giovedì 26 giugno 2014

Pro pueris

Qualche giorno fa è stato il compleanno di mio nonno e la famiglia ha deciso di festeggiarlo al ristorante: al momento del taglio della torta e delle foto di rito si avvicina incuriosito un bambino di un tavolo vicino, scappato per un attimo al controllo dei genitori, e rimane per un po' a guardarci in timida attesa di qualcosa. Al che noi, sorridendo, decidiamo di offrire al piccolo una fetta di torta e il bambino, incuriosito, inizia a mangiarla lentamente. Pochi istanti dopo al nostro tavolo si presentano i genitori del pargolo che, scusandosi con tutti i crismi e sgridando il figlio, provano a riportarlo al loro posto, ma in conclusione finiscono per restare anche loro al nostro tavolo perché decidiamo di offrire anche a loro un po' di torta: al compleanno di mio nonno, insomma, si sono uniti per sbaglio o per caso anche dei simpatici sconosciuti, e a farci "incontrare" è stato proprio il loro bimbo. L'aneddoto serve a dimostrare e certificare che non tutti i marmocchietti di questo mondo sono delle pesti scatenate o dei flagelli divini come invece vorrebbe un diffuso luogo comune ultimamente (e ulteriormente) alimentato dalle panzane animaliste secondo cui al ristorante sarebbe meglio portarsi appresso un cane che un bambino perché il primo non dà fastidio e il secondo sì. Il problema è che la bestiola, per quanto tenera, pulita e addestrata possa essere, è... una bestiola, ovvero un sacco ambulante di peli che credo non sarebbe igienico far finire nella propria faringe tramite il cibo ingerito. Il bambino, invece, è appunto un bambino, un cucciolo di umano e quindi un umano, e tra l'altro dare le colpe di un suo eventuale malcostume esclusivamente ai genitori è puramente semplicistico. I miei, per esempio, si sbattono da anni per insegnarmi a stare seduta composta, e sebbene col passare del tempo abbia capito di dover tenere un certo contegno davanti agli altri, in un ambiente privato non esito ad abbarbicarmi su una qualsivoglia superficie piana di ampiezza variabile come una contorsionista romena. Bene, un bambino non ha questa concezione del pubblico/privato né tanto meno ha la statura morale (nemmeno quella fisica, in verità) sufficiente per discernere quali siano i comportamenti eticamente corretti. Agisce come gli pare e piace e basta. Poi è ovvio che ci siano anche i genitori cafoni che lasciano la propria prole libera di scorrazzare ovunque senza sgridarla nemmeno una volta con la scusa che tanto so' ragazzi (vediamo poi quanto sono carini quando vi fanno a pezzi il vaso della nonna), ma generalizzare così mi sembra oltremodo scorretto. Così come ci sono bestiole educate e maleducate, ci sono bambini educati e maleducati. E per quanto i padroni (nel primo caso) o i genitori (nel secondo caso) si possano affannare o meno a dar loro un'educazione adatta, molto dipenderà dalla personalità del subordinato, sia esso un cagnetto o un bimbo. Io sono dell'idea che non bisogna "scegliere", che ognuno ha le proprie inclinazioni e se preferisce può prendersi un cane, avere un bambino o, perché no, entrambe le cose, ma dire che la prima è uguale alla seconda è un'idiozia della peggiore specie. L'amore va fornito ad entrambi, ma nella giusta misura: all'animaletto di casa non deve spettare lo stesso affetto di cui gode il pargolo, perché, come già detto, è un animaletto. Ciò non significa assolutamente che della bestiola si possa abusare a piacimento: sono ovviamente contraria a qualsiasi forma di violenza gratuita verso gli animali, ai loro abbandoni, al loro sfruttamento e a tutto quanto concerna quell'ambito, anche perché non c'è bisogno di conoscermi molto approfonditamente per scoprire che ho cinque gatti e che l'unica femmina fra questi ha partorito circa venti volte, dandomi modo di rinnovare ogni volta i miei sentimenti di eccitazione ed emozione per la vita che viene al mondo, ma la mia esperienza coi felini (che, per la cronaca, sono liberi di scorrazzare sui miei balconi, in giardino e in tutte le benevole case del vicinato, quindi non sono certo palle di pelo da salotto) mi è servita anche a ricordarmi costantemente con quali esseri sto avendo a che fare. Mamma gatta non si è fatta scrupoli a divorare impunemente alcuni suoi cuccioli sani (che faccia fuori quelli malati è ahimé la norma, che si pappi pure quelli sani no, e giuro su Artemide che i croccantini non le mancavano affatto) né gli altri felini hanno concesso sconti a rivali in amore o a prede ferite. Una volta andammo ad un matrimonio e, ignari del fatto che saremmo tornati a casa ad un'ora decisamente tarda, demmo al gruppetto di felini soltanto la razione del pranzo; rincasati a notte fonda, trovammo il balcone insozzato di sangue, piume e penne: in mancanza d'altro, i gatti avevano lautamente banchettato con un paio di sfortunate gazze. Mi sono presa la libertà di parlare dei miei micetti non perché questo articolo sia effettivamente incentrato su animali e animalismo (o almeno non era questa la mia intenzione iniziale), ma perché credo che l'esaltazione della bestiola per molta gente sia quasi la colonna portante di un sistema atto a sostituire e demonizzare la prole, che di questi tempi tra l'altro non gode di buona fama grazie anche ai colpi inferti da... uhm, diciamo una particolare branca di femministe estremiste che non ci tengono affatto a distruggere lo stereotipo della zitellona acida e gattara (a dire il vero nemmeno io sarei una buona pubblicità, ma giuro che non sfioro nemmeno lontanamente i loro livelli) e si proclamano libere e indipendenti dal giogo dei marmocchi. Talvolta gli insiemi degli animalari e delle nazifemministe si intersecano inesorabilmente, e dai che non ci vuole molto a fare due più due e a capire che non può essere una coincidenza. Sono perfettamente consapevole che i bambini non siano affatto peluche da sistemare su una mensola e da spolverare alle calende greche, ma possibile che nel giro di qualche decennio siano passati dall'essere il germoglio alla società ad avere la fama di branco di deformi mostriciattoli succhiasangue? Non si può semplicemente trattarli per quello che sono, ovvero cuccioli di esseri umani che hanno appunto la dignità di esseri umani, che non rendono né il paradiso né l'inferno la vita dei loro genitori, che non sono intercambiabili con un cagnolino ma che, tutto sommato, sono pur sempre nuove vite innocenti e quindi hanno una valenza positiva a priori? Io rabbrividisco davanti a determinate dichiarazioni di gente che si vanta (...) di disprezzare i bambini, perché in genere dietro a queste manifestazioni di modernità e di emancipazione da una concezione arcaico-ereditaria della famiglia si nasconde un certo rancore verso il genere umano (animali meglio degli uomini!!11!1!) e il nucleo familiare inteso come unità costituente dello Stato e come vero e proprio tessuto della società. Per alcuni forse si può anche parlare di fuga dalle responsabilità e di mancata presa di coscienza della propria fascia d'età (i bambini sono generalmente associati al definitivo tramonto della figura del genitore come figlio, sancita proprio dalla nascita della prole, che ufficializza anche davanti alla società il nuovo ruolo da adulto di un dato individuo), per altri di puro disprezzo per l'ordine costituito che appunto vede la famiglia come fulcro del tradizionalismo (sfornare marmocchi è retaggio del patriarcato!!11!1!), per pochi eletti di piena e rispettabilissima consapevolezza della propria inadeguatezza rispetto al ruolo di genitore. Il bambino, inoltre, felicemente ignaro di se stesso, tende ad abbattere inconsapevolmente le barriere sociali presentandosi, come mi è accaduto l'altro giorno, candidamente davanti a dei perfetti sconosciuti senza risultare molesto e mettendo in comunicazione un po' noi stessi col resto del mondo, facendo condividere a tutti un po' del proprio dolore con un pianto senza freni o un po' della propria gioia con una corsetta nei dintorni e ricordando a chiunque, e in primis ai suoi genitori, che al mondo nessuno è solo, che siamo un consorzio umano e che a volte sarebbe carino rendere visibili i sottili fili di ragnatela che ci uniscono l'uno all'altro. Il resto è fuffa.

