domenica 28 settembre 2014

De heroibus

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi.                                                     (Vita di Galileo, Bertold Brecht)
Non molto tempo fa è ricorso il decimo, triste anniversario della strage di Beslan e mi è capitato sott'occhio un vecchio articolo di giornale al riguardo dove, oltre alla consueta profusione di lutti e compianti, a metà tra il legittimo e l'irrispettoso, faceva un cammeo anche la figura dell'anziana preside della scuola, che durante le tremende ore del sequestro si era per così dire "schierata" dalla parte degli aguzzini, riprendendo i bambini che si lamentavano e tentando di assecondare i terroristi. La donna, sopravvissuta al massacro, dichiarò in seguito che tutti l'avevano additata come collaborazionista dei carnefici, la evitavano in strada e le lanciavano sguardi di ghiaccio, tanto da spingerla perfino a desiderare di morire presto. Una frase dell'articolo diceva di lei: non ha avuto il coraggio di essere un'eroina. Sono parole forti come quelle di una frase accusatoria e allo stesso tempo blande come si stima la personalità della figura umana di cui si vuol parlare, spolverate di un leggero velo di compatimento e di rimpianto per la mancata occasione della donna di assurgere agli onori della cronaca e perché no, magari di ricevere una medaglia al valor civile, in modo che la collettività venisse ancora una volta rassicurata dalla presenza di straordinarietà, pur silenziose, nella folla (un po' come gli anonimi supereroi del film Pixar Gli Incredibili). Ovviamente non so cosa sia accaduto davvero in quel luogo raccapricciante e in quegli attimi d'inferno, provo solo ad ipotizzare che... la donna abbia fatto del suo meglio per evitare ai bambini ulteriori pene: a mio parere era semplicemente convinta che assecondando gli aguzzini sarebbe riuscita a scampare al peggio, nulla di più. Non voglio nemmeno provare ad immaginare cosa passasse per la testa di quella gente in quelle ore senza fine, so solo che giudicare, almeno in questo caso, sarebbe (anzi, è) impietoso. Le parole che Brecht fa dire al suo Galileo in risposta alla frase dell'allievo Andrea Sarti "sventurata la terra che non ha eroi" sono pregne di significato e dischiudono, nella propria solenne nudità, un intero mondo, un intero universo invisibile, conosciuto e parallelo allo stesso tempo, quello appunto degli eroi. I vocabolari dicono che gli eroi sono uomini che compiono azioni fuori dall'ordinario ma essenzialmente ed esclusivamente positive: ma, vedete, gli eroi possono essere tali in positivo o in negativo. Nell'antichità fioccavano i primi, ovvero quelli che spiccavano tra tutti per coraggio e valore, qualità che però non erano aliene al resto della società (sì, lo so, i tempi son cambiati, ora non conta - o comunque non basta - essere un fuoriclasse sul campo di battaglia per essere un eroe): ora, invece, gli eroi sono coloro che compiono gesti di portata cosmica che paiono estranei al miserabile e profano mondo terreno in cui essi sono nati e cresciuti. Gli eroi, dunque, sono diventati sempre più simili a dei santi, che ci sembrano partecipi per natura della gloria divina o che comunque hanno iniziato a manifestare in età precoce i primi segni del destino che li attendeva, disgiungendosi così inesorabilmente dalla compartecipazione nella carne con gli uomini comuni: gli eroi, così inevitabilmente irraggiungibili, hanno smesso di essere dai modelli da imitare e hanno iniziato ad essere sempre di più delle icone da venerare. E Galileo... beh, di certo non è passato alla storia come un eroe: tuttora lo conosciamo come uno scienziato eccezionale, come uno fra i più grandi geni di tutti i tempi, ma non come un eroe. Galileo ha deciso che non valeva la pena rimetterci la pelle per le sue scoperte e, in fondo, un po' tutti ci siamo dispiaciuti almeno in minima parte che la creazione della sua leggenda si sia incagliata in quel malefico atto d'abiura: il mito sarebbe stato certamente completo con una morte spettacolare, da manuale ma sempreverde, in nome di ideali rivoluzionari per l'epoca ma dati per scontati nell'era attuale. Forse ricordiamo con più reverenza Giordano Bruno, passato alla storia più per la sua atroce fine sul rogo a Campo de' Fiori che per le sue spiazzanti teorie, ma ignoriamo che anche lui provò inizialmente a negare il negabile: poi, vistosi alle strette, decise di andarsene almeno dignitosamente e quindi andò incontro al destino che tutti conosciamo. E ciò ci porta a riflettere su un tema di capitale profondità: vale di più una vita o un'idea? Russell diceva che non sarebbe mai morto per le sue idee perché avrebbe potuto aver torto, ma porsi al centro di questa metaforica tavola lignea in bilico sul vertice di un ipotetico triangolo significa automaticamente limitarsi a girare il volto nella direzione ipotizzata come corretta senza muovere il corpo nello stesso verso e mancare dunque della minima dose di dogmatismo indispensabile per difenderla, mostrandosi così implicitamente pronti a voltar la faccia qualora cambi il vento. Perfino chi ha dato la vita per idee dimostratesi in seguito errate o assolutamente folli ha ottenuto dai posteri almeno un velo di rispettoso silenzio. Qualcun altro, invece, disse a suo tempo che non c'era amore più grande di quello di colui che dava la vita per gli amici, tirando così finalmente in ballo il catartico filo rosso dell'esistenza umana: l'amore. Non si muore per le proprie idee, si muore per amore delle proprie idee, così come si muore per amore di una persona: quest'ultima però è tangibile, vera, reale, degnissima per la sua stessa natura umana, l'idea invece può essere giusta o sbagliata, e sarebbe troppo facile dire che è ugualmente eroico morire per le persone e le idee giuste. L'unica cosa che so è che dar la vita per amore è la cosa più nobile in cui l'esistenza umana possa trovare compimento, perché essenzialmente nell'amore vero si fondono omogeneamente l'istinto delle bestie, la ragione delle macchine e il sentimento che è degli uomini, degli uomini soltanto. D'anima e d'amore siam fatti, d'animo e dolore viviamo. Quanto dev'essere disperato il mondo per dover trarre la propria linfa vitale dall'estremo sagrifizio del singolo, per doversi rassicurare sulla propria sopravvivenza anche solo per i prossimi cinque minuti beandosi atrocemente di siffatte azioni? L'eroe compie ciò che dovrebbero compiere tutti in un utopico e totale distacco della natura ferina da quella umana, ma in una società che pare aver dimenticato la picciola santità di cui si professa fiera e modesta portavoce ecco che svetta ombreggiante l'aurea figura di colui che adempie semplicemente il suo salvifico, onorevole, adamantino e banalissimo dovere. L'eroe sacrifica se stesso in nome di qualcun altro: l'eroe dà tutto ciò che ha per diritto naturale, la vita, in nome di qualcuno diverso dalla propria persona, e in questo gesto così intrinsecamente sommo per l'influsso della ragione e del sentimento e perversamente innaturale per la galvanizzante e vertiginosamente estatica assenza dell'istinto di sopravvivenza, in questi attimi di concitata, lucida follia, di parole che paion spade e penne dalla punta di gladio, di contrari che s'annullano e s'armonizzano come l'ago delirante d'una bussola che ora punta il nord e ora il sud ed eppure sembra aver sempre ragione si concentra l'essenza distillata dello spirito umano.

giovedì 18 settembre 2014

Ex stercore flores

Ama e ridi se amor risponde,                                                 piangi forte se non ti sente,                                                         dai diamanti non nasce niente,                                                    dal letame nascono i fior.                                                                                          (Via del Campo, Fabrizio de Andrè)
Uno dei detti popolari più usati e abusati, che chiunque, a dispetto delle proprie origini, avrà sicuramente udito almeno una volta nella propria vita, è senza dubbio "non tutto il male vien per nuocere" (tra l'altro ho appena notato che buona parte dei miei articoli inizia con una serie di pipponi mentali derivanti anche dalla più sciocca riflessione sulla più stupida delle frasi note alla popolazione mondiale, wow, che talento inimitabile). Vabbè, insomma, quello che ho da dire è che semplicemente non sono d'accordo: il male viene per nuocere, è il suo mestiere, la sua causa e il suo scopo, il suo principio e la sua fine, il suo essere e il suo apparire. Però da ogni esperienza negativa ne può sempre (e dico sempre) nascere una positiva, che, se la Fortuna si leva la benda e vi strizza l'occhio, può perfino farvi ringraziare il cielo di esservi beccati la sciagura di turno. Il mondo sarebbe ovviamente migliore, anzi, perfetto, se il male non esistesse, ma mancando tale assenza di turbamento dobbiamo accontentarci di riuscire a trovare le pepite d'oro nei laghi di torba: la metafora della canzone è più calzante di come appare, perché è vero, appunto, che è dallo sterco che sbocciano i fiori, ma è anche vero che i diamanti valgono sempre più di questi ultimi, quindi chiunque fosse sano di mente desidererebbe proprio questi per sé. Veniamo al dunque, allora: il male. Perché esiste il male? Fior fiore di studiosi, scienziati, filosofi, teologi si sono applicati per vite intere per cercare di fornire una risposta a questo asfissiante interrogativo e se vi aspettate che a svelarvi l'arcano sia io allora non avete tutte le rotelle che girano nel verso giusto (ma non preoccupatevi, siete in buona compagnia). Se si dà per scontata la sola esistenza dell'essere umano, la soluzione, o perlomeno una delle più probabili fra le infinite, è che semplicemente il male esiste come comportamento funzionale dell'individuo per la sua sopravvivenza e la soddisfazione dei suoi istinti, dai quelli primordiali a quelli più evoluti (ovvero: homo homini lupus); se ammettiamo anche l'esistenza di... insomma, qualcuno di superiore, a cui poi vengono attribuite tutte le qualità positive al loro stato massimo, le cose cambiano. Insomma, se Dio è buono come si dice, perché permette che accada il male? In virtù della sua potenza e magnanimità, non potrebbe farci vivere tutti in paradiso e via? Perché non lo fa? Se non vuole è cattivo, se non può non è onnipotente. Io invece mi chiedo: perché mai dovrebbe farlo? Ogni uomo non ha forse il sacrosanto diritto di scegliere e vivere la sua strada, anche quando questa comporti il male e quindi il danneggiamento di sé stessi e degli altri? Perché dovrebbe intervenire per incerottare, arginare, contenere, nascondere, reprimere, annientare ciò che una persona ha scelto, nella maggioranza dei casi, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali? È nostro il compito di far sì che le persone non scelgano il male, e se proprio non si è spinti da motivi etici che almeno lo si sia da cause utilitaristiche, perché nessuno fa mai del male solo a se stesso: l'eco di qualunque nostra azione si ripercuote in maniera più o meno brutale su tutti coloro che ci circondano, sia nel bene sia nel male, e un domani potrebbe essere proprio l'io di turno a pagare lo scotto delle malefatte di qualcun altro. Se la natura o chi per lei ci avesse voluti soli ed eternamente indipendenti ci avrebbe fatto nascere in luoghi sperduti della Terra e ci avrebbe fatto riprodurre per mitosi: come in una catena, però, un anello arrugginito arrugginisce anche gli altri, e un anello brillante fa risplendere di luce riflessa anche quelli a cui è legato. Tuttavia... ho la convinzione intima e un po' perversa che sia soprattutto o forse unicamente il dolore, scaturito dal male, a renderci davvero umani. L'eterna, intangibile serenità derivante da un'ipotetica letizia persistente mi parrebbe quasi produrre un effetto simile a quello delle sottili zampe di un insetto che non fendono l'acqua ma ne sfruttano la tensione superficiale: il dolore, invece, scava, raschia e devasta, va a fondo, denuda il cuore e ne scopre i nervi, espande le sue roventi diramazioni rendendo il corpo una mistica e misera tavola anatomica esposta alle intemperie del mondo esterno. Forse è l'impossibilità di giungere infine all'utopica meta a farmi formulare questi pensieri, con l'implicito scopo di esorcizzare la rassegnazione derivante dalla constatazione che tutto ciò mai avverrà (sì, è un po' la versione malinconica della favola della volpe e dell'uva), però... come direbbe una ragazzina su un social network a casaccio, per avere l'arcobaleno bisogna prima sorbirsi la tempesta. E in fondo l'acqua non ha forse il sapore dell'ambrosia per l'assetato e il gusto dell'aria per il sazio? Che il male, in un'accezione più ottimistica, serva anche a farci capire l'incommensurabile valore del bene, che perciò diventa tale solo in relazione ad esso? La storia dello yin e dello yang, insomma. Oppure... un'altra teoria prevedeva che il male fosse assenza di bene: è un po' come la storia del calore, in fisica non esiste mica il freddo, esiste solo il calore con le sue infinite variazioni di temperatura. Così come, almeno in teoria, non esiste l'ombra: esiste solo l'assenza di luce. E quindi il male non è l'opposto ma è semplicemente il nulla o il bene ridotto all'osso; mi piace quest'idea, perché ammetterla significa negare al nemico perfino la dignità di esercitare la propria influenza in negativo, vuol dire annichilirlo fino all'estremo, distruggerlo puntando dritto al cuore. Diceva poi Kafka che il male conosce il bene ma il bene non conosce il male: il male conosce il suo avversario perché semplicemente esiste per nuocergli, invece il bene, il vero bene, lo ignora perché semplicemente esisteva da prima e ha scelto di restarne immune, incorrotto? O magari il vero bene invece conosce e conosce silenziosamente il suo avversario, che invece ne ignora le serafiche mosse nell'ordinata scacchiera dell'universo. Si deduce che il vero bene è dunque sempre rimasto puro e immacolato rispetto a tutto o è diventato tale dopo aver fatto esperienza delle azioni della sua controparte. Credo che siano possibili entrambe le vie, ma mi sembra deliziosamente palese che la più percorsa delle due sia la seconda, perché riuscire a respingere il male in eterno è quasi ultraterreno, ma accoglierlo e poi cacciarlo è divinamente mortale: significa essere riusciti a trarre il bianco dal nero, a far germogliare i fiori del male. Oh, però non è bellissimo sapere che i fiori del male crescono dappertutto? Sono venati di nero e imperlati di veleno come i boccioli veri sono roridi di rugiada mattutina e dai loro petali grondano opachi misfatti, ma sono pur sempre meravigliosi, anzi, sono meravigliosi proprio per questo, e compongono come i pezzi di un ancestrale puzzle i giardini degli animi umani. I fiori del male possono nascere sempre, ma sta alla nostra abilità creare le condizioni adatte affinché crescano: è nel loro sbocciare che si racchiude l'essenza del riscatto e della vittoria umana.

