giovedì 18 dicembre 2014

Vis grata puellae

Temo che tutte le donne apprezzino la crudeltà, la crudeltà pura, più di qualsiasi altra cosa. I loro istinti sono meravigliosamente primitivi. Le abbiamo emancipate, ma esse rimangono sempre schiave in cerca di un padrone. Amano essere dominate.                                                                                                                                                  (Oscar Wilde)
Come sapete, in quanto amministratrice di una pagina contro il femminismo e scrittrice di diversi articoli al riguardo, il tema della parità dei sessi mi sta particolarmente a cuore. Così, la scoperta quasi simultanea dell'esistenza di questa citazione di quel figlio di... un dandy di Oscar Wilde e di questa foto pubblicata sulla pagina ufficiale delle WAF mi hanno lasciato di stucco a pari merito: ammetto candidamente che la mia prima reazione ad entrambe è stata una faccia da "wtf" seguita da un "però niente droga contraffatta la prossima volta" (per quanto riguarda l'immagine, poi, c'è stato un fugace attimo di sconforto nel leggere che la sua autrice era cristiana come me - "oh no, non di nuovo"), poi però ho fatto scorrere un po' i commenti e ne ho trovato uno decisamente interessante, scritto da un ragazzo che ha fatto notare come effettivamente le donne cerchino qualcuno di "superiore" a loro sia fisicamente (età, altezza, forza) sia caratterialmente (spirito di iniziativa, maturità) sia socialmente (ricchezza, status sociale). E francamente non penso che ci sia bisogno di riflettere molto per capire che è vero: la stragrande maggioranza dei fidanzati delle mie amiche è effettivamente così, ma non per questo tiranneggia deliberatamente le proprie compagne, anzi, a me pare che entrambi vivano sereni e quindi non vi sia alcuna effettiva subordinazione femminile; sappiamo che è praticamente impossibile essere uguali e pari in tutti i campi, al contrario di quanto vorrebbero alcuni, ed ecco dunque che ci si divide i compiti ciascuno secondo le proprie capacità, e non so se è per legge di natura o per evoluzione di società che a uomini e donne riescono in massima parte cose diverse fra loro e pure complementari, cose che oggi par brutto nominare in relazione quasi esclusiva all'uno o all'altro sesso ma sancite implicitamente in un tempo immemore ed ancestrale nel tacito e vitale patto per la sopravvivenza. S'impara in terza elementare che le genti del Paleolitico avevano usi semplici, sapete, uomini a caccia fuori dalla caverna e donne a ravvivare il fuoco e a praticare con l'erbe e a curar pargoletti, mica se ne fregavano qualcosa di femminismo, di maschilismo, di parità dei sessi o di qualcosa del genere, è che poveretti, non ne erano in grado... non ancora, perlomeno. Non è che agli uomini o alle donne interessasse davvero sottomettere la controparte o relegarla nel ruolo opposto al proprio, volevano semplicemente giocare di squadra e far campare la propria prole: natura ha assegnato agli uomini maggior forza fisica e alle donne gravidanza e allattamento e quindi istinto genitoriale più forte, perciò vien da sé che ad ognuno spettassero compiti diversi. Poi, però, il tempo ha continuato a scorrere e le cose son cambiate, sono nate prima gerarchie e poi città, insomma: all'istinto si è unita la razionalità. Che non è ad esso subentrata, attenzione, altrimenti non staremmo qui a parlare: la ragione è servita ad incanalare l'istinto nei neonati canoni della civiltà. La ragione ci ha trasformato da bestie a umani. Così, dunque, sono sorte le colonne d'Ercole che hanno relegato la donna dentro e l'uomo fuori dalla casa, che non si sono curate delle differenti attitudini del singolo individuo e ne hanno pianificato la vita prima in funzione del proprio ceto sociale e poi in funzione del proprio sesso, che hanno sancito la superiorità dell'uomo prima in base alla propria forza fisica e poi in virtù di una supposta superiorità intellettiva (uomo come unico portatore di logos, in atavica contrapposizione all'istinto materno, che di pensieri e sillogismi bisogno di certo non aveva), che hanno esautorato la donna dal ruolo di magica dea madre e misteriosa datrice di vita fino a renderla un mero ricettacolo del seme maschile quando ci si è accorti che anche l'uomo contribuiva alla procreazione. Insomma, la parabola discendente della figura femminile non ha avuto origine da un complotto dell'altro sesso, è stato più o meno il prodotto di una sequela di eventi "sfortunati", come del resto accade per tutti i fatti della Storia. E oggi? Oggi è diverso, perché alla forza bruta si è sostituita quasi per intero la diplomazia e lo sfruttamento dell'intelletto (per chi ce l'ha, s'intende), quindi una parità dei sessi non è solo moralmente doverosa, è anche naturalmente derivante dalle evoluzioni della società. Trionfa la razionalità, dunque, ma l'istinto non scompare, e a tal proposito vorrei citare, forse impropriamente, lo straordinario successo tenuto dalla trilogia delle "Cinquanta sfumature" di tale E. L. James, che come sappiamo è sostanzialmente la saga di Twilight con i nomi dei personaggi cambiati e il vampirismo sostituito col sadomaso. Il protagonista, Christian Grey, è noto al mondo per essere bello, ricco ("Anastasia, io guadagno circa centomila dollari