Indy: - Sai che per una donna single scrivere un'apologia della maternità equivale a restare zitella, no?
Io: - Perché?
Indy: - Hai presente la tiritera di zia Jane sull'immaginazione, no? Bene, in questo caso la terza tappa l'hai nominata tu.

giovedì 19 giugno 2014

Mors tua, laetitia mea

Per quanto io adori e veneri sommamente la classicità, devo riconoscere di essere grata a chi di dovuto per essere nata agli sgoccioli del ventesimo secolo: per esempio, in quanto donna, ho dei diritti che un tempo non mi sarebbero mai stati riconosciuti, ma, se vogliamo essere più prosaici, noi "moderni" abbiamo anche detto addio ai vasi da notte, abbiamo l'elettricità, l'acqua corrente, i computer, la pizza, il cioccolato e un sacco di altre cose utilissime e fighissime che ci hanno migliorato la vita in un modo non indifferente e per di più in un arco di tempo relativamente breve. Certo, per contro devo ammettere che la nascita in quest'epoca mi ha precluso la conoscenza di tali e tante opere dell'ingegno umano, ma mi consolo dicendomi che molto probabilmente se fossi nata nell'epoca prefissata avrei avuto decisamente molte più probabilità di nascere in una famiglia di gente comune a cui, a dire il vero, non poteva fregare granché quale fosse l'ultima opera scritta dal Sommo o da chiunque altro e la cui preoccupazione principale sarebbe stata sfamare tutte le bocche di casa (in genere piuttosto numerose). Devo inoltre riconoscere di essere nata nella parte "ricca e civilizzata" del mondo che, nonostante l'attuale crisi economica e i suoi sempiterni problemi, è infinitamente meglio di una qualsivoglia zona dell'Africa centrale o di un villaggio sperduto in Medio Oriente. Sono nata fortunata, dunque, e, sebbene talvolta venga smossa da moti di nostalgia per epoche che non ho mai vissuto, non ci vuole molto tempo per farmi ritornare in me e pensare che al massimo la sfiga maggiore è stata non nascere in un'epoca più avanzata in cui gli individui avessero a disposizione la macchina del tempo per viaggi di durata più o meno lunga. Perché se c'è una cosa che proprio non riesco a "perdonare" agli antichi è la seguente.
Non molto tempo fa ho guardato due delle trasposizioni cinematografiche del romanzo "Quo vadis?" di Henryk Sienkiewicz (per la cronaca, la prima è il kolossal peplum del 1951 e la seconda, più recente, è una produzione polacca del 2001) e sono rimasta profondamente colpita dalle scene in cui venivano massacrati i cristiani; non tanto per l'identità delle vittime o per la correttezza della loro condanna, ma per le modalità di esecuzione: che gli antichi non fossero soliti andarci troppo per il sottile non era certo una novità per la sottoscritta, però vederlo in un film in cui non si può che provare una profonda empatia per gli sventurati di turno mi ha lasciato l'amaro in bocca e un nodo in gola. In genere, soprattutto quando si parla di classicità, siamo abituati ad assistere a scene di guerra che ci portano a tifare per l'una o per l'altra parte o comunque, quando si scivola nell'ambito della schiavitù, a pensare che in fondo per l'epoca fosse non un crimine ma una cosa di ordinaria amministrazione. Giusto, giustissimo. La guerra, per gli antichi, non aveva affatto la valenza negativa che ha assunto oggi: faceva parte della vita quotidiana ed è perfino superfluo specificare che a Roma le porte del tempio di Giano erano quasi sempre aperte e anzi ci si meravigliò non poco quando furono chiuse durante il principato di Augusto. Era il loro pane quotidiano e, per quanto riguarda più specificamente i Romani, era la base su cui avevano costruito il loro impero, la loro civiltà: non c'è Roma senza guerra, e tra l'altro se si vantavano di discendere da Marte un motivo ci doveva pur essere, no? Da una visione così naturale, disinvolta, quasi sfacciata del conflitto armato tra popolazioni (vedi Tacito che si lamentava di non avere eventi bellici contemporanei di primaria importanza da narrare) non poteva che derivare una totale indifferenza nei confronti della schiavitù: era le legge del più forte, il premio del vincitore. I Greci, invece, non avevano le mire espansionistiche della progenie dell'Enialio ma lo sprezzante appellativo di "barbari" destinato ai popoli non ellenofoni