giovedì 23 ottobre 2014

De rebellione et re publica

Povera Roma mia de travertino, / te sei vestita tutta de cartone / pe' fatte rimira' da 'n imbianchino / venuto da padrone!
Questi versi, scritti da un anonimo romano in occasione della visita di Hitler a Roma nel 1938, sono le più celebri e salaci ultime parole vergate su uno dei mitici foglietti che, nella storia dell'Urbe, hanno costellato la statua parlante di Pasquino. Questo era nell'antichità una semplice scultura di marmo, come tante ve n'erano a quei tempi, tuttavia nel corso della storia gli è capitato di assumere, suo malgrado, il gravoso ma catartico ruolo di portavoce del malcontento del popolo romano. Da altera statua raffigurante il glorioso re di Sparta Menelao (forse) e ornante il superbo Stadio di Domiziano a torso sfigurato e impietosamente mutilato piazzato in uno dei tanti crocicchi della futura capitale d'Italia a far da valvola di sfogo per le invettive del popolino: bello smacco, eh? Ma Pasquino, cosa mirabile a dirsi (soprattutto se a farlo è la sottoscritta), si è fieramente guadagnato a buon diritto un ruolo di primissimo piano nelle contorte vicende che hanno avviluppato la Roma papalina e forse, al relativamente modico prezzo di un non proprio felice stato di conservazione, ha ottenuto quello che magari non avrebbe ricavato da un'esposizione in un museo, circondato e messo in ombra da tanti suoi simili, molti dei quali più esteticamente soddisfacenti o più archeologicamente interessanti. Pasquino è l'emblema di quel quid di cui lo spirito latino si è sempre voracemente nutrito e, nonostante i papi fossero i primi a volersene sbarazzare per ragioni più che ovvie, quando Adriano VI fu davvero sul punto di gettarlo nel Tevere, fu dissuaso dal farlo proprio dai suoi cardinali, che vedevano nella possibile scomparsa dell'impertinente statua un attacco troppo audace alla congenita inclinazione alla satira del popolo romano. La satira! Satura quidem tota nostra est, denunciava orgoglioso Quintiliano nel I secolo d.C., rimarcando le origini esclusivamente italiche dell'invettiva pungente fatta letteratura: e di chi poteva essere figlia la satira, se non della città eterna e dei suoi tanto megalomani quanto veraci abitanti? Oh, suadente e strisciante serpe dai denti velenosi, benedetto e centellinato flusso acre della società, opposizione fioca e fatale, unico, eloquentissimo antidoto alla secolare corruzione del potere! Per capire chi vi comanda, basta scoprire chi non vi è permesso criticare, diceva una nota massima di Voltaire. E il papa, manco a dirlo... mica era possibile criticarlo, nossignore! Benedetto XIII, per esempio, emanò addirittura un editto che prevedeva pena di morte, confisca e infamia per chi si fosse reso colpevole di pasquinate e fece presidiare la statua da guardie scelte giorno e notte... per tutta risposta, i romani andarono ad appiccicare i loro fogliettini alle altre statue parlanti: Madama Lucrezia, Marforio, il Babuino, il Facchino e l'Abate Luigi. Tappò un buco e se ne formarono cento altri, insomma. Ma cos'altro avrebbe potuto fare il popolo? Una rivoluzione? Morto un papa se ne fa un altro, e poi come non ricordare a tal proposito l'aneddoto narrato da Valerio Massimo che vedeva protagonisti Dionigi, crudelissimo tiranno di Siracusa, e un'anonima vecchietta che, al contrario dei suoi concittadini, pregava affinché questo despota vivesse più a lungo possibile perché l'esperienza le aveva insegnato che alla sua morte ne sarebbe potuto arrivare uno perfino peggiore? Insomma, a meno che non vi sia qualche evento clamoroso o la proverbiale caduta dell'ultima goccia nel vaso già stracolmo a dar fuoco alle polveri, il popolo non prende le armi in mano: tuttavia, non può nemmeno restare a guardare e a subire passivamente, e la satira si presta in maniera eccellente a far da baionetta per le ragioni del volgo. La satira è probabilmente anche l'unica cosa che è rimasta anche ai nostri tempi moderni, o perlomeno qui in Italia, allo scopo, più che di denunciare i misfatti dei potenti, di sollevare un po' su il morale a noi cittadini lamentosi, anche se ammetto che davvero in