all'ora" è la sua frase cult) e amante di pratiche sessuali... diciamo di nicchia, che comprendono sculacciate, frustate e altra roba che non sto qui a spiegare perché, come Anastasia, potete erudirvi su Wikipedia. O un sito porno qualunque, tanto è lo stesso. Insomma, fatto sta che 'sto tizio ha riscosso un successo stratosferico fra le donne di tutto il mondo e chiedersi il perché è effettivamente la cosa più naturale che si possa fare, dato che la caratterizzazione fornitagli dalla sua autrice (sempre che lo si consideri un personaggio letterario e non una figurina di carta ritagliata da un libro dell'asilo) non lo rende, a conti ben fatti, il più desiderabile fra gli uomini. Sì, è bello e ricco come i divi di Hollywood con i cui poster avevate tappezzato la cameretta a dodici anni, ma è un po' rompiscatole. Un po' ossessivo. Un po', per usare le sue stesse parole, "maniaco del controllo" (sì, esatto, come vostra madre quando si assicurava che il sabato sera non andaste a ubriacarvi). Tuttavia, è proprio questo a renderlo estremamente attraente agli occhi delle sue adoratrici: Grey è uno stereotipo vivente, ma è l'incarnato del maschio alfa, l'epitome della virilità, il macho degli Harmony degli anni 80 che ha scambiato i suoi sproporzionati bicipiti guizzanti da copertina per un posto da amministratore delegato in giacca e cravatta e si è fatto volitivo uomo del Duemila. Grey domina le sue donne nella maniera meno metaforica possibile e tutte le donne gli sbavano dietro. Donzelle masochiste, dunque? Infamanti ritrattatrici delle conquiste femministe del Novecento? Vergogna del genere femminile? Niente di tutto ciò, credo. Per quanto trovi inutile sprecare anche solo una singola goccia della mia bile per odiare visceralmente il Ken de noantri, non sono affatto convinta che le fans del belloccio metallizzato di Seattle rinuncerebbero volentieri al diritto di voto o all'usufrutto di contraccettivi o, ancora, abbiano qualcosa a che spartire con le loro antenate: se a dar loro ordini nella stessa maniera fosse stato il padre o il datore di lavoro, giù di lagne su Tumblr; questo, però, è l'infido terreno di Afrodite e del di lei divin fagotto pannoluto Eros, l'Amore, sì, ma l'amore erotico, irrazionale, non l'Agape. È il campo dell'istinto che porta la fimmina ad aspirare al leone con la criniera più figa, e anche se razionalità dice che il compagno migliore sia quello con cui si condividono i lavori di casa e la cura dei figli eccetera eccetera... quando valuti un maschio come papabile compagno di vita, a primo acchito usi il sesto senso. E se il sesto senso continua a spingerti verso di lui a dispetto di tutto (il "tutto" spazia da "ha un carattere di merda" a "amò dopo la laurea sto sotto i ponti"), purtroppo - o per fortuna, dipende dai casi - non c'è storia. L'erotismo è una passione, è la passione, è quanto di più inafferrabile e inspiegabile possa esistere - non per niente gli epicurei consigliavano di starne alla larga - e suo fedele famiglio è l'istinto, che a quanto sembrerebbe nelle donne conduce davvero ad un desiderio di sottomissione. Wilde era in un certo senso nel giusto, dunque, ma ricordiamoci che parlava solo di una delle eliche del nostro DNA, la più primitiva: la ragione la sovrasta e ha il potere di dominarla ma non di annullarla. Come già detto, è mia opinione che nella maggior parte dei casi si preferisca inconsciamente la via della diplomazia e che dunque la "sottomissione" si traduca in termini pratici in una versione decisamente più light di se stessa, come quella enunciata dal commento analizzato all'inizio. La vis del titolo dell'articolo, in linea di massima, non è cosa positiva, ma ad onor del vero devo dire che essa è una delle parola chiave di un concetto estrapolato dall'Ars amandi di Ovidio, classe 43 a.C., che per la cronaca non è il vademecum delle verginelle ma è più simile all'almanacco delle immoralità (in amore, come in guerra, tutto è lecito) e, uhm, diciamo che è da audaci, o presuntuosi, farne uso: se una donna ti dice no, nella maggior parte dei casi vuol dire no, ma esiste anche l'opzione "mi faccio desiderare" se la corte risulta gradita ma la donna non vuol dar l'idea di cedere subito (ai tempi non lo si faceva perché era considerato sconveniente per una donna avere parte attiva nel gioco amoroso, sebbene il caro Naso lasci intendere non troppo velatamente che alla fin fine non importa chi fa cosa purché si trombi, ora invece è più un vezzo o una prova d'amore livello base). La soluzione? È sempre una sola: in medio stat virtus. Se vuoi ribattere al primo "no" della donzella fallo pure, se vuoi ribattere al suo dodicesimo "no" comincia a procurarti una panoplia. Sai com'è, per l'autodifesa.

sabato 6 dicembre 2014

Eum interfecerunt: dixit: ignosco

Humanum amare est, humanum autem ignoscere.                                                                (Mercator, Plauto)
Mi è recentemente riaffiorata alla memoria, complice anche un progetto organizzato dal mio insegnante di storia, la triste, disumana vicenda di Elisa Springer, che risulta priva di originalità e spessore solo se messa a confronto con le centinaia di storie simili vissute da chi ha condiviso il suo atroce destino: quello di deportata in un campo di sterminio della Seconda Guerra Mondiale. