giovedì 31 luglio 2014

De viris et mulieribus

Sì, lo so, ho già dissertato parecchio su questo tema, ma lo vedo sempre così fecondo di nuovi spunti che non riesco a stare zitta: tuttavia, è più probabile che stavolta la scintilla sia scoppiata in seguito alla magica combinazione tra la lettura di questo articolo e il tedioso e puntualissimo arrivo della Générale Krottendorf. Siccome non c'è due senza tre, riporto anche la definizione che il dizionario dà del femminismo, perché a quanto pare le femministe ci tengono molto e ci sarà molto utile. Anzi, meglio iniziare proprio da lì: il femminismo parte dunque col principio che gli uomini siano avvantaggiati rispetto alle donne e perciò rivendica per queste ultime gli stessi diritti dei loro compagni di razza (quella umana, s'intende). Cosa che in effetti era giustissima nell'epoca in cui il femminismo sprigionò i suoi primi bagliori (fine Settecento) e poi registrò il suo boom (metà del Novecento), ma che nell'Occidente moderno ha poche ragione d'esistere, semplicemente perché ormai le femministe vogliono tenere, come si suol dire, il piede in due scarpe e sono sostanzialmente indecise se considerare le donne realmente pari agli uomini o facenti parte delle "fasce deboli" della popolazione come anziani, bambini o disabili e riscuotere quindi le opportune agevolazioni. Così la reale azione del femminismo odierno si è radicalmente discostata dagli ideali originari che difatti sono rimasti a vegetare solo nelle definizioni dei dizionari, i quali tuttavia vengono prontamente rispolverati dalle paladine dei diritti in rosa ogni qualvolta una appartenente al loro stesso sesso osa essere in disaccordo con le loro opinioni. Se andate a cercare la definizione di "comunismo" sul vocabolario, a primo acchito vi sembrerà pure una cosa giusta e, perché no, perfino caruccia: se vi prendete la briga di sfogliare qualche libro di storia, capirete quanto la realtà si sia discostata dagli ideali. Aggiungiamo anche che l'iniziativa delle "Women against feminism" ha preso piede negli USA, Paese che in quanto ad estremismi non si fa mancare nulla e in cui la parola feminism è ormai spesso e volentieri associata ai più beceri deliri come nella migliore tradizione a stelle e strisce (tempo fa divenne famoso il caso di una che su Internet scrisse che non avrebbe mai dato il suo latte materno ad un eventuale figlio maschio in quanto già fisicamente più forzuto e dall'indole più prevaricatrice rispetto alle femminucce, roba che mi fa schifo solo a scriverla) e in cui, ahimé, le sparate poco condivisibili sono all'ordine del giorno, almeno per quello che ho visto. Se in Italia pagine femministe sono quelle come questa (in genere mi astengo dal far nomi, ma quando ce vo', ce vo') c'è poco da star tranquilli, visto che là dentro girano abnormi idiozie che vanno dal paragone tra uno stupro e una visita ginecologica alla candida dichiarazione da parte di alcune fan di odiare gli uomini e di non avere alcun problema: pullulano portatrici di fodero che scambiano due luoghi comuni scritti su Facebook da un ragazzino bimbominchia delle medie per una dichiarazione ufficiale rilasciata dalla Casa Bianca e non trovano nulla di male nel sesso fra due dodicenni, giustificano tradimenti coniugali se compiuti da una donna, negano l'esistenza dell'istinto materno che è roba da patriarcato, si vantano di mollare i figli come pacchi postali da chicchessia e vanno in giro blaterando ipocrisie sulla bellezza del corpo della donna che è bello sempre, comunque e dovunque. Piccola digressione: degni di nota sono anche i deliri sugli animali, che non c'entrano niente col tema della pagina ma a quanto pare fanno capire al pubblico che l'amore risparmiato agli uomini viene riversato sugli adorati pelosetti. Ah, e c'è un'alta probabilità che una buona percentuale delle storie lì riportate siano falsità astro(g)nomiche.
Aspetta. Queste sono la versione "ventunesimo secolo" della gattara dei Simpson?
A dirla tutta, sì.
Fermo restando che la loro baggianata migliore risale al 18 settembre 2013, data in cui a farne le spese e ad essere apostrofato come "maschilista di merda" è stato nientepopodimenoche il povero Aristotele (no, non il mio gatto, intendo il filosofo greco), ci terrei ad esprimere, aiutata dal mio fedele subconscio, le mie personali opinioni riguardo ai temi caldi del rapporto uomo-donna al giorno d'oggi e a dire che, personalmente, sopporterei a fatica le femministe anche solo per aver infestato la lingua inglese, e di conseguenza quella italiana, di raccapriccianti e insensati neologismi che ti fanno rivalutare in positivo il menù in una sola parola di Aristofane. Se proprio devo darmi un'etichetta, che sia "antisessista". Indy, procedi.
Cognome della madre, doppio cognome e affini. Spara, sorella.
In teoria l'idea sarebbe giusta: in pratica, dato che non mi sembra che la legge a tal proposito sia stata richiesta a furor di popolo, non vedo perché non lasciare le cose così come stanno e piuttosto provvedere a snellire la burocrazia per quei relativamente pochi individui che desiderano realmente cambiare cognome per acquisire quello della madre o di chi altro o perché quello del padre è fonte di imbarazzo e mette in ridicolo il soggetto in questione, situazioni che la legge italiana prevede già. Insomma, trovo che sia più ordinato che ci sia una norma di base da cui partire (e che io non appoggio in quanto "cognome del padre" e quindi "cognome di maggior valore": se l'usanza avesse previsto che il cognome fosse quello della cugina di terzo grado mi sarebbe andato bene lo stesso) e da cui poi chi lo voglia possa distanziarsi senza affrontare mesi di scartoffie e odissee attraverso uffici pubblici. Il doppio cognome per la prima generazione andrebbe pure bene, ma se malauguratamente i genitori della seconda generazione non sanno quale o quali dei quattro cognomi dare al figlio e quindi quale o quali dei nonni "privilegiare", che si fa? Si ricorre all'ordine alfabetico, ovvio, ma non è che dopo un po' di tempo poi si rischia di far scomparire più di qualche cognome... mmm, diciamo dalla P in giù? Ripeto: in teoria l'idea sarebbe giusta, ma nella pratica secondo me creerebbe problemi.
E che ne so io. Bellezza e società, procediamo.