politica siamo disastrati e non ci resta che piangere e mi vergogno quasi a dirlo ma ringrazio il cielo di non essere ancora maggiorenne per non dovermi ancora accollare il diritto/dovere del voto perché, lo dico col cuore in mano, non saprei a chi dare la mia preferenza. Ho tentato di interessarmi di politica: non è il mio campo d'interesse, ma ci sto provando comunque, perché so che è mio diritto e mio dovere influire, seppur in minima parte, sulle scelte prese dalla classe dirigente del mio Paese nel mio Paese, il problema è che... il quadro generale è, nel migliore dei casi, desolante, o meglio ancora, in uno stato indescrivibile a metà tra lo spiazzante e il disarmante. Là dentro c'è gente che ha a malapena i requisiti necessari per conseguire la terza media, che crede a idiozie complottiste, che avanza proposte oscene (improvvisamente la nomina del cavallo Incitatus a senatore da parte di Caligola parrebbe quasi un atto assennato e magari pure pietoso nei confronti della massima istituzione dello Stato) che sarebbero state ritenute obsolete pure nell'Età del Ferro e blatera idiozie razziste e manipola tutto ciò che c'è da manipolare e non si sforza nemmeno di assumere le parvenze di persona non dico competente ma almeno normale, sana di mente (il fatto che gente che pensa che lo sbarco sulla Luna sia un'invenzione della NASA o di chissà chi altro appoggi le sue rosee e villose natiche sugli scranni parlamentari mi disgusta assai). Non oso dunque pretendere che il politico spicchi fra la massa per le sue qualità superiori, chiedo solo che almeno si confonda in essa e non si metta alla berlina da solo per essersi rivelato un deficiente a tutto tondo, ecco, ché al massimo l'unica cosa buona che fa in questo caso è offrire ottimo materiale ai cabarettisti da villaggio vacanze per la settimana di Ferragosto. È che io non mi stupisco che oggi l'astensionismo alle votazioni sia salito alle stelle: sia chiaro, non lo giustifico, ma lo comprendo, perché credo che il ragionamento di fondo sia il seguente: "se proprio devo essere male governato, che almeno siano gli altri a scegliere di che morte devo morire". Eh, il problema è che certe morti sono più dolorose di altre ma il dolore è percepito da ognuno in maniera diversa, quindi una scelta s'ha da fare. Canta de Gregori in "La storia siamo noi":
E poi ti dicono "tutti sono uguali, tutti rubano nella stessa maniera" / ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera.
Ha ragione? Eh, sì. Anche quando tutto pare un'indistinta nebula grigia bisogna cercare di raccapezzarsi e non dare ascolto a chi ci dice di lasciar perdere a priori: se cadremo nella lotta, almeno sapremo di essere schiattati con onore. Il problema sta nel fatto che il potere corrompe tutto ciò con cui viene a contatto, come una specie di crudele alter ego del re Mida, e la natura umana, seppur buona in partenza, si abitua ben presto ai meccanismi arrugginiti che muovono il mondo e non trova quindi difficoltà a piegarsi ancora, una volta e per sempre, agli ingranaggi del comando: solo uomini dalla morale integerrima - e chi li trova più - potrebbero riuscire ad opporvisi, tentando di oliare i ferri incrostati, ma il loro successo è quotato uno a un miliardo: gli idealisti, infatti, o si trasformano in materialisti o vengono da questi ultimi fatti fuori. Tuttavia, dobbiamo sperare, sempre. La sera è arrivata già da un pezzo e noi non possiamo assolutamente trincerarci al di là dei nostri piccoli usci: usciamo, accendiamo torce e candele, non importa quanta luce faranno, accendiamole e basta, e se verranno spente dal vento o dal soffio di un nemico, chi se ne frega, accendiamole ancora finché non avremo esaurito tutto il combustibile, finché nella scatola di fiammiferi non sarà rimasto altro che un mucchietto di mozziconi bruciacchiati. Ne vale la pena? Oh beh, nessuna causa è persa finché c'è un solo folle a combattere per essa. E se i folli sono di più, le probabilità di vincere aumentano, anche se comunque il tutto resta un po' come il giocare alla lotteria: si rischia più o meno tanto, si perde spessissimo, ma diamine, se si vince è tutto guadagno.

