempo l'immenso potenziale. Armi perché consentono di trasmettere e soprattutto promuovere un preciso pensiero celandolo abilmente nell'ottica del vedo-non vedo e modificando così, prima delle coscienze dormienti dei lettori, il senso comune, a cui in seguito essi si adatteranno. Se qualcuno probabilmente facesse affermazioni esprimendo un suo pensiero, si ritroverebbe contro un sacco di oratori improvvisati; ma se lo stesso qualcuno trasformasse il suo pensiero in una battuta, lo renderebbe automaticamente simpatico, se non immediatamente condivisibile, al grande pubblico. Bisogna prendere atto anche della presenza, seppur misera, di chi fa battute pesanti od offensive senza rendersene conto, anche se raramente si riesce ad ottenere qualche mea culpa. L'umorismo e la comicità sono concetti intrinsecamente positivi, che causano ilarità o comunque strappano un sorriso: comportamento deplorevole se si sta parlando di temi delicati, ma che diviene accettabile proprio quando ci si fa scudo dell'ironia, cioè del dire una cosa per intendere il contrario. Ecco perché una battuta è un mezzo potente: perché, come in un fugace Carnevale, consente di dire e fare quello che non si potrebbe dire e fare in un contesto serio, lasciando però al lettore la facoltà di intendere ciò che vuole e di leggere fra le righe. La risata sana e pura, senza fini subdoli ma al contempo senza dirompente stupidità, è qualcosa di estremamente difficile da suscitare (non a caso Peppino De Filippo disse che far piangere è meno difficile che far ridere). E ridere è bello, e far ridere è un'arte, ma come in ogni arte... bisogna stare attenti ai falsari.