mercoledì 17 settembre 2014

Egomet

Nome: Costantina (è un nome vecchio e lungo perché è stato generato e non creato per mettere in difficoltà i professori negli appelli e le nuove conoscenze alle presentazioni)
Secondo nome: Francesca (ma solo in chiesa, in onore di San Francesco: dal mistico di Assisi ha ereditato la capacità di comunicare con gli animali ma a quanto pare non quella di farsi capire)
Cognome: Doria (o perlomeno così dice la sua carta d'identità, ma finora questa non le ha mai mentito quindi non trova un motivo valido per non crederle anche stavolta)
Indirizzo: È da quando ha otto anni che suo cugino le dice che abita a Villa Triste in via del Convento, n.0. Ma lei non se l'è mai bevuta e si è prima convinta di risiedere a Delfi e di essere la padrona del tempio, per poi rendersi tale e concedersi brevi periodi di villeggiatura sull'Olimpo.
Altezza: Quando porta i tacchi dieci è alta un metro e settanta.
Peso: No Maria, io esco.
Età fisica: Diciassette anni. Come la sfiga.
Età mentale: Pare che oscilli pericolosamente e repentinamente tra i cinque e gli ottantacinque anni.
Età reale: Duemilacinquecento anni o giù di lì. Forse.
Occhi: Castani (suo padre ce li aveva azzurri, sua madre verdi/castano chiaro e lei ha deciso di fare uno sgarro a tutti e due avendoceli castano scuro)
Capelli: 98% castano scuro, 1% rossi, 1% bianchi (si narra che alla sua nascita Lucina le abbia sussurrato: "'a soggetta!")
Segni particolari: Una piccola cicatrice incavata sotto l'occhio sinistro, originalmente ribattezzata "lacrima": non è l'unica del suo corpo, ma è l'unica che non si è procurata disobbedendo ai suoi genitori.
Pregi fisici: Si crede una gnocca a tutto tondo, ma gli scienziati stanno ancora analizzando il caso.
Pregi caratteriali: Ah no, quelli sono finiti nel tunnel del Gran Sasso.
Difetti fisici: Ha il callo dello scrittore sul medio destro, così quando manda a Città Laggiù le persone lo fa ricordando loro quale penna si sono inimicati.
Difetti caratteriali: Estremamente lunatica e distratta, fautrice del Nuovo Ordine Mondiale della Sua Stanza, istericamente perfezionista, insofferente alle ripetizioni esasperanti, alle insubordinazioni, agli sprechi, all'ignoranza e alle lamentele. Non si è guadagnata l'appellativo di dittatrice per niente.
Cosa colleziona: In realtà accumula cose inutili di varia natura. Sogna tuttavia di sfoggiare orgogliosa su una mensola della sua stanza una fila di veleni e su un'altra una fila di rimedi naturali erboristici. Sogna anche tonnellate di statuette di fatine, bracciali con formule alchemiche, ciondoli con le rune, serie di candele di svariate forme e dimensioni, peluche di gatti e pinguini, armi bianche e busti di illustri personaggi dell'antichità che non c'azzeccano alcunché con ciò che ha elencato in precedenza ma si sa che fanno sempre la loro figura. Per il momento conserva con cura il chiodo recuperato da un suo amico subacqueo dalla nave romana naufragata al largo della costa salentina, perché anche se è solo un chiodo ha pur sempre duemila anni.
Luoghi preferiti: Voleva accamparsi a Pompei e ai Fori Romani ma non gliel'hanno permesso perché dicevano che la gente normale non dorme in mezzo a rovine millenarie per respirarne le cruda bellezza anche perché secondo loro è una cosa che non significa assolutamente niente. In alternativa, le piacciono le città d'arte, i cimiteri, i luoghi abbandonati tra sacro e profano, il mare e tutti i posti in cui si possono guardare le stelle: sogna anche di imparare, un giorno, a saperle distinguere.
Possedimenti imbarazzanti: Possiede un paio di slip decorati con pecorelle e un costume da bagno sul cui didietro c'è scritto "pizza ♥ amore": ha provato a spacciare il primo termine per un omaggio alla cucina partenopea, ma non ci è mai riuscita.
Abbigliamento: Qualunque cosa ci sia di economico al negozio cinese all'angolo: acquista valore aggiunto se strano e/o con scritte palesemente taroccate (se la roba è più retrò, invece, gli amici le danno della "nonna"). In aggiunta, vorrebbe fortissimamente dedicare un intero armadio ai costumi delle varie epoche storiche, nonostante sappia per esperienza quanto siano tremendi i bustini.
Conoscenze: Ha stretto amicizia con le proprietaria del negozio cinese di cui sopra nonostante lei le aprisse deliberatamente a sorpresa il camerino durante i cambi d'abito.
Fantasie: A dodici anni sognava di sposare Mr. Darcy di Orgoglio e pregiudizio, attratta in egual misura dal suo buon cuore e dalle sue diecimila sterline annue di rendita.
Segreti o quasi: Passa metà delle sue notti in preda a incubi dai significati astrusi, i più semplici dei quali hanno a che fare con suoi ipotetici fallimenti a scuola (il che equivarrebbe alla catastrofe). Per quanto riguarda l'altra metà, beh, non se li ricorda. Da piccola faceva anche i sogni premonitori.
Accessori: Mostra particolare predilezione per gli orecchini con le piume, le collane coi cammei e le cose strane, carine e sbrilluccicose in generale, non necessariamente (anzi, possibilmente non) costose.
Esclamazioni tipiche: Quando riesce a trattenersi dal maledire gli antenati del malcapitato con un'apostrofe dai coloriti toni popolareschi, inveisce con "mannaggia la pupazza" o tirando giù il dio greco di turno, entrambi elementi che tuttavia la rendono piuttosto riconoscibile agli occhi (e alle orecchie) altrui. In casi estremi, procede con irripetibili insulti in lingue morte.
Paure: Fugge alla vista di api, vespe e insetti ronzanti temendone i malefici pungiglioni (tuttavia ammazza le zanzare a mani nude); è intimorita e affascinata dal buio e soffre di vertigini e di una lievissima forma di claustrofobia (un tempo decisamente peggiore).
Idee religiose: Crede nel Grande Capo, anche perché è sua amica intima da un sacco di tempo. Alle cene del giovedì stavano sempre assieme.
Idee politiche: In un mondo utopico tiferebbe per la repubblica, ma in ultima istanza è pronta perfino a rivalutare i regimi dittatoriali e a concordare con Giolitti, Mussolini, Churchill o chiunque fu quel tale che pronunciò la fatidica frase "governare gli italiani non è difficile, è inutile".
S'ha da amare: La storia tutta. Ricordatelo, antico è bello.
Narravano di lei: Una volta, in seconda elementare, le hanno fatto interpretare la parte del grillo parlante nella recita di Pinocchio perché, a dire della sua maestra, era "piccola e già piuttosto saccente". Negli anni ha perso quel "piccola" ma si è guadagnata a pieno titolo il "saccente", non esimendosi dal correggere nemmeno quella stessa maestra che, durante una visita di qualche giorno prima, aveva amabilmente elogiato l'itinerario culturale delle sue vacanze romane e ricordato quanto fosse stato bravo Casanova nello scolpire la Paolina Borghese.
Narrano di lei: I suoi amici dicono che quando le cadono gli occhiali sembra la loro nonna (x2), ma quando ammicca da sotto gli occhiali sembra una segretaria da film porno. Lei, imbarazzata, ha provato a smentirli: a suo dire sembra più una professoressa.

venerdì 12 settembre 2014

Servate Inferos

C'è una frase, tratta dalle Vite Parallele di Plutarco, che mi ha sempre fatto una certa impressione leggere e ancor più ripetere; pare infatti che Cesare, quando vide Bruto parlare in pubblico per la prima volta, disse: "Non sa cosa vuole, ma lo vuole fortemente". Parole lapidarie ma profonde, come solo il divo Giulio avrebbe potuto pronunciarle, e perfino terribili, perché come ogni cosa classica mi sembrano universali, ma in questo caso velatamente e anacronisticamente... rivolte a me. Coda di paglia? Forse sì, non lo nego. Bruto è passato alla storia come un cattivo, il cattivo: Dante l'ha praticamente relegato al centro della Terra per aver commesso il secondo crimine più abietto della storia dell'umanità, per aver ucciso la massima autorità terrena, l'allora detentrice del potere temporale. Ma Bruto è anche un uomo, quello a cui mi sento intimamente e spiritualmente più vicina, nonostante non riesca a perdonargli di aver fatto fuori proprio uno dei miei miti, oltre che uno degli uomini più grandi che la storia ricordi. Ci viene riferito che Cesare arrestò la sua strenua opposizione ai congiurati quando, quasi esanime, vide stagliarsi fra loro la figura di Bruto e, persa dunque ogni animosità, si accasciò a terra coprendosi dignitosamente il capo con la toga, non prima di aver sussurrato, tra il sorpreso e l'addolorato: "καὶ σύ, τέκνον;". Non so quanto ci sia di vero nell'immagine che mi sono creata di questo interessante personaggio, né francamente mi interessa appurarlo o meno (almeno non riguardo a questo proposito), ma rivelo di essermelo sempre figurato come squarciato da un lacerante tormento interiore, incerto se onorare il nome e la tradizione di famiglia come tutti si aspettavano o dar retta ad altre logiche, magari più personali. A scegliere per lui ci ha pensato il popolo se, come racconta proprio Plutarco, le statue del suo antenato tirannicida furono davvero prese di mira dagli audaci ma anonimi Romani e dai loro graffianti e insinuanti bigliettini che denunciavano a tutta l'Urbe la deplorevole inazione del rampollo dell'antichissima e illustre gens nei confronti del tiranno di turno. Non si sa se davvero Bruto fosse figlio di Cesare: la relazione di lunga data fra quest'ultimo e la di lui madre Servilia era certo nota a pressoché l'intera città, tuttavia pare improbabile che un ragazzo sui vent'anni o meno si intrattenesse con le auguste dame dell'aristocrazia: era certo molto più facile e probabile che se la spassasse con le schiave di casa o con le prostitute nei bordelli (e quando si parla del Divo e delle sue liaison non si può nemmeno lasciar passare sotto silenzio la celebre apostrofe rivoltagli dal Sommo: qualcuno rammenta dunque la regina Bithyniae?). Del resto, comunque, non bastano i legami di sangue a dar vita ad una famiglia, ed è proprio questo il mio cruccio: non essere in grado di provare ciò che ci si aspetterebbe da me. Volontariamente o meno, sono sempre stata sola: non mi sono mai trovata di fronte una persona davanti alla quale valesse la pena aprire se stessi totalmente e incondizionatamente, e anche quando credevo di aver trovato qualcuno di valido mi son sempre trattenuta dal creare legami importanti; ne avevo visto troppi sfaldarsi, sgretolarsi, crollare su se stessi, avevo visto amicizie e amori che parevano da antologia distruggersi e annientarsi, avevo consolato gente affranta e avevo giurato a me stessa che non sarei mai finita così. Non ho mai tollerato i fallimenti, e non li avrei sopportati nemmeno se si fossero verificati nella mia vita sentimentale, come è già successo con coloro che avrei dovuto amare