sabato 18 ottobre 2014

Nox fraudium - Numquam postea Masada expugnabitur

Correva l'anno domini 1969 nella calda terra di Sicilia, che a dire il vero non doveva essere poi così calda nel tempo in cui si svolge la vicenda che andiamo a raccontare: un'anonima notte d'ottobre, per la precisione quella tra il 17 e il 18, e che effettivamente sarebbe rimasta tale se solo non fosse successo quello che è successo. Siamo nella bella Palermo e ci accingiamo a profanare coi nostri passi il sacro pomerio dell'Oratorio di San Lorenzo, che ora di mistico e sovrannaturale sembra avere soprattutto il silenzio. Tutto tace. Ma del resto è notte fonda, cosa mai potremmo aspettarci? Perfino il rumore delle gocce di pioggia che scalfiscono inesorabili l'esterno sembra essersi azzittito, o meglio, mescolato col mutismo assordante dell'interno per creare una pacifica atmosfera, il silenzio vivo e quieto che si distingue da quello inquietante e solenne dei cimiteri. Ma non siamo soli. O comunque non lo siamo stati nelle ultime ore, poco ma sicuro. Il portone dalla serratura cigolante è già semiaperto. Ci guardiamo intorno per capire quali siano gli altri elementi che stonano col nostro ultimo ricordo di quel luogo. Gli stucchi e i rilievi sono ancora lì, immobili, candidi, ieratici, sui muri e sul soffitto. Beh, non potrebbero muoversi nemmeno se lo volessero, e men che meno potrebbero comunque volerlo. Il lampadario pure: incombe benevolo su di noi con la sua lucida e familiare mole dorata. Ma allora cos'è che non va? È solo che... il lampadario non dovrebbe essere l'unica fonte di luce qui dentro. Ce ne dovrebbe essere un'altra, che risplende da secoli, non del fuoco di natura ma di quello che ha consumato l'intera esistenza di un animo tormentato. Un momento. Bianco. C'è bianco ovunque. Bianco dappertutto. Ce n'è troppo. C'è bianco anche dove non dovrebbe esserci. C'è un grande rettangolo bianco lì dove c'era il quadro... il quadro! Dov'è finito? La tela! Manca la tela!
È nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969, infatti, che viene rubato a Palermo il dipinto della Natività con i santi Francesco e Lorenzo, opera dell'indiscusso genio di Michelangelo Merisi da Caravaggio, realizzato durante il suo dibattutissimo soggiorno siciliano. I più videro subito nei mandanti del crimine la mafia siciliana, e in effetti una successiva dichiarazione di un pentito provò a fornire agli investigatori il luogo in cui sarebbe dovuto essere nascosto il quadro, luogo che però, esaminato da cima a fondo, non rivelò alcunché. Un'altra notizia arrivò nel 1980, quando un giornalista inglese dichiarò di aver avuto dei contatti con un mercante d'arte che gli propose la Natività. Forse sarebbe potuta essere un'occasione irripetibile per riappropriarsi del quadro: del resto, Rodolfo Siviero aveva usato quella stessa tattica -fingersi interessato ad un acquisto clandestino- per restituire alla patria uno dei tanti dipinti trafugati durante la seconda guerra mondiale. Ma l'incontro era stato fissato per il 23 novembre. In Irpinia. E nessuno, inutile dirlo, aveva fatto i conti con la beffarda catastrofe che proprio quel giorno avrebbe sconvolto la terra: l'incontro, perciò, non avvenne mai. Nel '92 un altro pentito dichiarò che il dipinto aveva svolto la funzione di simbolo di prestigio nelle riunioni mafiose; nel 2009, un altro pentito ancora rivelò che l'opera avrebbe fatto una fine raccapricciante: nascosta in una stalla, rosicchiata da topi e maiali e infine data pietosamente in pasto alle fiamme. Il comando dei carabinieri per la tutela del patrimonio culturale era stato creato, per un'ulteriore ironia della sorte, solo pochi mesi prima del misterioso quanto sconvolgente furto. E, leggendo quest'articolo, pare proprio che nessuno se ne sia dimenticato, anzi. Sembra che il Caravaggio perduto sia il motore primo che anima il lavoro dell'Arma.
Ma l'articolo di oggi ha due titoli. Perché? Beh, il primo si riferisce indubbiamente alla vicenda appena narrata (e spero che il termine "fraudium" sia stato abbastanza ambiguo da rievocare nella mente del lettore anche un'altra notte silenziosa e rocambolesca allo stesso tempo, ma stavolta solo letteraria). Il secondo, invece, è semplicemente la traduzione latina di un motto ebraico invero quivi poco conosciuto e riferito ad un aneddoto molto particolare, narrato dallo storico Giuseppe Flavio: la caduta della roccaforte di Masada in mano romana. Pare difatti che i figli di Marte, pur di stanare i 960 rifugiati della cittadina, abbiano costruito una babilonica rampa di accesso e che, a sforzo avvenuto, abbiano trionfalmente calpestato una terra sabbiosa ma già insanguinata e dunque messa definitivamente a tacere: stando alla leggenda (e a Giuseppe Flavio), infatti, gli assediati avevano preferito uccidersi l'un altro piuttosto che cadere in mano nemica. Oggi l'archeologia tende a ridimensionare notevolmente la portata dell'evento: pare che la rampa dei Romani fosse di un'altezza molto inferiore rispetto a quella conclamata e, soprattutto, che siano state trovate solo poche decine di cadaveri rispetto alle centinaia narrate da Flavio. Insomma, la storia annienta il mito.
Ma qual è l'anello di congiunzione fra le due vicende appena narrate? Bisogna sapere che il solenne giuramento delle milizie israeliane avviene ancora oggi al grido di "mai più Masada cadrà", parole che mi hanno inspiegabilmente ricordato una frase dell'articolo, riferita al quadro: "è l'opera che più vorremmo ritrovare. Non c'è carabiniere della Tutela Patrimonio Culturale che non la ricordi almeno una volta al giorno". In entrambi i casi, dunque, c'è un avvenimento triste e importante a motivare l'azione di due determinati gruppi che in comune hanno, forse, solo l'appartenenza alle forze armate dei rispettivi paesi. Non si tratta dunque di due effettive "prime volte", ma di due veri e propri punti di svolta. I furti d'arte e le capitolazioni di città assediate non erano certo realtà novelle rispetto ai tempi in cui si sono svolte le relative vicende, eppure questi due eventi hanno costituito, per i loro stessi protagonisti nel primo caso e per i posteri nel secondo, lo "scatto della molla". Un esempio vagamente simile potrebbe essere quello di un bambino che, seppure ripetutamente avvisato della pericolosità delle spine di un rosa, abbia deciso di toccarle ugualmente e ne sia stato conseguentemente ferito: il bambino, da quel momento in poi, non toccherà più le spine non solo perché gli è già stato detto più e più volte, ma perché ha sperimentato quanto possano essere dolorose le spine. Quello della capitale importanza dei fatti rispetto alle parole è un assioma che ci viene propinato quasi a cadenza quotidiana ma in pochi conoscono le reali motivazioni che si celano dietro tutto ciò: è, in sostanza, la stessa storia di chi pensa al burrone dopo essercisi affacciato o esservi precipitato e in seguito riuscito a risalire e chi sa che il burrone è profondo solo perché gliel'hanno detto gli altri. Non è detto che il secondo sia da biasimare a priori, anzi, può capitare che qualcuno che abbia vissuto di persona un determinato evento non abbia ancora imparato la lezione e rischi di ripetere candidamente la medesima esperienza mentre può anche accadere che vi sia chi non abbia bisogno di stare in una determinata situazione per percepirne le caratteristiche: tuttavia, in genere è dall'esperienza che nascono i miglioramenti. Oscar Wilde diceva che proprio l'esperienza non era altro che il nome che gli uomini davano ai propri errori: non concordo in toto col gentiluomo vittoriano data la mia profonda convinzione che anche i fatti positivi costituiscano un bagaglio di storia privata non indifferente (insomma, non c'è bisogno di essere stati bocciati ad un esame per poter dare consigli utili a chi si accinge ad affrontarlo), però è anche vero che sono in gran parte gli errori a costituire dei punti di svolta nelle nostre esistenze (ritorna dunque il tema dell'utilità del male: gli errori sono negativi per definizione ma da essi può nascere qualcosa di positivo). Per i greci il termine corretto per quella che noi chiamiamo esperienza era ἐμπειρία, ovvero prova interna, perché solo grazie ad essa il soggetto era in grado di saggiare la realtà: molti vi arrivavano con la πρᾶξις, i più sensibili e intuitivi con il λόγος, ma in fin dei conti l'importante era giungerci. Sì, gli errori sarebbero da evitare: ma, in mancanza di tale possibilità, non è forse meglio farsi beffe della Sorte dimostrandole che anche dai suoi tiri mancini si possono trar vantaggi?

giovedì 16 ottobre 2014

Amors

Quello di Évariste Galois è un nome praticamente sconosciuto alla maggioranza, nonostante la storia dell'uomo che l'ha portato si sarebbe rivelata a conti fatti più che degna di diventare una leggenda popolare. Il libro che ne narra la vita ha il meravigliosamente evocativo titolo di Tredici ore per l'immortalità, tuttavia è bene far notare che quella italiana non è la pedissequa traduzione del titolo inglese, che invece recita Whom the Gods love, ovvero Colui che gli dei amano, un chiaro riferimento alla mitica frase di Menandro che ha scavalcato i naturalmente elitari confini della classicità per andare a imprimersi nella coscienza collettiva: Ὃν οἱ θεοὶ φιλοῦσινἀποθνήσκει νέος, ovvero "muore giovane colui che è caro agli dei". E Galois morì davvero giovane: non aveva nemmeno ventun anni quando un proiettile gli perforò l'addome nel corso di un duello avvenuto, a quanto sembra, per salvare l'onore della donna amata (ci sono varie versioni al riguardo, ma nell'attesa di leggere il libro ho accolto, da brava e inguaribile romantica, quella più poetica). Ma Évariste, caso più unico che raro, ha saputo guadagnarsi la fama che gli era dovuta in un altro ben più insospettabile campo: quello matematico. A soli vent'anni è un genio dei numeri e, sebbene respinto per ben due volte all'esame di ammissione all'École polytechnique, ben lungi dall'arrendersi, manda i suoi lavori prima a Cauchy, che suggerisce di modificarli perché troppo somiglianti ad un lavoro di Abel, e poi a Fourier, che muore prima di vederne la versione rivisitata. Infine è la volta di Poisson, che li rifiuta adducendo come motivazione la scarsa chiarezza espositiva degli scritti e invita il giovane a rivederli da cima a fondo. Ma, come egli stesso dichiara negli appunti frettolosamente stilati prima dell'ora fatale, non ha tempo. Sa che morirà in quel duello, ne è assolutamente certo, ma al contempo, con quella scintilla di intima sensibilità tipica dei geni, è perfettamente consapevole anche della capitale importanza del proprio lavoro. E così, in sole tredici, ticchettanti, incipienti, impietose ore, prova a riordinare freneticamente le sudate carte: sembra quasi di vederlo, rinchiuso in un bugigattolo oscuro, forse maleodorante, saturo d'aria viziata, con la sola compagnia di un misero mozzicone di candela, in preda all'ansia, quasi al delirio, vergare senza posa, praticamente a memoria, le sue formule, le sue teorie, intingere furioso la penna nel calamaio, e scrivere scrivere scrivere, consapevole con una lucidità tremenda, disarmante, terribile e logicamente elementare che il giorno dopo non potrà più godere della vita. Ed Évariste, come previsto, spira nell'ultimo giorno di maggio del 1832, rivolgendo le sue ultime, strazianti e perfino romanzesche parole al fratello Alfred: «Non piangere! Ho bisogno di tutto il mio coraggio per morire a vent'anni». Giovane, geniale e morto per amore: se probabilmente si fosse dedicato agli studi letterari anziché a quelli matematici, la Storia avrebbe fatto di lui un eroe romantico a tutti gli effetti. Ammesso che la motivazione sentimentale sia quella vera, la domanda cruciale è: vale davvero morire per amore? Tempo fa, visitando il cimitero cittadino, mio nonno mi indicò la statua di un angelo posizionata ad uno dei crocicchi: all'inizio la ritenni solo un elemento decorativo, poi mi accorsi che, alla base, v'erano una foto incorniciata e un'incisione. Avvicinandomi, mi resi conto che la foto, in bianco e nero, rappresentava una fanciulla sorridente vestita alla moda della Belle Époque e che incisi nella pietra v'erano alcuni versi scritti in un italiano piuttosto aulico ma altrettanto comprensibile, sebbene non si potesse dire lo stesso del senso complessivo delle frasi. Solo quando mio nonno mi spiegò che la ragazza si era suicidata per una delusione d'amore riuscii ad intravedere il luccichio del filo trasparente che si attorcigliava languido attorno alle lettere dell'epitaffio e ne compresi a pieno il significato. Perché la statua di un angelo, infine? Facile, la ragazza si era lanciata dal campanile della chiesa di sant'Angelo del mio paese, non era riuscita a