la diceva piuttosto lunga sul loro concetto di civiltà e umanità. La vita di ciascun individuo di nascita libera, poi, era strettamente connessa al suo ruolo nell'amministrazione della città e la distinzione tra esistenza pubblica e privata era praticamente inesistente: l'esistenza di una persona era funzionale solo in base al ruolo che poteva svolgere per la collettività, non rivestiva una certa importanza in quanto semplice e pura vita da salvare e tutelare e perciò chiunque si fosse macchiato di crimini più o meno gravi era inevitabilmente condannato a supplizi e morti a dir poco raccapriccianti. Credo che si pensi relativamente poco a questo lato della classicità, la quale in genere richiama alla mente uomini in toga che tengono in mano pergamene, donne lussuriose lascivamente sdraiate sui triclini o tenaci soldati che combattono e muoiono eroicamente; le atrocità delle guerre, essendo più recenti, ci sono anche più familiari e ci evocano spettri di un passato ancora fresco d'inchiostro, ma ci si ricorda relativamente poco della schiavitù, dai cui orrori solo in pochi si salvarono: in rari casi era perfino preferibile essere lo schiavo di un nobile piuttosto che un uomo libero ma povero. Qualche voce fuori dal coro nell'epoca classica in effetti si era levata, ma il cambiamento più radicale si verificò soltanto con l'avvento del cristianesimo, sebbene, ahimé, la scia di sangue fosse ben lungi dall'arrestarsi nei secoli a venire. È stato impiegato comunque troppo, troppo tempo per capire che la vita era l'unica cosa su questo mondo infame il cui valore non potesse essere nemmeno lontanamente stimato e che ciascuna persona avesse semplicemente il diritto di vivere, e di vivere bene, in virtù del suo status di essere umano. Gli spettacoli della morte che tanto dilettavano Romani e non negli anfiteatri (pratica che comunque permarrà nei secoli successivi perché alla gente piace il sanguinolento) erano probabilmente la forma più abietta e immonda di divertimento mai concepita sin dalla notte dei tempi; pensavo che un salto di qualità si fosse avuto con l'invenzione della TV, ma rabbrividisco pensando al dichiarato successo di certi programmi televisivi di cronaca nera che si soffermano ossessivamente e morbosamente sulle modalità di esecuzione della sfortunata vittima di turno e sui retroscena del delitto e fanno di tutto per aizzare la folla più o meno velatamente, perché, oltre a scatenare beceri istinti forcaioli, individuano nel colpevole di turno il capro espiatorio di tutti i mali del mondo e lavano implicitamente le coscienze del popolino, che è tutto tranne che santo. Vox populi, vox Dei 'sta ceppa. Chi compie questo genere di azioni tenta biecamente di sfruttare l'altrui sventura come valvola di sfogo per la rabbia e l'indignazione repressa della gente comune e l'idea che qualcuno possa trarre qualche forma più o meno diretta, più o meno marcata, di diletto dalla dipartita di qualcun altro, fosse anche quest'ultimo il peggiore fra gli uomini e non una ragazzina innocente, mi disturba profondamente. Il cosiddetto turismo dell'orrore che vede partire pullman e gruppi organizzati per andare a vedere il luogo in cui si è consumata una data strage mi causa un ribrezzo indescrivibile e in tutto ciò non posso che vedere un riverbero della bruciante passione dei nostri antenati per le esecuzioni pubbliche. Quando un decesso viene spettacolarizzato, viene automaticamente annullato tutto ciò che v'è dietro: viene annichilita la vita di un uomo, una vita, dannazione, una vita, un'intera esistenza vista in funzione della propria fine! È disumano e basta. Sono state abbandonate, nel corso del tempo, torture e stragi col preciso scopo di intrattenere la plebe, ma il fatto che quest'ultima tragga la propria linfa da certe notizie che dovrebbero suscitare solo sentimenti di profonda pietà mi fa capire che ancora siamo lontani anni luce dalla vera umanità. Abbiamo abolito ufficialmente questo genere di cose (un traguardo niente affatto scontato, i cui fautori ringrazierò in eterno), ma mi amareggio pensando che ogni qualvolta si presenta la ghiotta occasione di squadrare la Moira di qualcun altro dall'alto in basso nessuno si risparmi. La vita va bene, ma la morte è meglio.

giovedì 12 giugno 2014

Beata solitudo, sola beatitudo

Visitatore, prima di entrare, deponi ogni alterigia, superbia e gloria. Questo vento ti porta la pace, queste pietre la primavera dell'animo. Ricordati che fuori di qui tutto è vanità e questo muto sole guarda le tue sciocchezze, le tue ricchezze perse, le tue malvagità gratuite, le tue invidie non represse. Noi qui cantiamo in eterno la gloria del Creatore, noi che prima di te coniugammo il cielo azzurro con la terra madre, noi che soffrimmo e respirammo, come ora tu nella bolgia delle tue falsità, noi che siamo uniti con l'eternità dell'essere in un continuo risucchio dell'essenza vitale. Quando tornerai nel tuo mondo, abbi in mente questa pace e serenità; penetra nel tuo animo e ritorna bambino. Ricorda che d'immortale vi è solo la Morte, benefica e pietosa verso di te. Cos'è la vita se non un soffio, un ritorno di polvere, un nulla? Essa è la vera estranea, non la Morte, fedele compagna che mai ti delude. Guarda il Signore, Egli è dentro di te! Canta le sue lodi, come queste mura, queste pietre, queste piante, questi uccelli, queste nuvole. Qui il tempo si è fermato, tutto è immobile, lo stesso come cento e mille anni fa e così sarà nei tempi, mentre le nostre anime estasiano nella luce Divina. Attraverso la carne raggiungemmo lo spirito, ed attraverso lo spirito la Pace.
Questo testo è stato trovato in una cappella del mio paese che, isolata, sorge in campagna, su un viottolo secondario che porta al mare. Se ne ricordano in pochi, ormai, e sono ancora meno quelli che la conoscono. Forse è rimasta solo qualche anziana a portare i fiori ogni settimana. C'è una nicchia nella cappella che ospita un affresco davanti al quale mi piacerebbe fermarmi anche per ore e ore a pensare, o semplicemente a stare zitta e fissare quei volti corrosi dal tempo e da mille mani devote che di volta in volta hanno chiesto una grazia per se stessi, per un parente o per un amico. La cappella è un edificio solitario in mezzo ai campi ed è perciò rimasta indenne ai rumori molesti della città o delle auto dei vacanzieri. Qui è davvero tutto silenzio. Il dipinto per onorare il quale è stato costruito questo piccolo luogo di culto (sì, fu trovato prima l'affresco per caso, e poi si edificò la cappella per conservarlo) è oltremodo rovinato e quello che resta assume quasi i contorni del grottesco e del caricaturale, ma in virtù della mia totalizzante passione per l'antico e la mia dedizione alla meditazione, la preghiera e il pensiero non posso che esserne inesorabilmente attratta.


Quando qualcosa è antico, riesco ad entrare meglio in sintonia con l'universo. Mi trasmette un profondo senso di pace e armoniosa completezza: la preghiera, certo, non deve dipendere da un dipinto, altrimenti si scivola nell'idolatria, però... più una cosa è antica, più ha assaggiato l'infinito. Davvero sei Tu qui da ancora più tempo di quest'affresco, e davvero ci resterai nei secoli dei secoli?, mi verrebbe da chiedere al cielo. Il dipinto non ha alcun valore archeologico, non è un capolavoro, è solo una comune espressione della fede popolare dei primissimi anni del Settecento, e forse è anche il suo essere non speciale per gli altri a renderlo speciale per me: è qualcosa di particolare, intimo e segreto, è il mio interlocutore silenzioso, è la mia porta per l'eternità, è la mia estasi dell'anima. Adoro pensare all'infinito perché mi trasmette la sensazione di essere solo una minuscola tessera smaltata di un mosaico immenso, perfetto e bellissimo; una tassello insignificante e simile a tanti altri senza il quale l'opera finale sarebbe però incompleta: adoro pensare alle cose più grandi di me, che io non capisco e che non capirò mai, e mi sta bene così, perché altrimenti non avrei qualcosa da indagare, anche invano. Ogni buon filosofo, a mio parere, dovrebbe, prima di esprimere le proprie congetture, riconoscere che sta compiendo un lavoro necessario ma inutile: sta cercando qualcosa che non si troverà mai e poi mai, eppure sta rispondendo ad un preciso impulso dettato dalla sua mente, dalla sua umanità. Si sta protendendo verso qualcosa di irraggiungibile per definizione, ma senza quel già vano tentativo di comprendere cosa ci sia al di là del visibile non starebbe dando fondo a tutta la sua potenzialità di essere umano. Ci sta distinguendo dalle bestie! Un lavoro che s'ha da fare. Il filosofo è colui che, agganciato ad una corda di sicurezza, si protende verso un burrone e vede, vede quanto è davvero immenso il nulla, il nero che si inabissa, e prova a fare supposizioni su quanto possa essere profondo il baratro, su come possa rivelarsi l'impatto, su cosa ci sia una volta toccato il fondo, sul modo migliore per scendere. L'ignorante, invece, se ne sta in disparte, sa che l'abisso è profondo e ha dunque ragione, ma non ci si è mai affacciato, non sa di cosa si parli, lo sa per partito preso, per sentito dire. A cosa serve affacciarsi all'abisso se già altri, la cui parola è degna di fede, lo hanno descritto per quel che è possibile? A cosa serve la filosofia se tanto poi al fondo dell'abisso non arriva nessuno? Semplicemente ad essere consapevoli di quanto sia profondo il baratro: una cosa cambia profondamente significato se ad entrare in contatto con essa sono i nostri propri sensi, e così, quasi involontariamente, si forma qualcosa di nuovo, il feto di un pensiero, di un parere, di un'opinione. Poi c'è chi ha fede, ma non la fede cieca. Gli stupidi sono ciechi. Gli stolti si buttano nel crepaccio senza riflessione, confidando in chissà cosa, sperando in un qualche miracolo, affidandosi inconsapevolmente a qualcuno di più potente, relegando a quest'ultimo la responsabilità di eventuali danni. La vera fede consiste nel prendere una scala e scendere consapevolmente nel burrone, gradino dopo gradino, roccia dopo roccia, vivendo ogni passo come se fosse il primo e mantenendo intatta la serenità, e pensando che, anche se magari ci si è procurati una scala troppo corta, poi si può sempre trovare un modo di scendere ancora più giù. E poi quando hai che a fare col crepaccio devi fare i conti con te stesso: non ci sono gli altri a distrarti, a offrirti diversivi o, peggio, persone da incolpare per le tue malefatte: sei momentaneamente fuori dalla società, è vero, ma nemmeno i pesci della Grande Barriera Corallina nuotano sempre nelle turbinose correnti dell'oceano. A volte, più spesso di quanto si creda, è necessario premere il tasto "pausa" per essere sicuro di trovarti nel vortice di tua spontanea volontà e di essere capace di gestirti e di esprimere la tua volontà, senza farti trascinare passivamente dalle onde. Estraniati, recupera le redini, fa' pace con ciò che sei.
Vedi, è questo il bello della solitudine: non sei mai davvero solo, ma ci sei tu e te stesso, e a collegarvi è il sottile filo rosso dell'infinito.

domenica 8 giugno 2014

Chartacaeus spiritus - La chiave di Sarah

Ho letto questo libro in due giorni, forte del fatto che ormai siano iniziate le vacanze estive e possa dedicarmi finalmente cuore e anima alla mia passione. E ho anche deciso di inaugurare questa nuova rubrica perché, dopo aver letto certi libri, sento l'impellente bisogno di dire qualcosa, anzi, di scrivere qualcosa, e devo pure farlo subito, sennò poi me ne dimentico. Ah, e ci saranno tutte le anticipazioni possibili e immaginabili, perché quando scrivo non riesco a trattenermi.
Allora.
Ho letto questo libro in due giorni (sono più o meno 320 pagine, la lettura è scorrevole e anche in vacanza io mi sveglio naturalmente alle sei del mattino): il tema trattato è qualcosa di altamente inflazionato, l'Olocausto, ma almeno qui l'autrice ci risparmia le descrizioni strappalacrime dei campi (che, intendiamoci, erano davvero raccapriccianti, ma molti autori si ostinano a scivolare in patetiche ridondanze) perché Sarah, la protagonista, riesce per sua fortuna a scamparvi, ma ad un prezzo enorme. La storia si sviluppa su due archi temporali: il primo, il 1942, l'epoca di Sarah; il secondo, il 2002, il tempo di Julia Jarmond, la donna che indaga su di lei. Sarah Starzynski è una bambina ebrea di origine slava che vive a Parigi con il padre, la madre e il fratellino Michel, di quattro anni. Il 16 luglio 1942 la sua famiglia è una delle vittime del rastrellamento del Velodromo d'Inverno, ma ad arrestare gli ebrei stavolta non sono i nazisti: è la polizia collaborazionista francese. Durante i momenti concitati dell'arresto, mentre i genitori di Sarah preparano le valigie per quel viaggio senza ritorno, la bambina chiude a chiave il fratellino Michel nell'armadio a muro, dotandolo solo di una torcia e un po' d'acqua, e gli promette di tornare. Madre, padre e figlia dunque sono spediti prima al Velodromo, in condizioni disumane, e poi separati per sempre al campo: i genitori, nuovamente trasferiti, terminano poi i loro giorni ad Auschwitz, ma Sarah riesce a scappare dal campo con un'altra bambina, Rachel, grazie ad un foro nel filo spinato e ad un moto di pietà di un poliziotto. Dopo una corsa senza fiato per sfuggire alle autorità, le bambine giungono esauste alla cascina di un'anziana coppia di coniugi e vengono da loro salvate: Rachel, malata di dissenteria e bisognosa di cure, non può nascondersi durante la retata nazista e viene catturata (a nulla valgono i tentativi di farla passare per la nipotina dei due signori), ma Sarah scampa ancora una volta al suo destino infausto e chiede poi ai suoi salvatori di accompagnarla a Parigi per andare a liberare il fratellino. Quando torna a casa sua, però, la trova occupata da un'altra famiglia: disperata, apre l'armadio segreto con la chiave che aveva tenuto con sé e scopre il cadavere del piccolo, morto d'inedia, il cui tanfo era attribuito dalla nuova famiglia ad un malfunzionamento delle condutture idriche. Ad assistere a quella scena scioccante, oltre alla bambina e ai suoi accompagnatori, ci sono due dei componenti della nuova famiglia, ovvero il padre e il figlio (la madre saprà solo molti anni dopo cos'era accaduto). E questo bambino che aveva visto piombare nella sua nuova casa Sarah e aveva assistito al macabro ritrovamento diverrà poi il suocero della protagonista "moderna", ovvero Julia. Sarah verrà poi adottata dai suoi salvatori e cresciuta come figlia loro accanto alla loro prole naturale: tenterà di scappare dal passato partendo per gli Stati Uniti, dove si sposerà e avrà un figlio, ma, incapace di dimenticare e attanagliata da una lacerante senso di colpa per la morte del fratello, si suiciderà. Per la cronaca, la parte interessante è solo quella storica che ho appena raccontato: le vicende di Julia, invece, che prima vengono narrate in parallelo a quelle di Sarah e poi occupano tutta la seconda parte del romanzo, sono una noia mortale. Giuro che avevo previsto e indovinato tutto.
Indy: - Beh, sei la Pizia... se non fosse successo, mi sarei preoccupata.
Giusto.
Julia, invece, inizia ad interessarsi alla storia quando le viene chiesto di scrivere un articolo sul sessantesimo anniversario del rastrellamento del Velodromo d'Inverno. La tipa, infatti, è una giornalista americana che vive a Parigi perché s'è sposata un francese e incarna il perfetto stereotipo della donna in carriera, dotata perfino di un capo stronzo, una fidata coppia di amici gay e tre amiche comprensive. Ha fatto una figlia con un cretino che probabilmente a diciott'anni era il belloccio del liceo, che l'ha pure tradita con la sua vecchia fiamma e quando è finalmente rimasta incinta dopo una serie di aborti spontanei le ha chiesto di scegliere fra lui e il bambino (curiosità: nel frattempo lui continuava a tradirla con l'altra donna). Ho previsto che sarebbe scappata dalla clinica per abortire quando durante l'attesa stava riflettendo sul suo consenso alla decisione del marito; ho previsto che lei e lui si sarebbero separati definitivamente sin dall'inizio del romanzo (una riconciliazione sarebbe stata troppo scontata); ho previsto che avrebbe chiamato la sua seconda figlia Sarah perché il suo nome non veniva mai menzionato anche in scene in cui sarebbe stato necessario; ho previsto che dopo il divorzio dal francese belloccio si sarebbe messa col figlio di Sarah Starzynski (a cui era stata lei a rivelare la vera identità della donna) perché quando dice di essersi trasferita a New York accenna anche ad un nuovo compagno, tale Neil, con cui sta non perché è innamorata ma perché le piace la sua compagnia e non voleva stare da sola. Insomma, passione zero (consiglio: sii più onesta con te stessa, comprati un gatto). Ho avuto la conferma di ciò che avevo supposto quando ho letto che anche il figlio di Sarah, che invece viveva in Italia, si era trasferito a New York (non era ancora stato menzionato nemmeno il fatto che anche lui avesse divorziato, ma avevo intuito che il motivo del trasferimento per lui doveva essere quello).
Insomma, o io ho un intuito sherlockiano (sì che ce l'ho) o il libro, tolta la parte storica, è un romanzetto rosa di poco conto. Io direi entrambe le cose.

giovedì 5 giugno 2014

Miserere mei!

Se c'è una cosa che si può imparare da Internet (ecco, forse solo quella) è che al degrado e allo squallore non c'è mai fine. Ripetete con me: MAI. Ripetetelo fino ad esserne pienamente consapevoli. Bisogna partire dal principio che sulla Rete tutto è relativo e tutto è concesso e il buon senso comune, quella massa informe di precetti non scritti che garantivano comunque un vivere pressoché civile, qui ha lo stesso valore di un sesterzio in Cina. È giusto? No, che domande. Ma dato che tutti pensano che, siccome è la Rete, niente è reale, hanno deciso di usare Internet come il proprio parco giochi. E mai che cadete dall'altalena e ve pijate 'na botta an fronte, direi. Il problema nasce dal fatto che questa gente possa scegliere di applicare cotali principi alla vita di tutti i giorni: tra il prendersi queste libertà nella propria vita virtuale e il prendersele nella propria esistenza vera, reale, tangibile il passo è pericolosamente e disgraziatamente breve. Chiunque mi conosca, almeno su Internet, sa che sono inevitabilmente e ambiguamente attratta dal disagio e non perdo occasione per gettare qualcuno o qualcosa nella fossa dei leoni; forse l'unica utilità che riesco a riconoscere ai disagiati è quella di farmi salire alle stelle l'autostima, anche se ammetto che non ci sia qualcosa di molto nobile nel constatare di essere superiori allo zero (insomma... quando sei conciata male perfino questo può aiutare). Dove voglio andare a parare? Ma nella questione directioners, ovvio! Mi ero ripromessa che prima o poi anch'io avrei dedicato un articolo alle simpatiche e inconsce protagoniste di questa pagina ed eccomi qui. Con quelle ragazzine ho a che fare da molto tempo (sì, ammetto anche che qualche volta -più di qualche volta- me la sono cercata) e mi stupiscono sempre per la loro capacità di sguazzare impunemente nello schifo che si sono create da sole: non "schifo" perché ascoltano gli One Direction o chissà chi altro, ché alla fine quei cinque sono solo un innocuo e ameno gruppetto di bimbiminchia, ma perché fanno fare a questi poveracci le cose più oscene, roba che insomma sarebbe degna della vita sessuale di una coppia composta da un greco e una giapponese. In due anni di appassionato ardore nella ricerca del disagio sono venuta finalmente a conoscenza delle dinamiche con cui l'essere umano si può degradare sino all'infimo stadio: all'inizio mi scandalizzavo per gente che offendeva il prossimo a casaccio in virtù dei differenti gusti musicali, ma, me misera!, non avevo nemmeno la più pallida idea di quello che sarebbe accaduto successivamente. Non potrei mai e poi mai stilare una classifica del disagio perché semplicemente ogni cosa fa schifo a modo suo: certo, anche Dante, che pure aveva a che fare con l'intera gamma dei peccati del genere umano, è riuscito ad sistemarli in ordine di gravità, ma il Sommo Poeta (che qui ammetto di aver nominato invano e nei confronti del quale farò ammenda leggendo un canto a caso dell'Inferno) non aveva mica a che fare con un'orda di tredicenni che magari attendono ancora il menarca e si comportano come se la loro ultima partner lavorativa fosse stata la Messalina dei tempi d'oro. Fra le cose che, per usare un eufemismo, mi hanno lasciato maggiormente interdetta, ci sono state le fyccine (nel gergo, questo termine designa gli scritti dei fan di bassissima qualità) su EFP, il quale sito, come un novello Paese delle Meraviglie in cui ogni regola è sovvertita, ospita (o ha ospitato) i peggiori aborti della mente umana. Si va dai classici racconti in cui il cantantucolo di turno è un selvaggio stupratore a quelli in cui lo stupro sfocia pian piano (nei tempi delle fyccine, il "pian piano" equivale in media a "due giorni") in una relazione malata tra un pazzo deficiente che nella vita reale si meriterebbe al massimo un TSO e una portatrice sana della brutta copia della sindrome di Stoccolma. Particolarmente rilevanti, poi, le relazioni a tre, quattro, cinque e diciassedici (in genere omosessuali e comprendenti i membri del gruppo) e quelle in cui si giunge perfino alla pedofilia e all'incesto.
Sì, la pedofilia e l'incesto.
Recentemente è comparsa pure una tipa che ha scritto di una mocciosa che si è fatta ingravidare da Justin Bieber all'età di cinque anni (il riferimento è alla triste storia di Lina Medina)
Sono argomenti disturbanti già di per sé, ma quando vengono maneggiati dalle ragazzine creano un effetto che forse può solo essere vagamente reso dalla reazione di una bottiglia di coca-cola quando vi si gettano dentro delle mentos. Altre vette di rara bellezza sono state raggiunte con le fyccine a tema storico: alzi la mano chi di voi non ha mai sognato di essere violentata, in veste di ebrea, dal proprio cantante preferito trasformato per l'occasione in un soldato nazista (mi si rivolta la bile solo a scriverlo).
- Io, e che cazzo.
- Indy, tu non conti. Tu sei me.
- Seh, te piacerebbe.
Ormai, dopo tutto questo tempo, è perfino sbollita la rabbia. Prima mi si faceva il sangue acido solo a leggere i titoli di quegli orrori che, per la cronaca, mi orripilavano non per i temi trattati (da brava classicista, nessuna perversione sessuale o cattiveria di sorta può minimamente scalfirmi), ma per l'abominevole combinazione tra: concentrato di Mary Sue e Gary Stu, errori grammaticali che non ci resta che piangere, associazione tra poppanti e idoletti di serie z, stupro seriale nei riguardi di qualsiasi campo dello scibile umano, temi rilevanti e delicati; ora, invece, non mi aspetto più nulla. Non so se possa esistere un "peggio" rispetto a quello che ho già visto (in realtà sì, lo so che esiste, io lo so, ma ogni volta mi piace essere ottimista e compiere lo stesso errore, quello di pensare di aver visto tutto ormai) e l'unica cosa che mi chiedo è come facciano queste tipe a vivere la loro vita fuori da Internet, ammesso che ne abbiano una. Io ho visto gente che s'è creata un secondo profilo su Twitter, l'ha spacciato per quello di una presunta migliore amica e dopo ha inscenato la morte della suddetta per acchiappare seguaci. Questa non è la follia di un momento, la frasetta scritta lì per lì per creare un polverone, è qualcosa di pianificato per mesi e mesi a mente fredda. Fa quasi paura.
- Beh, se proprio vogliamo parlare di doppie personalità...
- Indy, taci.
Un'altra ha inventato di essere stata stuprata, salvo poi sbugiardarsi qualche giorno dopo facendo un quiz idiota su Twitter in cui dichiarava di essere vergine. In molte si sono giocate la carta del bullismo e del cyberbullismo (i pochi maschi disagiati hanno approfittato dell'occasione per fare le vittime e rimorchiare un po'); un'altra ancora ha inventato di essere stata pestata dalla sua amica del cuore, un'altra ha detto di essere stata quasi strangolata dalla madre col cordino dell'Iphone...
- No Maria, io esco. Sayonara, babbei.
... e poi c'era quella che ha millantato di essersi presa il tetano tagliandosi con una lametta arrugginita. Una ha puntato tutto sulla morte della madre, un'altra sull'abbandono da parte del padre; c'è chi s'è inventata un tumore al cervello e chi ha candidamente manifestato il desiderio di averne uno (non scenderò così in basso da augurare loro che tale desiderio si realizzi, perché so che non sono consapevoli di quello che dicono), chi invece s'è creata una gravidanza e ha anche espresso i propri dubbi in merito al nome da scegliere per il pargolo tramite sondaggio (allo spareggio, comunque, c'erano i nomi di due degli idoli più gettonati). Molto fantasiosa quella che voleva vendersi il rene per pagarsi il biglietto per il concerto degli idoli, meno originali quelle che si tagliano e pubblicano immagini col sangue in tutte le salse (la battuta nasconde una macabra verità: ci sono in effetti alte probabilità che quello delle foto sia ketchup dopo un veloce ritocco con Photoshop). Ai crimini commessi da questa banda di decerebrate si aggiungono il deturpamento di monumenti -io stessa fotografai le loro barbare incursioni sul campanile del Santuario di Pompei-, il bullismo esercitato su alcune poveracce ree di essere state baciate dalla Dea Bendata al posto loro, le calunnie diffuse sul conto di queste ultime, il furto, lo sperpero delle finanze altrui e altre amenità che ora non mi sovvengono. Concludo in bellezza con quella che forse è l'azione più eclatante: il pestaggio di una ragazza di colore ad un raduno di beliebers a Milano nel settembre dell'anno scorso. Alè. Cos'è che avevo detto all'inizio? Che la linea di demarcazione tra vita reale e vita virtuale era sottile? Mi correggo: qui è inesistente.

P.S. Trovo che questa canzone si addica particolarmente alle mocciose. Salutatemi la borsetta di mammà.