Come al solito, quella del "siamo tutte belle" è una colossale idiozia: l'uomo, inteso come genere umano, ha sempre avuto dei canoni di riferimento riguardo alla bellezza dell'altro sesso per assicurarsi, almeno in tempi lontani, la buona salute della prole che sarebbe andato a generare. Paese che vai, usanza che trovi, canoni che cambiano: tuttavia, è cosa risaputa che ognuno di noi, donna o uomo che sia, abbia delle preferenze in ambito estetico e non v'è assolutamente nulla di male in tutto ciò. Persone che soffrono di disturbi come anoressia od obesità non sono belle a priori, sono innanzitutto malate e vanno curate: che poi l'amore possa andare oltre l'aspetto fisico e superarne le barriere come talvolta accade è una gioia che auguro a tutte le persone sulla faccia della Terra, ma il disagio fisico, spesso unito a quello psicologico, tende a persistere, e ignorarlo è pura ipocrisia. E no, non è ingiusto o crudele dire ad una persona che il vestito che indossa, tenendo conto del suo fisico, le sta male: sarebbe cattivo dirlo con tono offensivo, ma è encomiabile comunicarlo con buone intenzioni. Non tutti gli abiti sono fatti per tutte le persone e comprenderlo è uno dei primi passi verso la pacifica accettazione di se stessi e l'emancipazione dalle mode del momento che in nome della logica del vendere non tengono ovviamente conto della reale personalità del compratore e, manco a dirlo, ci vogliono tutti uguali (gombloddoh!).
Le tizie coi peli sulle gambe!
No, dai. Questo no. Non ha senso, non ha alcun senso. Se ci si vuole emancipare da tutte le mode del patriarcato, bisogna anche smettere di truccarsi, o peggio, lavarsi. Qualcuno riesce ad immaginarsi una cricca di diseredate dalla ragione che va in giro a lasciare fetori degni di un post-convivium inneggiando alla libertà e alla bellezza (aridaje col "siamo tutte belle"!). No? Perché le tipe dei peli potrebbero essere spaventosamente affini a questo ultimo, astro(g)nomico parto della mia mente. E comunque anch'io mi depilo quando mi pare e piace, anche se non posso farlo troppo spesso visto che al posto della pelle ho uno strato di carta velina trasparente, a tratti chiazzata di rosso e maculata da lentiggini, lividi, cicatrici e punture d'insetto varie e dopo una ceretta sembro una affetta da morbillo per le successive otto ore. E se non mi va di depilarmi non vado a sbandierarlo in giro né ne faccio un vanto. Se un uomo non si rasasse per protesta, metà del mondo gli darebbe del barbone (e a buon diritto, eh).
E quelle che in Spagna andavano in giro coi pantaloni sporchi di vernice rossa per sensibilizzare il pubblico sulle mestruazioni?
Trattienimi, altrimenti il prossimo sangue che vedrai scorrere non sgorgherà da una sola parte del corpo femminile.
Andiamo alla parte che mi piace di più, sesso e relazioni.
Ogni uomo, come ogni donna, deve essere libero di vivere la sua sessualità come meglio desidera e sognare perfino di farsi frustare nudo/a da Christian Grey o dall'insegnante di matematica del liceo se lo desidera, sebbene nella mia, e ripeto mia, personalissima visione del mondo, la promiscuità e la ricerca del piacere individuale a tutti i costi non godano di ottima fama. Sono dell'idea che l'atto sessuale abbia un valore molto più alto di quello che la società odierna tende ad attribuirgli riducendolo ad una sorta di sfruttamento del corpo altrui per il proprio godimento personale (questa... cosa mi sa di animalesco, e lo dico io che mi sono ritrovata spesso e volentieri ad assistere pietrificata allo spettacolo dei miei felini che organizzavano orge a quattro sul balcone di casa) e che se si cerca l'altro per sfruttarlo per i propri fini a questo punto è più onesto comprarsi un giocattolino di plastica che dà meno rogne e ti fa godere come dici tu. Bon, non riesco a concepire, per quel che mi riguarda, l'idea di un atto sessuale degno di questo nome esulato dall'amore, e con "amore" non intendo nemmeno la passione effimera di un paio di quindicenni, però non pretendo che il resto del mondo la pensi come me e lascio a uomini e donne dell'orbe terracqueo la possibilità di sfruttare gladio e fodero e di considerare la propria verginità come meglio credono (possibilmente senza contestare per principio altre idee solo perché erano quelle prevalenti in epoche passate), anche se spero che l'idea di due dodicenni che fanno bum bum disturbi più di qualcuno a prescindere dalle proprie considerazioni in fatto di sesso.
Non ti facevo così puritana. Pensavo che tutta la lettura della roba greca e latina ti avesse spalancato nuovi orizzonti.
In effetti è così che è successo, ma in negativo. E, per inciso, i libri classici e i gatti hanno contribuito a consegnare al mondo un'immagine di me che ti puoi facilmente figurare. Una ha perfino insinuato che praticassi la zoofilia con le mie bestiole, ma quando le ho risposto che se avesse voluto sapere com'era davvero la zoofilia avrebbe dovuto chiedere informazioni al suo fidanzato non l'ha presa bene.
Non ti farò mai più parlare di sesso finché campo.
Se continuiamo così, Indy, non credo che ci saranno molte occasioni di discuterne ancora.
Maternità e matrimonio. Ma risparmiati citazioni e riferimenti ai reality di Real Time.
Giurin giurello che non li nominerò manco per sbaglio. Come al solito, vive l'amour, anche se non vedo sinceramente perché due persone che si amano e hanno intenzione di stare insieme per il resto della vita, prima o poi non decidano di ufficializzare il loro legame convolando a nozze. Ci tengo a ricordare che sposandosi in chiesa o in comune non si prenotano automaticamente ristoranti, auto d'epoca o lune di miele: ergo, chi non ama le spettacolarizzazioni può tranquillamente ufficializzare la propria unione davanti alla legge tirandosi appresso giusto un paio di testimoni. Dire cose come "noi ci amiamo anche senza un foglio di carta" è un po' come dire "io non ho bisogno di registrare la nascita di mio figlio all'anagrafe, i miei sentimenti non cambiano con un documento". Ma vabbè, non è questo il punto: il matrimonio (inteso come unione stabile con un'altra persona, quindi alla fine anche la convivenza potrebbe rientrare in questa definizione) non dovrebbe essere lo scopo unico della vita di una persona, ma ciò non significa che non debba rappresentare un traguardo significativo, se non il più importante. Per quanto riguarda maternità e paternità, sancisco ancora una volta la libertà degli individui di scegliere se avere figli o meno, né ovviamente accuso di egoismo chi sceglie di non averne, tuttavia mi auguro che in un'ipotetica scelta tra carriera e affetti, filiali e non, tutti optino per privilegiare i secondi: sostentarsi è fondamentale ed è un bisogno primario, ma anche educare la propria prole lo è, e se, dico se, ci si può permettere di vivere decentemente anche con qualche euro in meno è meglio godersi il frutto della propria unione. Perché sì, un bambino è una vita, e in quanto vita, e soprattutto vita ai primordi, vale più di qualunque altra cosa: e una donna che sceglie volontariamente, in accordo col suo compagno (queste decisioni, in una coppia normale e democratica, si prendono in due), di dedicarsi a casa e prole non dovrebbe meritarsi l'appellativo di "mantenuta". Disgraziatamente, coi tempi che corrono è impossibile pure veder realizzato il binario femminista "carriera VS figli", perché la carriera è diversa dal lavoro, e spesso il lavoro consiste in un'occupazione sottopagata e talvolta pure umiliante, ragion per cui molte donne, se non possono avere il lavoro dei sogni, preferiscono, a ragion veduta, mollare un'occupazione precaria e stare con i bambini. Perché le donne madri vengono viste "meglio" rispetto a quelle che non hanno procreato? Semplice: procreare è sempre stato visto come lo scopo ultimo dell'esistenza di qualsiasi individuo per via di un elementare istinto di sopravvivenza della specie e la maternità è nella maggior parte dei casi più immediata e forte rispetto alla paternità per via del legame fisico che si instaura tra genitrice e nascituro. Non a caso, in genere, sono le donne a desiderare più intensamente figli rispetto agli uomini: eppure, sono loro che si sobbarcano nausee, vomiti, ingrassamento, dolori del parto, inestetismi successivi, sveglie fuori orario, noiosi allattamenti e simili; e poi a ricadere su entrambi ci sono i compiti del sostentamento e dell'educazione del pargolo. Perché avviene tutto questo, se l'uso della logica più basilare farebbe pendere la bilancia nettamente a favore degli svantaggi a meno che non si fosse dotati di una schiera di balie e di forzieri di dobloni? Perché amiamo, e vogliamo che il nostro amore e il nostro sangue si perpetui: siamo tesi verso un futuro che non possiamo raggiungere, e per sfiorare il quale ci serviamo dei nostri discendenti.
Lo studio, il lavoro, la carriera e tutto il resto.
Tutti, uomini e donne, hanno diritto a scegliere e perseguire la carriera che desiderano. Tuttavia, prendere atto del fatto che alcuni corsi di studi e alcune professioni sono più popolari fra le donne piuttosto che fra gli uomini o viceversa non è "sessismo", è pura realtà oggettiva. Il fatto che la stragrande maggioranza degli alunni degli istituti aeronautici appartenga al sesso maschile e la stragrande maggioranza delle alunne dei licei psicopedagogici appartenga al sesso femminile è semplicemente una constatazione oggettiva delle differenze fra i due sessi, che tuttavia non rendono l'uno inferiore all'altro o viceversa: siamo piuttosto complementari, diversi ma ugualmente dignitosi davanti al mondo e alla legge. Ovvio che chi vuol far eccezione è libero di farlo, ma è anche vero che certi stereotipi sono come le leggende: sostanzialmente falsi, ma con un fondo di verità. Ricordiamo che è la società ad essersi modellata sulla natura umana e non viceversa. E per quanto riguarda il lavoro e le quote rosa, le trovo una cosa assurda e, udite udite, sessista. Perché un sesso dovrebbe essere agevolato rispetto ad un altro? Alcuni potrebbero dire "beh, non c'è altro modo per avere più donne in politica o in altri campi", ma, novella saeculi: a noi non interessa avere più donne in politica o chissà dove, a noi interessa che a tutti siano date le stesse possibilità di accesso agli stessi mestieri. Se poi un sesso se ne vuole avvalere di più rispetto ad un altro, non è nostro compito interferire con le libere scelte altrui: non mi sembra che qualcuno si lamenti perché le insegnanti a scuola sono quasi tutte donne. E quando parlano di discriminazioni e soprusi, vadano a leggersi la storia di Italia Donati, giusto per ridimensionare i loro standard.
Tradimento, prostituzione et similia.
Francamente, trovo che talvolta il femminismo abbia fatto "danni", ovvero abbia sdoganato anche per le donne comportamenti che erano già biasimevoli per gli uomini. Gli uomini tradivano di più? Anziché "educarli" alla fedeltà, le donne hanno preferito promuovere il tradimento femminile. Gli uomini maturi se la facevano con donne molto più giovani di loro? Ecco che appaiono i "toy boy" per le signore. Peccato che siano apparsi anche i doppi standard: un matusa che sta con una ventenne è un vecchio marpione, un'anziana che sta con un ventenne è moderna. Un uomo va con molte donne? La risposta è chiaramente una donna che va con molti uomini! Trovo che nel vecchio sistema patriarcale il problema non stesse nelle virtù impartite alle donne, ma che le suddette virtù fossero impartite solo alle donne! C'è gente che per vendicarsi di duemila anni di soprusi è arrivata ad affermare che la fedeltà sia pari ad un crimine e la verginità un peso di cui sbarazzarsi al più presto! Ah, e comunque specifichiamo che la colpa, nel tradimento, è ugualmente spartita tra fedifrago/a e amante, e che quando parlo di deprecazione della prostituzione non intendo andar contro le povere ragazze che si ritrovano sbattute in strada dopo incontri con sfruttatori infami: a me piacerebbe che questo sistema degradante non esistesse, ma d'altro canto non posso andar contro coloro che vogliono usufruirne e soprattutto contro coloro che, consapevolmente, vorrebbero praticare il suddetto mestiere in tutta sicurezza (i o le "sex workers", come le chiamano nelle lande d'outremer), ergo... se proprio non si può far di meglio, legalizzatela, almeno ci sono meno rischi per tutti. Ognuno ha il diritto di far quello che gli pare del proprio corpo -sì, pure le veline, ché alla fine nessuno le ha obbligate a denudarsi sensualmente in prima serata sulla TV nazionale-.
Le buone maniere. Questa è difficile, lo so.
Questa è difficile perché da un lato io sono piuttosto risparmiatrice e, in quanto amante degli "altri tempi", anche delle relative usanze, ma dall'altro è anche vero che il mio sangue meridionale mi impone di offrire a tutti i costi, o almeno di offrirmi di offrire. Risolviamo la questione con un più semplice "paga chi invita". Però, sempre per quel che mi riguarda, non disdegno affatto attenzioni un po' retrò, e non perché io sia tanto debole e cretina da non sapere come si apre una porta da sola o voglia sfruttare qualcuno come schiavo, è solo che... insomma, ricordate l'articolo sui vezzi e le vanità? Ecco.
L'ultima parte, la più succosa quando si ha a che fare con te. La lingua.
Tutti quei neologismi come fat-shaming, skinny-shaming, slut-shaming (ma le parole presa per il culo non vanno più di moda?), mansplaining che di rimando invadono anche l'italiano insieme alla raccapricciante abitudine di sostituire le vocali finali delle parole con gli asterischi mi fanno venir voglia di dar fondo alla mia intera scorta di anatemi e di scagliarglieli addosso come i fulmini di Zeus. Mi trattengo solo perché la filosofia insegna a praticare l'enkràteia, e concludo dicendo che, viste le reazioni poco pacate delle femministe alle "Women against feminism", che di fatto non rinnegano le azioni delle loro antenate suffragette ma solo la piega del femminismo moderno, la risposta al dilemma è già stata trovata.