incondizionatamente. Mi è stato insegnato a fidarmi solo di me stessa e della mia famiglia, ché almeno è sicuro che loro mi avrebbero voluto bene, ma ho obbedito solo al primo dei due comandi: nemmeno i miei parenti più stretti conoscono i miei moti dell'animo, essenzialmente perché mi sono troppo poco simili e le discordie quotidiane in casa, diverse dalle semplici scaramucce, ne sono l'irritante prova. I miei genitori sono come gli estremi di un segmento e io ho avuto la disgrazia di nascere punto medio: ho alcune affinità sia con l'uno sia con l'altro, ma in linea di massima per loro provo solo una muta e innaturale, ingrata indifferenza accessoriata da un pizzico di vergogna e una gran quantità di sensi di colpa per non provare rimorsi al riguardo. Mi sento vile per aver tradito così sfacciatamente i principi di amore universale ai quali avevo scelto autonomamente e ingenuamente di attenermi e per aver rifuggito gli affetti a priori, avendo deciso che il gioco non valeva la candela, e mi sento vile per aver lasciato talvolta tramutare la mia indifferenza in odio arrivando a pensare cose innominabili col solo scopo di causare quanta più sofferenza possibile, ma è anche vero che per ora tutti quelli che mi hanno galleggiato attorno si sono rivelati inaffidabili come avevo previsto e piuttosto che circondarmi di gente con cui dover misurare ogni parola ho preferito star da sola: sono un'ottima attrice ma una pessima bugiarda, e la volontà è il mio solo motore. Posso far tutto, basta che ne sia veramente convinta, e forse non sono mai stata capace di intrattenere una relazione interpersonale decente perché cercavo solo mie fotocopie ed ero eternamente incerta, incapace di venire incontro alla gente, tutta concentrata com'ero sul mio mondo e sui miei problemi. Non sono anaffettiva, anche se sono in molti a pensarlo: ho amore da dare, almeno credo, è solo che non so a chi, e ho paura che a furia di star nell'angolo quell'amore si sia già ammuffito o impregnato di bile e forse tanto vale che lo nasconda sotto il tappeto. Voglio dire... in questi anni mi sono creata volutamente la fama di inscalfibile e ne sono sempre stata piuttosto fiera, ma a conti fatti non so quanto mi abbia giovato. Che fare, allora? Provare a fingere un affetto che non provo ma che dovrei provare, o essere dura ma almeno sincera? Sfogarmi a ruota libera con qualcuno che mi convince e rischiare tutto? Star da sola e aspettare il momento in cui il mio animo, gonfio come un palloncino, esploderà, facendo saltar tutti dalla paura? Ci ho già messo troppe toppe e non so per quanto ancora resisterà: ogni volta che parlo, la conversazione vira a 180° e finisco a parlare di me. E poi non sto in pace nemmeno in sogno, ci sono più morti, stragi, perversioni e insensatezze nella mia testa di notte che nelle puntate de Il trono di spade. In ogni caso, rischierei di far male a qualcuno. Il mio problema è che sono come la luna: ho mille facce e sono tutte vere, e l'ho presa sul personale quando Giulietta ha rifiutato la proposta di Romeo di giurare proprio sulla luna, mio spirito guida, e anche se non credo nell'oroscopo mi sa che con me c'ha azzeccato in pieno. Sono poliedrica, non falsa (e anche molto distratta e confusa), e prima di essere capita devo essere sopportata. Probabilmente tutte le persone che mi hanno conosciuto nel corso degli anni darebbero di me descrizioni diverse: quando i miei compagni di classe mi hanno presentato come la secchiona del gruppo alle due nuove arrivate, quelle mi hanno detto che non ci credevano perché ero troppo bella per essere tale. Sentite, io non so chi sono e non so cosa voglio, ma lo voglio fortemente.