sopportare che il fidanzato l'avesse lasciata per un'altra. Annetta, si chiamava. Annetta non è nemmeno un nome vero e proprio, è un diminutivo fatto nome, Annetta sa d'eterna gioventù, di quel bocciolo roseo cristallizzatosi nel sangue su un terreno sacro quel giorno o quella notte di tanti decenni fa. Ma Annetta ha dato la sua vita per una causa di cui non sappiamo nulla, di cui non so nulla, tranne che aveva a che fare con un uomo che le aveva spezzato il cuore. Ignoro del tutto quali siano stati i vincoli reali che la legavano a quello sconosciuto di cui non mi è stato tramandato nemmeno il nome, so solo che per lui o per colpa sua ci ha rimesso la vita. Magari l'aveva tradita. O semplicemente si era stancato di lei. O forse, ancora, aveva trovato un partito migliore da sposare. O magari, semplicemente, non ne era innamorato a sua volta e l'aveva respinta. O l'aveva illusa per trarne un vantaggio personale. Chissà. Mi vengono meno le forze nel giudicare l'estremo gesto della ragazza, anzi, parlandone qui mi sembra quasi di profanarne la memoria e se c'è, ovunque sia, le chiedo perdono. Mi limito a constatare, spero il più innocentemente possibile, che forse, in un mondo perfettamente razionale... non ne sarebbe valsa la pena, ecco. Un uomo a cui di lei non importava a tal punto da amarla non meritava affatto che in suo nome venisse versato del sangue. Forse, prima dell'amore per l'altro, viene l'amore per sé stessi: penso che sia la chiave di volta che ci consente di rapportarci al prossimo in maniera sana in modo da rispettare onorevolmente ogni esistenza. Con "amore per sé stessi" non alludo all'egoismo, anzi, ma a quella vena di istinto di autoconservazione che nell'animo umano dovrebbe aver perso il suo carattere bestiale e assunto quella connotazione di candida semplicità e naturalezza che si prefigge l'obiettivo di farci vivere e vivere bene ma non a tutti i costi e soprattutto non necessariamente a discapito degli altri (è qui che interviene la ragione, del resto). Tuttavia, come non mi stancherò mai di ripetere, la sola e unica forza che governa il mondo è l'amor che move il sole e l'altre stelle, proprio perché l'amore in sé... è equilibrio. L'amore vero, a parer mio, è un miscuglio omogeneo di senno e follia, di ragione e sentimento, una somma di tanti, diversi, infiniti amori che danno (o dovrebbero dare) come risultato zero, altrimenti poi l'equazione si sbilancia. Anche quello di Galois, a pensarci bene, è stato un suicidio, forse perfino più terribile di quello di Annetta perché già preannunciato: in fondo, egli sapeva che sarebbe morto, anzi, magari aveva proposto egli stesso il duello per poi scoprire solo in seguito che ci avrebbe rimesso le penne sembra ombra di dubbio. Avrebbe potuto scappare, in quelle tredici ore, oppure passare il tempo a contemplare il cielo, il sole, la luna, la natura, un bel quadro, leggere un libro, stare con gli amici o i parenti, disperarsi per aver commesso il più grave errore della sua esistenza, darsi magari perfino alla fuga... e invece no. Galois sceglie la matematica. Sceglie sé stesso e l'umanità, contemporaneamente. Non ci è nota l'identità della sua amata, né quello che provasse per lui, ed è qui che si ingarbugliano i fili delle vicende che ci impediscono di avere un quadro chiaro della situazione e di formulare uno o più pensieri al riguardo: questo, signori miei, è terreno di congetture, le scienze esatte sono campo di Évariste. La parola del titolo, amors, a dirla tutta non è latino, anzi, non esiste e basta: una leggenda metropolitana vuole però che il termine amore derivi proprio da questo sedicente alfa privativo unito al sostantivo mors, la morte; senza morte, dunque. Un'etimologia fantasiosa, palesemente costruita ad hoc, ma non per questo meno affascinante, così come lo è l'indubbia assonanza tra i termini amor e mors, che anche grammaticalmente parlando sembrano essere legati a doppio filo. Quand'è, dunque, che finisce l'uno e inizia l'altra (intesa anche in senso metaforico)? Forse, semplicemente, quando pensiamo di poter fare a meno di uno degli amori dell'equazione sbagliando ad assegnare i giusti valori agli elementi che la compongono.