giovedì 24 luglio 2014

Aeque principaliter

Dopo aver letto questo articolo, ho rischiato di battere il mio record di bestemmie consecutive rivolte ai Superi e agli Inferi tutti (quello attuale è stato stabilito il giorno dell'esame di inglese, quando, dopo quattro asfissianti ore di test, scoprimmo con somma rabbia che l'acustica della stanza designata per l'ultima sessione -quella di ascolto- e il funzionamento dell'apparecchio apposito -una radio anni '90- facevano così schifo che anche un testo in italiano tratto da un libro pensato per i marmocchi dell'asilo sarebbe risultato incomprensibile; a causa dell'infima sfiga, difatti, né io né alcuno fra i miei compagni di corso riuscimmo ad ottenere A come risultato finale). E, per uno strano scherzo del destino, anche l'argomento di stavolta ha a che fare con la A, anzi, le A, ovvero le sezioni che la scuola di Terni ha dovuto istituire per tentare di placare le ire di una buona fetta dei genitori dei novelli iscritti, i quali desideravano assolutamente che i loro pargoli stazionassero fra la crème de la crème della borghesia cittadina. Perché a quanto pare "sezione A" significa anche "classe A", e non nel senso di "aula scolastica", ma di "ceto sociale". Quando fu il mio turno di iniziare le medie, mia madre smosse mari e monti per cercare di farmi entrare nella sezione D, che, insieme alla E, aveva, almeno a detta delle mamme -vere depositarie del sapere universale-, i migliori insegnanti della scuola. Ci riuscì, e aggiungerei per fortuna: conservo ancora dei ricordi bellissimi di loro (un po' meno carini sono quelli che riguardano i miei ex compagni di classe, difatti alla fine della terza media, ormai allo stremo delle forze, mi vendicai di uno di loro perforandogli la mano con la punta del compasso e mi risparmiai nota e/o sospensione solo perché ero la secchiona e la mia reputazione era direttamente proporzionale al mio rendimento scolastico -e poi tutti sapevano di che pasta era fatto quello lì: insomma, a mali estremi, estremi rimedi-). Dicevo, riuscii ad accedere in una delle due sezioni migliori, ma migliori solo per quanto riguardava il corpo docente: la classe era decisamente eterogenea e, per fare un esempio, il figlio del grosso industriale della zona sedeva accanto all'immigrato albanese arrivato in Italia un mese prima (per la cronaca, entrambi facevano parte della cricca dei ragazzacci, ma il secondo è successivamente tornato sulla retta via) e nessuno si faceva problemi per il mestiere svolto dai genitori dell'altro, perché proprio alunni come i due che ho appena citato dimostravano ampiamente che si poteva risultare odiosi e prepotenti a prescindere dal proprio ceto sociale, così come altri ancora erano la prova vivente che si potevano ottenere buoni risultati sia dopo cinque anni passati nella scuola privata più in voga del paese sia dopo cinque anni trascorsi nella minuscola scuola pubblica di periferia. Insomma, inutile ribadirlo: il valore di una persona non si misura in base al denaro da essa posseduto. Quando ho deciso di iscrivermi al classico, sapevo già quale sarebbe stato il campione umano da cui sarei stata circondata, e me ne sono resa realmente conto quando, ancora una volta, la mia genitrice ha dato battaglia per farmi accedere nella sezione migliore, o perlomeno quella di cui si favoleggiava che il corpo docente spiccasse per preparazione, disponibilità e competenza e, per un riflesso di sorta, sarebbe stata anche il ritrovo degli optimi della gioventù cittadina. Della classe in sé e per sé, a dire il vero, non m'importava quasi nulla. Chi mi conosce meglio ha avuto modo di scoprire come si siano rivelati in seguito i miei insegnanti e quali perle mi abbiano donato quasi a cadenza quotidiana ("è colpa di Cesare che ha uno stile impreciso", "facciamo uno scherzo telefonico alla segretaria", "ragazzi, ecco il cellulare, compratemi una cover su Ebay", "ma lo sapete che ho litigato con la collega Tizia? solo perché arriviamo tutte e due in ritardo e il vicepreside ha rimproverato solo lei!", "su Youtube c'era il video del figlio del mio amico che suonava il suo pene come una chitarra, ce lo vediamo ora in classe?", "dite a qualcuno dei vostri genitori che sta a casa di comprarmi degli stivali di gomma per la pioggia", "non fate ricerche inutili, accontentatevi di quello che vi ho dettato io e basta", "volete vedere le foto delle prostitute del bordello cittadino che ho comprato negli anni '80?" sono solo pochissime delle meraviglie fornitemi dai miei integerrimi ed irreprensibili educatori, che ricordiamo essere gli aristoi della scuola -per la vostra salute mentale, non vi conviene immaginare il resto del personale scolastico che bazzica l'istituto, anche se mi sa che i miei sono proprio il non plus ultra... del disagio-), quindi non c'è da stupirsi che la stessa cosa si verifichi con alunni supposti superiori. Tuttavia qui, parlando di (scuole) superiori, si dà per assodato che si abbia a che fare con persone di una certa maturità mentale (...): un bambino di undici anni che si appresta ad entrare in nuovo ambiente e ad entrare in contatto con altri ragazzetti sconosciuti della sua età cosa potrà mai pensare di siffatte suddivisioni? Che il figlio dell'ingegnere vale più del figlio del calzolaio perché il primo ha il papà laureato e più benestante rispetto al secondo? Santa Minerva, è già difficile tenere a bada i mocciosi in quel gran casino che è la preadolescenza, se li si istiga così a manifestare classismo di bassa lega e ad avere più rispetto di una persona solo perché ha più soldi cosa pensate che si ottenga? Perché, in nome dei numi, o ignobili genitori, vi volete scavare la fossa da soli? Ma soprattutto, perché volete continuare ad incancrenire la società nella quale anche io, bene o male, dovrò vivere? E tu, dannatissimo preside, avresti dovuto cancellare con lo sputo la sezione A dai documenti anche solo per ripicca verso quel branco di macchine da prole (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre, Manzoni docet) che a malapena meritano un piazzamento in serie Z. E pensare che alle elementari fanno indossare anche il grembiulino per educare i bambini al senso di parità e collettività e che qualcuno vorrebbe l'introduzione di una divisa scolastica sul modello inglese anche per le scuole secondarie! Attendo con ansia la notizia di una mega rissa tra i genitori delle creature delle due prime A per decidere quale delle due sia la migliore e se socialmente conti di più il medico o l'avvocato; immagino dunque che assieme alla pagella di quinta elementare del piccolo vada acclusa la dichiarazione dei redditi, non sia mai che avvengano fraintendimenti quando si trattano argomenti di cotale importanza. Mi sembra infine di essere piombata nell'atmosfera di Mansfield Park, l'ultima opera di zia Jane: è come assistere alla vita della povera Fanny, adottata dagli zii ricchi, che si svolge parallelamente a quella delle sue cugine, che sono sì sue parenti, sono sì sue coetanee, ma non perdono mai occasione di rimarcare che loro c'hanno li sordi e in pratica la stanno mantenendo. Chi ha letto il libro, però, sa anche come va a finire.
P.S. Una curiosità: quando andavo alle medie io, la sezione A era la peggiore di tutte perché inglobava i ragazzacci di una determinata area disagiata della città. A quei malavitosi in erba riconosco i soli meriti di averci fatto interrompere qualche volta le lezioni chiamando a raccolta l'intero corpo docente per l'ultima bravata combinata e di aver organizzato una festa di fine terza media favolosa con una palla da discoteca di provenienza ignota appesa nella loro classe.
P.P.S. Indovinate qual è la sezione che io frequento attualmente. Dai, spremetevi le meningi, magari c'arrivate. E poi fate due più due.

Ma sei andata in overdose da parentesi?
Indy, amo le digressioni, io.

giovedì 17 luglio 2014

De amicitia

Tutto quello che di giusto e perfetto e pertinente si potesse dire riguardo a questo tema è stato già detto dal Sommo nell'omonima opera: tuttavia, sono passati più di duemila anni (mi vengono le vertigini solo a scriverlo) e, sebbene l'uomo e i suoi sentimenti siano rimasti sostanzialmente invariati, l'intero universo che ruota attorno ad essi ha inevitabilmente subito l'azione incessante del tempo, che non è tuttavia la medesima delle tempeste che erodono una montagna e dopo secoli o millenni la riducono ad una collina, ma piuttosto quella del vento che scuote inesorabile le sabbie del deserto e le modella dolcemente per formare nuove dune che digradano dolci verso l'infinito. L'amicizia vera resta ancora rarissima e preziosa, ma, forte delle parole di Anna Frank che, nonostante tutto, credeva ancora nell'intima bontà dell'uomo, sono dell'idea che questo avvenga non per cattiveria o indifferenza "di partenza", ma perché si teme che sia l'altro a compiere il passo falso per primo: è un po' come controllare ossessivamente il cellulare del proprio compagno per controllare che ci tradisca e quindi compiere per primi un torto verso l'altro. Questione d'incomprensione, dunque, o perlomeno così mi piace interpretarla: per un'amicizia degna di questo nome servono due cuori puri (sì, proprio come quelli dei protagonisti dei cartoni animati) e credo che tutti siano partiti da quello stato incorrotto che viene riconosciuto come tipico dell'infanzia: forse la bravura del singolo sta nel saperlo conservare nonostante tutto e nel saperlo adattare alla sua nuova condizione di adulto e di membro attivo della società senza sacrificarlo: evitare, insomma, di essere fagocitati dalla concezione dell'utile, dell'istantaneo e del comune restando fedeli ad un ideale superiore. L'amicizia, del resto, è, come tutte le cose nobili in nome delle quali valga la pena lottare, un concetto astratto e quasi irraggiungibile, e non ci si deve stupire se si abusa ripetutamente di questo nome e venga chiamato amico l'ultimo fra i conoscenti così come il primo tra i fratelli non di sangue ma di spirito. Non a caso la Fallaci, in Insciallah, scrisse:
L'amicizia non può rimpiazzare l'amore, dicevo. L'amicizia è un ripiego effimero, artificioso, e spesso una menzogna. Non aspettarti mai dall'amicizia i miracoli che l'amore produce: gli amici non possono sostituire l'amore. Non possono strappare alla solitudine, riempire il vuoto, offrire quel tipo di compagnia. Hanno la propria vita, gli amici, i propri amori. Sono un'entità, indipendente, estranea, una presenza transitoria e soprattutto priva di obblighi. Riescono ad essere amici dei tuoi nemici, gli amici. Vanno e vengono quando gli pare o gli serve, e si dimenticano facilmente di te: non te ne sei accorto? Oh, andando promettono montagne. Magari in buona fede. Conta-su-di-me, rivolgiti-a-me, chiama-me. Però, se li chiami, nella maggior parte dei casi non li trovi, hanno qualche impegno inderogabile e non vengono. Se vengono, al posto delle montagne ti portano una manciata di ghiaia: gli avanzi, le briciole di se stessi. E tu fai la medesima cosa con loro. No, a me non basta l'amicizia. io ho bisogno di amore.
Sia Cicerone sia la Fallaci hanno parlato e scritto d'amicizia: il primo, però, l'ha descritta come un sentimento nobilissimo, anzi, il più nobile fra tutti, intimamente legato all'esercizio della virtù; la seconda, invece, l'ha oziosamente denigrato con poche pennellate. Inutile dire che, in un certo senso, hanno ragione entrambi: il Sommo si è soffermato su quello che dovrebbe essere il vero significato intrinseco di questo legame quasi divino e ne ha scelto ed egregiamente descritto un esempio che calzasse a pennello; la giornalista, invece, ha parlato dell'accezione più comune che viene data alla parola amicizia (che resta ancora concettualmente "errata", ma, essendo più diffusa, è anche quella evocata più spesso dalla mente) ma oso affermare che, se probabilmente avesse conosciuto l'amicizia immacolata del trattatello del Sommo, avrebbe almeno mitigato i toni. L'amicizia dei sogni, effettivamente, è una forma d'amore (Amor enim, ex quo amicitia nominata est, princeps est ad benevolentiam coniungendam, ille dixit), d'amore assoluto e totalizzante, ma privato della sfera carnale e di una particolare scintilla affettiva che distingue appunto l'amicizia dall'amore. E questi due balsami dell'umanità sono forse la stessa cosa? No, a dirla tutta, ma non ci