P.S. Sì, lo so, non è un articolo ma lo sfogo venuto male di una ragazza di Tumblr. Chiedo venia.

P.P.S. Ora che ci penso, ho deciso di fare la cosa più stupida e dirlo a tutto il mondo. E vabbè. Me ne pentirò fra poco. Anche perché mi sono accorta di aver scritto davvero male, questo testo ha l'armonia e la continuità di uno spettacolo pirotecnico. Bum. Bum. Bum. Badabum.

giovedì 4 settembre 2014

Tempus fugit

Un vecchio adagio afferma che il tempo sia la miglior medicina. A dire il vero, sono più propensa ad indicarlo come la migliore delle droghe: come una droga, infatti, altera il ricordo del passato e di conseguenza modifica la percezione del presente e la concezione del futuro. O forse, ancora, il tempo è il più potente degli anestetici, perché non fa sparire la radice del dolore, fa sparire il dolore e basta, e spesso sublima anche i nostri sentimenti proteggendoci inconsciamente da situazioni che potrebbero causarci danni simili in futuro. Fatto sta, però, che Crono è anche il più biasimato tra gli dei: capisco perfettamente che l'appropinquarsi del termine dell'operato di Lachesi possa far paura a molti (anche se azzarderei l'ipotesi che a terrorizzare i più non sia tanto la recisione del filo quanto il dolore che si teme di dover provare all'ora fatale, o perfino qualche dubbio atroce sulle proprie convinzioni riguardo l'aldilà), comprendo anche che scivolare lentamente nell'età avanzata ed assistere impotenti al decadimento del proprio corpo sia terribilmente frustrante, ma a dire il vero non riesco a risalire alle cause che in ogni dannatissimo caso ci fanno rimpiangere la gloria che passò, vera o presunta che sia. La fanciullezza è per definizione l'estate della vita e quindi è buona ed encomiabile per definizione: ma possibile che tutti guardino solo a lei come all'unico periodo generoso della vita? Possibile che, col passare del tempo, nessuno abbia preso le scelte giuste o sia diventato il prediletto della Tyche? Dubito che, lasciatasi ormai alle spalle la primavera della gioventù, sia stata tutta una sequela di errori, inciampi e arrangiamenti in un'escalation di allontanamenti dai sogni primigeni. Semplicemente, il tempo ha rimediato ai ricordi spiacevoli del passato edulcorandoli, relegandoli in un cassetto sperduto della mente o facendoli svanire: è uno dei sistemi più evoluti di sopravvivenza psichica inconsciamente adottati dall'uomo. Se però proviamo a far luce sul fenomeno in una scala decisamente più vasta, arriviamo al mitico detto del "si stava meglio quando si stava peggio" e "questa generazione ormai è rovinata", frasi fatte per mezzo delle quali basta davvero poco per arrivare a rivalutare in maniera positiva perfino il Ventennio; poco importa che la tecnologia, almeno in questi concitati decenni di fine XX secolo e inizio XXI, si sia evoluta a ritmi pressoché insostenibili, migliorando innegabilmente la vita quotidiana di gran parte della popolazione mondiale: pare proprio che il progredire dei tempi sia inversamente proporzionale alla promozione della pubblica morale. Mi sembra piuttosto facile dedurre che non sia affatto così, altrimenti la società sarebbe diventata un'unica, gigantesca babilonia da parecchio tempo: è che, tutto sommato, questo guardare al passato prossimo come ad una meravigliosa Arcadia da riproporre ed emulare non è una tendenza recente, anzi, affonda le sue radici nell'antichità, ed è quindi un retaggio culturale che ci portiamo appresso da molto più tempo di quel che pensiamo. Come dimenticare gli integerrimi Romani, che, nel periodo repubblicano, non si stancavano mai di predicare l'efficacia degli insostituibili costumi degli antenati ed elogiarne incessantemente il mirabolante operato storico, opponendosi con le unghie e con i denti al novello spiffero di ellenizzazione che stava iniziando a penetrare nello Stato? I maiores dei cittadini dell'Urbe dovevano essere stati, almeno stando a quanto si favoleggiava, dei cittadini davvero irreprensibili: pii, leali, onesti, severi, giusti, rispettosi di tutte le leggi possibili e