martedì 7 ottobre 2014

De libertate

Avendo a che fare quasi a cadenza quotidiana con il femminismo e le sue (ahimé spesso) deliranti adepte, mi è anche capitato di spulciare alcuni articoli sul divario salariale (in inglese pay gap) che intercorrerebbe fra gli stipendi di uomini e donne. Penso che il cruciale nodo di Gordio che avvolge gelosamente la questione possa essere incredibilmente sciolto in una maniera piuttosto elementare se si va a guardare la quinta pagina del suddetto documento redatto da nientepopodimeno che la Commissione Europea, il che implica già a prescindere che si ha a che fare con qualcosa di abbastanza lontano dal blog del primo sfigato che vi insegna come truccare i motorini. Il calcolo del divario salariale, per loro stessa ammissione, non tiene assolutamente conto di tutte le dinamiche che lo influenzano: semplificando un po' ma non troppo la questione, è come prendere un campione di cento persone di cui quaranta cassiere, dieci dottoresse, dieci cassieri e quaranta dottori. È ovvio che gli stipendi degli uomini risultino più alti, nevvero? Ma è anche ovvio che la colpa non sia da imputarsi alla virilità dei suddetti quanto piuttosto alle professioni esercitate. Una chicca: guardate la percentuale italiana nella tredicesima pagina del documento, siamo così democratici che se ci sono stipendi da schifo qui devono essere recepiti proprio da tutti! Una volta dimostrato, dunque, che le donne guadagnano di meno perché scelgono di lavorare di meno, di fare meno carriera o di accedere a professioni dichiaratamente meno remunerative, resta da approdare all'ultima spiaggia: perché le donne scelgono questo? Sono intrappolate da sedicenti stereotipi di genere o prendono le loro decisioni autonomamente? Francamente ritengo la donna occidentale abbastanza indipendente e intelligente da riuscire a stabilire da sé ciò che ritiene sia il meglio per la propria persona: probabilmente, coi tempi che corrono, l'unica costrizione in cui potrebbe incorrere nel civile ovest del mondo potrebbe essere quella di seguire la tradizione lavorativa di famiglia, ma questo fardello spetta a pari merito anche agli eredi maschi, quindi automaticamente non conta. Per le donne di altri Paesi, beh, che dire? Quando si vive in condizioni disagiate, non è mai una sola categoria a passarsela male. Alle donne viene inculcata in maniera subdola sin dalla notte dei tempi l'idea che debbano essere mogli e madri? Sinceramente preferisco vedere la situazione al contrario (o meglio, io la intendo così): sono più propensa a credere che sia stata la società ad adattarsi alla natura e non viceversa. Il mercato punta su femminilità (nome che probabilmente solo nella mente delle femministe evoca ammassi di bizzarre chincaglierie rosa di dubbia utilità da annientare spietatamente) e maternità perché è quello che vuole la gran parte delle donne, come natura comanda: del resto, l'istinto primario è quello della riproduzione della specie, e non credo nemmeno che sia necessaria una notevole dose di intuito o di approfondite conoscenze scientifiche per capire il motivo per cui le donne ne sono psicologicamente coinvolte in maniera maggiore degli uomini. Alcune vi si possono a buon diritto opporre con la ragione di cui siamo dotate in quanto esseri umani, ma resteranno comunque una minoranza: la ragione, in genere, è più utile a controllare l'istinto e ad incanalarlo entro gli argini della civiltà piuttosto che ad opporvisi in maniera totalitaria e totalizzante. Le donne che compongono la suddetta minoranza hanno e devono avere tutti i diritti della maggioranza, ma si può elementarmente dedurre che chiunque non sia dotato dalla sola bollicina dell'acqua Lete vagante nel proprio cranio sappia perfettamente che ogni essere umano è nell'intimo meravigliosamente e orgogliosamente diverso dal suo prossimo, ma che per mere questioni di comodità siamo tutti portati a generalizzare. E generalizzare è dunque qualcosa di ingiusto? No, a meno che non si dimentichi l'assioma appena