può essere l'uno senza l'altro. In base a questo concetto, sono portata a credere che non possa esistere un'amicizia vera e intima tra due persone di sesso opposto, perché poi si finisce per innamorarsi, almeno da parte del più disincantato fra i due (l'unica coppia che conosco di "migliori amici" composta da un uomo e una donna va avanti solo perché lui è omosessuale) o, anche nel miracoloso caso in cui ciò non avvenisse, questa particolare relazione potrebbe causare problemi col sereno svolgimento dei rapporti amorosi di ciascuno dei due, dando vita a gelosie facilmente giustificabili. D'altra parte l'amicizia "vera" potrebbe anche sfociare nell'undicesima piaga della società moderna, ovvero la temutissima "zona amici" (meglio conosciuta col termine inglese friendzone perché così fa dannatamente più fyko): in pratica, è quando si è attratti da una persona ma questa ci considera solo come un amico, spesso intimo (spesso anche zerbino) e, nonostante sia perfettamente consapevole dei reali sentimenti dell'altro verso di lei, o li ignora o li sfrutta a proprio vantaggio, rifiutandosi di dare un taglio netto ad un rapporto che farebbe soffrire entrambi. La "zona amici", dunque, non si ha quando ci si dichiara a qualcuno della propria cerchia di conoscenze più o meno intime ma questi rifiuta (quelli si chiamano ancora due di picche): si ha quando si rimane in un eterno e lacerante limbo, sempre incerti sul reale stato delle cose. Per quel che mi riguarda, ho avuto la fortuna di non incappare in simili situazioni imbarazzanti, ma è anche vero che non mi sono concessa ad alcuno, né uomo né donna, per qualcosa che andasse oltre una conoscenza approfondita, complice il vecchio adagio popolare molto in voga dalle mie parti e a cui sono stata costretta giocoforza ad attenermi: amica con tutti, fedele con nessuno. Il bordello dell'amicizia, insomma. Non dire questo, non rendere noto quest'altro, però fai tante conoscenze che prima o poi ti risulteranno utili... bleah. Uno dei sentimenti più nobili dell'umanità ridotto ad un mercimonio di favori. Considerando il mio carattere schivo, solitario e indipendente, già socializzare mi è risultato, ai tempi, difficile: socializzare con una tale leggerezza, pressoché impossibile. Ecco perché, alla fin fine ho deciso di prendermi la mia vendetta e di rivelare ciò che volevo a chi volevo (diciamo che sono come i bambini, non ho il senso del "pudore" ben sviluppato e quindi non m'importa granché di svelare cose che qualcuno ritiene importanti: non parlo ovviamente di segreti e confessioni personali, ma di semplici verità quotidiane e di furberie giornaliere mancate), aprendo il mio animo proprio ai più insospettabili: i miei amici di Internet. Amici che in un certo senso mi sono "scelta", che ho conosciuto su gruppi su cui si condividevano interessi comuni e che perciò mi assomigliano, in un modo o nell'altro: sempre il Sommo diceva che l'amico è un altro se stesso, ma suppongo che, nel mio caso, ciò possa dipendere anche dal fatto che, avendo un carattere particolare e apprezzando cose decisamente sui generis, siano in grado di comprendermi a pieno solo coloro che condividono con me una considerevole fetta dei miei gusti e dei miei ideali. Su Internet, per uno strano scherzo del destino, mi sono palesata per come sono realmente (figa, eh?), e scrivere su questo blog corrisponderebbe più o meno a rendere pubblico il mio diario, se mai ne avessi uno. Non so cosa pensino di me i miei contatti, tra i quali ovviamente ho fatto anche delle... eh, bizzarre cernite (le accurate e raccapriccianti sintesi dei miei deliri notturni sono roba per pochissimi eletti, per esempio), ma spero che sappiano che non so cosa darei per incontrarli di persona (e se mi avete mentito so' cazzi vostri). Lo stesso discorso, alla fin fine, potrebbe valere anche con l'amore: nel remoto caso in cui esistesse un pòro disgraziato che desiderasse stare con me usque ad mortem, dovrebbe essere piuttosto simile alla sottoscritta. Non per intolleranza verso idee e opinioni diverse (non voglio uno zerbino o una fotocopia di me stessa), semplicemente perché, conoscendomi, avrei bisogno di un alleato con cui stabilire una perfetta sintonia, più che chimica, direi alchemica. E poi, diciamocela tutta, uno che non fosse a me affine non potrebbe funzionare bene come valvola di sfogo per il mio egocentrismo latente (e parzialmente represso), né riuscirebbe nemmeno a sopportare i miei tratti distintivi come, manco a dirlo, la passione per la classicità che sfiora le vette del più becero fanatismo.

giovedì 10 luglio 2014

Nosce te ipsum

Un tale, accortosi che i cretini erano la maggioranza, pensò di fondare il Partito dei Cretini. Ma nessuno lo seguì. Allora cambiò nome al partito e lo chiamò Partito degli Intelligenti. E tutti i cretini lo seguirono.                                                                                                                (I miei mostri, Dino Risi)
Sebbene mi sia già dichiarata contraria alla suddivisione dell'umanità in "cretini" e "intelligenti", che altro non sono che i termini moderni per lo "stolto" e il "saggio" che compaiono nei testi antichi, appena mi sono imbattuta in questa citazione di Risi nel mare magnum della Rete non ho potuto fare a meno di fermarmi a riflettere sul suo reale significato. Ognuno di noi ha un'unica e determinata opinione di se stesso, eppure da ciò che ho riscontrato da quando mi sono accostata alla filosofia e ho dato avvio alla mia personale e infinita analisi del mondo, ho notato che la maggior parte di noi tende a sminuirsi più o meno provocatoriamente quando si parla dell'aspetto fisico, ma non accetta che vengano messe in discussione le sue capacità intellettive. In un certo senso mi fa piacere questo atteggiamento, in quanto sembra che vengano preferite le facoltà mentali alle apparenze fisiche, dall'altro mi preoccupa l'aver realizzato l'effettiva concezione che la maggior parte di noi ha di se stesso, ovvero quella di un genio incompreso dal resto del consorzio umano. L'avvento della società di massa ha portato all'annientamento dell'individuo come lo si conosceva sin dalla notte dei tempi e ora ognuno di noi, ignaro del proprio intrinseco valore di vita indipendente e unica in sé e per sé, tenta in tutti i modi di spiccare fra la folla a suo dire maledettamente omogenea in maniera attiva o passiva: mettendo in risalto se stesso o affossando gli altri, insomma. È un po' come andare a fare un esame e volerlo superare o in virtù dei propri meriti presentati come superiori o dicendo alla commissione che gli altri sono ignoranti (non è raro tuttavia che si adoperino entrambi i sistemi). Quali siano i meriti effettivi del soggetto in questione (ognuno di noi, nel caso non si fosse capito) e del campione che lo circonda non è dato saperlo, ma credo di poter affermare con una certa sicurezza che non vi sia alcuna differenza rilevante. Parliamoci chiaro, i geni sono uno su un miliardo, e non sempre chi è passato alla storia per un motivo o per l'altro (qui si parla di motivazioni... ehm, positive: entrare negli annali perché ci si chiama Hitler o Stalin, disgraziatamente, è tutta un'altra questione) aveva necessariamente qualcosa di speciale, una specie di soffio ultraterreno che gli svelasse aspetti ignoti dello scibile umano, sebbene in certi casi risulti quasi sorprendente constatare che si trattava di "semplici" umani, proprio come noi, e non di rado ci rifiutiamo di ammetterlo. Insomma, ognuno di noi è unico perché è un essere umano a sé e ha la sua anima, o comunque delle peculiarità mentali e attitudinali che lo differenziano dal resto del mondo che il resto del mondo non può capire perché semplicemente il resto del mondo non è una folla amorfa di grigi corpi inanimati ma una moltitudine multicolore di uomini e donne con la loro complessa personalità nei panni dei quali ognuno di noi si può e si deve mettere, perché viviamo in una società che, bene o male, ci garantisce i bisogni elementari di contatto con gli altri individui che ci chiede a gran voce la nostra stessa natura. Non mi sembra concettualmente difficile capire che per il mio prossimo anche io faccio parte del resto del mondo: si chiamano punti di vista, ma a quanto pare riuscire a concepirne o perfino a comprenderne uno che non sia il proprio è fonte di grande costernazione per l'uomo moderno, che personalmente mi piace paragonare al Don Rodrigo di turno rinchiuso nel suo palazzotto gelosamente abbarbicato sulla sua collinetta.
Non so quanti di coloro che mi leggono conoscono il fenomeno dei "ragazzi di Tumblr": si tratta invero di un nutrito gruppo di preadolescenti e adolescenti che frequentano il suddetto social network e che millantano di soffrire atrocemente per le più svariate ragioni (al contrario del malefico resto del mondo che invece risiede stabilmente nelle pubblicità del Mulino Bianco e si diletta nel preparare delizie pasticciere con lo Zorro che fu e una gallina dal nome imbarazzante e perciò non riesce nemmeno a concepire tale sofferenza) e di lenire questo dolore attraverso la raccapricciante pratica dell'autolesionismo; insomma, sono la versione pseudo-profonda delle directioners. Chi sono in realtà i ragazzi di Tumblr? No, non la versione 2.0 degli emo dei primi anni 2000, anche se ci siamo vicini: sono dei normalissimi adolescenti che durante questa delicatissima fase della vita hanno avuto la sfiga di imbattersi in qualcuno dotato di connessione ad Internet che riteneva che la crisi dell'adolescenza, una prassi fastidiosa ma comune per un qualsiasi essere umano sano di mente, fosse in realtà associabile a seri disturbi psichiatrici quali la schizofrenia, il bipolarismo o la sindrome di Stoccolma, tutte patologie vere e reali da cui questi lattanti blaterano di essere affetti. I tizi in questione, insomma, sono dei normali ragazzini che hanno mancato il confronto con la società e che di conseguenza si sono affidati solo al proprio metro di giudizio, influenzato più o meno subdolamente dal contatto con il mondo di Internet: niente di più sbagliato, inutile specificarlo. Hanno cominciato a credersi speciali e incompresi e ad alienarsi a tal punto dalla realtà da confonderla con le loro fisime o, peggio, da popolarla con nemici fittizi, gli avversari che probabilmente avrebbero voluto avere nella loro realtà dei sogni (ecco, forse questo è l'unico disagio psicologico di cui soffrono davvero). La perfetta conoscenza di se stessi, la profondità emotiva e la sensibilità intellettuale che gli adolescenti in questione vantano non possono in alcun modo essere separati dalla relazione con gli altri esseri umani e dalla distinzione tra esistenza pubblica e privata. Loro dicono di uscire di casa e di vedere sempre persone indifferenti o sorridenti per forza: mah, sarà mica che fuori di casa devi rispettare certe regole di un salutare buonismo e che sostanzialmente se la commessa del supermercato in lacrime ti fermasse per raccontarti che il suo ragazzo l'ha appena mollata non te ne fregherebbe niente? Al negozio vai per fare la spesa, non per sentire il piagnisteo dell'impiegata, e così come a te non importa nulla di lei a lei non importa nulla di te: se ti vuoi addentrare nella dimensione degli affetti, fatti accompagnare dai parenti o dagli amici (esatto, proprio come se stessi partecipando ad un quiz televisivo) e soprattutto cerca di conoscere meglio loro per essere meglio consapevole, di riflesso, di te stesso. Una persona sola sceglierebbe solo una via da seguire: un essere umano che ha a che fare con gli altri deve, per cause di forza maggiore, intraprenderne, o almeno scorgerne, più d'una, e di conseguenza è inevitabilmente avviato a ridimensionare l'assetto della propria coscienza morale. La profonda consapevolezza di se stessi risiede nella capacità di indagare a fondo anche sull'umanità che ci circonda e di arricchire la nostra personalità con la comprensione delle motivazioni altrui e dei limiti propri: cosa c'è di più umanamente nobile dell'atto di ammettere un errore commesso e di scusarsi perché sono state riconosciute come corrette le ragioni del prossimo? Io sono arrivata perfino a rinnegare tutta la mia preadolescenza, fatta di astio gratuito verso il prossimo, misantropia spicciola e pretesa di essere l'ombelico del mondo invero rinnegato dall'intero oikoumene: l'accesso al classico mi ha quasi trasformata e la rottura del mio guscio mi ha aperto un mondo intero. Sono giunta alla conclusione che ognuno di noi sia più o meno assimilabile ad un albero: la nostra essenza è racchiusa nel fusto, ma i legami con il mondo, e con questi anche i canoni da usare con se stessi si stabiliscono attraverso i rami. Beh, se il mondo andasse così sarebbe decisamente troppo facile, non credete? Fosse per me dichiarerei immediatamente grande festa alla corte di Francia, ma che volemo fa'?! Per cercare le differenze tra orgoglio e dignità sul dizionario ci vuole troppo tempo, e lo dico da "convertita".