immaginabili, perfetti e inimitabili come le Mary Sue dei romanzetti fantasy da due assi. Perfino l'Adone di Prassilla capirebbe che, con buona pace dei moralisti, tutto ciò mai è esistito e mai esisterà, semplicemente perché la natura umana è sempre quella, è costellata di errori, dubbi, tradimenti, viltà, crudeltà, vizi, ripensamenti d'ogni sorta ed è bene che gli intoccabili ed ormai sfuggenti antenati restino intatti nell'Oltretomba, là dove sembrano essere stati sempre presenti e a cui sembrano essere stati destinati sin dalla nascita, a guardare e giudicare con cipiglio arcigno le male azioni dei mortali. È come se il nascere in una nuova generazione ci instillasse automaticamente nella coscienza una sorta di laico peccato originale: siamo stati generati già debitori di virtù nei confronti dei nostri genitori e dei loro coetanei e solo ricalcare in tutto e per tutto le loro orme ci salverebbe dalla dannazione eterna. Cosa ovviamente impossibile: l'animo umano è sì sempre lo stesso sin dalla notte dei tempi ma il tempo è per definizione il cambiamento, il divenire: panta rei! È come trovarsi tutti assieme in un enorme recinto: sappiamo per certo che nessuno potrà mai saltare fuori dalle staccionate, ma questo non impedisce a ciascuno di esplorare lo spazio a sua disposizione come meglio crede. Quando sono stata agli scavi di Pompei, molti dei turisti che mi circondavano, stranieri e non, sembravano assolutamente stupefatti dalla presenza di tutti i progenitori degli oggetti e delle comodità moderne (a onor del vero, la frequenza di bocche spalancate raggiungeva i suoi picchi più elevati quando si parlava dei bordelli). Oh, buon cielo! Davvero credevano che i Romani o gli antichi in generale fossero i personaggi statici intrappolati nelle pagine di qualche manuale di storia illustrato, dediti esclusivamente alle attività rigorosamente e minuziosamente spiegate in quegli stessi fogli bidimensionali? Ecco che fine fanno i maiores quando passa troppo tempo! Da terreni modelli di virtù diventano delle misere figurine di carta! È sempre meglio entrare negli annali in questo modo che vergarne in prima persona le pagine col sangue, ma il Tempo è un dio capriccioso dal lungo mantello strisciante su un sentiero di neve fresca: fa rimanere quasi intatte alcune impronte, altre le deforma, altre ancora le cancella con più o meno vigore, ma di tutte confonde i contorni. Non sappiamo cosa diranno i posteri di noi, né tanto meno se si degneranno di ricordarci; il tempo fugge e noi non possiamo preoccuparci di inseguirlo; godiamocelo, piuttosto, e contemporaneamente iniziamo a spianare la strada al futuro, in modo da non trovarci impreparati né quando esso arriverà né quando esso non arriverà perché al suo posto incroceremo lo sguardo vertiginoso di Atropo. Carpe diem, diceva il troppo spesso frainteso Orazio; Quant'è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia! / Chi vuol esser lieto, sia: / del doman non v'è certezza, ribatteva Lorenzo de' Medici. Ci tocca solo sperare che l'implacabile Crono abbia pietà di noi: ma in fondo come può averla, se non l'ha avuta nemmeno per i suoi figli? Però... però il mito dice anche che egli è stato infine sconfitto proprio dall'ultimo nato, Zeus: il Potere, la Legge, l'Ordine, il Comando. Zeus, unitosi in prime nozze con Metis e da lei aiutato a sconfiggere proprio il di lui malefico genitore; Metis, l'Intelletto, l'Astuzia, addirittura la Perfidia. C'è dunque una flebile speme di aggirare il signore dell'infinito? Forse, chissà. A noi basta sapere che non tutto è come ci è stato tramandato, che anche il migliore degli eroi aveva i suoi segreti scomodi: mi piace immaginare l'animo umano nella storia come un sottile, liscio braccialetto d'oro attorno al quale si aggrovigliano ordinati e deliziosi, seguendone le curve sinuosamente perfette, dei fili d'argento: le vicende, le convenzioni, le regole, i disordini delle varie epoche. Tutto ciò giustifica forse i nostri errori e le nostre malvagità? No, affatto: ci ricorda solo che siamo da sempre in buona compagnia.