enunciato. Le donne hanno semplicemente forze e debolezze diverse rispetto a quelle degli uomini e anelare alla parità di genere non implica né dovrebbe implicare l'affannosa e vana ricerca di rendere entrambi uguali su tutti i fronti propinando degli improbabili e inesistenti cinquanta e cinquanta un po' ovunque. Oh, andiamo, è come se qualcuno, per eliminare la questione razzista fra bianchi e neri, proponesse di tingerci tutti la pelle color caffellatte per non far torto a nessuno: raccapricciante, nevvero? Uomini e donne sono naturalmente diversi e razionalmente di pari valore, né più né meno, e tutti perfettamente in grado di scegliere quali stimoli e pulsioni, esterni o interni, seguire. Sono difatti dell'idea, squisitamente di stampo filosofico, che la libertà, la vera libertà, quella assoluta... semplicemente non esista, o perlomeno non nel mondo reale. Quando nasciamo, il mondo non è un foglio bianco che noi possiamo tagliare, colorare, decorare o strappare a nostro piacimento (o, come vorrebbe qualcuno, dividere in tante caselle perfettamente uguali), il mondo è già incasinato come una tela di Pollock, è un campo sterminato in cui soffiano infiniti venti da infinite direzioni ed è fisiologicamente impossibile evitare di farsi trascinare da almeno uno di questi: il massimo che possiamo fare è sceglierceli, scegliere le nostre catene, le cose da cui lasciarci influenzare. Ci sono catene più o meno visibili, ci sono persone che non si rendono nemmeno conto di essere trascinate da uno o più venti, altre che ne negano con forza l'esistenza, altre ancora che semplicemente optano per quella che ritengono la via giusta; tuttavia anche in situazioni che riteniamo non-libere ci sono almeno due opzioni da valutare (e il fatto che talvolta una di queste sia la morte non toglie valore alla scelta). Ci sono vari gradi di libertà, credo direttamente proporzionali al numero delle opzioni che ci si presentano davanti, ma a quella pura e reale non è arrivato né mai arriverà alcuno, e a dire il vero trovo che tutto ciò sia non sia qualcosa di negativo, anzi. La libertà assoluta da sperimentare nella vita vera è un bene troppo grande per noi miseri umani, è come mettere una bomba in mano ad un bambino: qualcosa di inquantificabile, sproporzionato e sorprendentemente disarmante, con cui magari all'inizio ci si può baloccare in maniera innocua ma che dopo fin troppo poco tempo potrebbe distruggere noi stessi e quelli che ci circondano. Tuttavia... una via di fuga c'è. È la nostra mente, l'unico luogo dove tutto è possibile perché lì siamo noi a tirare i fili del nostro destino, l'unico posto in cui la volontà può veramente e perfettamente corrispondere alla possibilità. L'unico, immenso atomo in cui si fondono omogeneamente il nulla e l'infinito, in cui siamo candidamente soli e perciò possiamo essere e creare tutto quello che vogliamo senza limiti di sorta. Quello della libertà, inutile dirlo, è un nome che si colloca in quel limbo indefinito tra ciò che abbiamo timore di pronunciare e ciò che desideriamo più d'ogni altra cosa gridare al mondo, e fra i tanti che ne hanno parlato non posso non citare il Sommo, secondo cui la libertà non consiste nell'avere un buon padrone ma nel non averne nessuno. Beh, nella mia personale visione del mondo, è impossibile non avere un padrone, o meglio, diciamo che all'inizio ce ne vengono proposti tanti e noi siamo per forza di cose costretti ad averne almeno uno: la scelta fra i vari "padroni" (uomini o idee, poco importa), però, è tanto più vasta quanto noi siamo liberi. E a dirla tutta dichiararsi liberi è pure il peggiore dei fardelli, visto che implica assumere su di sé le proprie responsabilità, ma la libertà è una cosa che va ricercata in maniera sempre maggiore anche se sappiamo che non la otterremo mai per intero semplicemente perché è positiva per definizione, è uno di quei dogmi dell'esistenza della cui bontà nessuno può e deve in alcun modo dubitare, anche se, proprio in suo nome, gli sarebbe lecito farlo.