giovedì 3 luglio 2014

Vanitas vanitatum

Qualche giorno fa io e le mie amiche di Internet stavamo discutendo sul nostro gruppo segreto di libri e non so in conseguenza di quale giro di parole siamo passate a parlare di gioielli, trucchi e frivolezze di questo genere. Io e le ragazze ci siamo conosciute durante le lotte al disagio e i lunghi e accesi dibattiti -altresì detti flame- ormai celebri su Internet (sebbene io stessa sia consapevole di essere la prima portatrice sana di disagio e abbia piena coscienza del fatto che metà dei miei contatti di Facebook mi tenga appunto fra le proprie amicizie perché sono un caso umano senza precedenti) e ognuna di noi, mediamente bella, mediamente coltivata, ha avuto modo di dare fondo alle proprie conoscenze più o meno specialistiche quando con le disagiate si superava la soglia del discorso serio. Ciononostante, non è raro che finiamo a parlare di "sciocchezze" come il colore migliore per gli smalti luccicanti o i gioielli o che a volte ci accaniamo per puro piacere su una causa da noi stesse ritenuta non necessariamente degna di nota (cosa che ci ha causato, per la cronaca, uno screzio con un paio di elementi della nostra stessa cerchia): la differenza fra noi e molti altri è che noi ammettiamo di avere dentro un certo "disagio", ma in percentuale decisamente minore di quello che rinfacciamo alle nostre... mmm, diciamo avversarie virtuali. Ebbene sì, in privato svestiamo i panni di giustiziere della Rete e diamo fondo alle peggiori chiacchiere e ai più beceri pettegolezzi da sala d'attesa del parrucchiere, civettando di tutto e di più, anche se guai a pensare a noi come alla versione parlante dei settimanali di gossip delle stelle dello spettacolo. Semplicemente intervalliamo momenti di serietà a momenti di leggerezza: ho inoltre ragione di credere che questo sia un comportamento tipicamente femminile, anche perché i pochissimi uomini del gruppo intervengono raramente quando l'argomento di turno ruota attorno a simili temi. Gli stereotipi del nostro tempo, impastati in salsa da liceo americano, sono abituati a farci credere che intelligenza e bellezza, gravitas et levitas, non possano coesistere pacificamente: o si è la ragazza pompon senza cervello o la secchiona che alle feste si mimetizza con la tappezzeria. Per quel che mi riguarda, credo di impersonare una pacifica via di mezzo: a scuola me la cavo bene (per un vezzo apotropaico, non voglio stuzzicare la Sorte descrivendo per filo e per segno i miei risultati effettivi) ed esteticamente non sarò la Venere di Milo in carne ed ossa ma almeno ho una marcia in più: io, per esempio, ho le braccia. Il numero di libri nella mia libreria non è inversamente proporzionale a quello degli smalti nel mio astuccio dei trucchi e, sebbene non baratterei mai uno dei miei adorati libri con un gioiello qualsiasi, devo ammettere di avere un debole per le cose strane, belle e non raramente inutili. Ma del resto, cos'è la bellezza, se non la più perfetta e la più inutile appendice della vita? La mia pace consiste nell'armonia del corpo e dello spirito, e nessuno dei due potrebbe sentirsi totalmente appagato se anche l'altro non lo fosse, sebbene una certa regola di base voglia invero e a ragione che si dia primaria importanza al secondo (non c'è bisogno di altri millenni di filosofia per appurarlo, vero?). Ben vengano, dunque, gli innocui ninnoli retrò con cui adoro baloccarmi, ben vengano gli sguardi incuriositi o ammirati che mi piace suscitare negli sconosciuti o nei conoscenti, ben vengano i fugaci attimi di effimero piacere o i lunghi silenzi e gli interminabili disinteressi altrui, durante i quali ci si può preparare per il vorticoso e temporaneo spettacolo della società, al cui riguardo, però, il bravo attore non dimentica che la vita vera è quella che si svolge dietro le quinte. Mi piace essere apprezzata ma non vivo affatto per quello: sono indipendente e completamente emancipata dall'opinione altrui eppure sapere di non risultare sgradevole secondo i canoni di quest'ultima mi offre un diletto non indifferente. - Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. - fece dire Goldoni alla sua Mirandolina secoli addietro, e forse, a prescindere dal contesto socio-culturale dell'epoca, non è un caso che l'abbia scritto un uomo: non so quante probabilità ci sarebbero state di farlo ammettere ad una donna, oggi come ieri. Che ci siano esponenti del mio stesso sesso che non gradiscono questo genere di attenzioni è cosa più che risaputa, ma non a caso il nostro veneziano ci ha tenuto a vergare quel quasi per evitare rappresaglie dalle più agguerrite. Io, a dire il vero, non so se proprio tutto il mio piacere consista in ciò di cui favella la locandiera: come ho già specificato, sono capacissima di trarre la mia linfa rinvigorente da ben altre cose, decisamente più importanti, tuttavia credo che il nocciolo della questione stia nel significato che si dà alla parola piacere: se si intende il passeggero appagamento dei sensi, allora sì che posso darle ragione! In Orgoglio e pregiudizio Elizabeth dice a proposito di Darcy: "Avrei potuto perdonare la sua vanità se non avesse mortificato la mia". La nostra Lizzy, la mia Lizzy, è una donna intelligente, che sa sfruttare le occasioni, sa usare bene la lingua (risparmiatevi i doppi sensi) e quasi si burla delle convenzioni sociali dell'epoca ("soltanto il vero amore potrà condurmi al matrimonio, ragion per cui rimarrò zitella"), eppure inizia ad avere in odio Darcy proprio perché egli l'ha punta nel vivo, al loro primo incontro l'ha definita, confidandosi con Bingley, appena passabile, ma non abbastanza bella da tentarlo. La bellezza non è l'asso nella manica di Lizzy, che sa benissimo che la musa stilnovistica di famiglia è la sorella maggiore Jane, ma non ha comunque intenzione di farla passare liscia a chi l'ha apostrofata in un modo così mediocre e insipido: sono quasi sicura che, se l'avessero insultata apertamente, lei ci avrebbe riso su, ma questo no. Sarò sincera: al posto di Lizzy mi sarei comportata allo stesso modo. Niente scenate da donnetta isterica, niente petardi sotto il materasso, solo qualche dardo al vetriolo fornitomi dalla mia abilità nell'arte oratoria per vendicare abilmente il velo squarciato dell'orgoglio ferito. E qui siamo nel primo Ottocento (anzi, fine Settecento se si considera la prima stesura del romanzo): i medievali, che hanno coniato le parole del titolo di oggi, cosa avrebbero detto? Sarebbero inorriditi, poco ma sicuro: omnia vanitas! Tutto ciò che non concorreva al nutrimento dello spirito e al sostentamento essenziale del corpo era pura vanità e piuttosto che le persone doveva andare ad alimentare i roghi in pubblica piazza, e quanto poco importava che si trattasse di un comune specchio di bronzo o di un capolavoro di Botticelli! Ahi, quanta bellezza perduta! In conclusione? Viva la vanità e viva le frivolezze: un quadro è molto più bello se a decorarlo è una cornice, l'importante è che non ci si dimentichi che la sola cornice vale ben poco senza la tela.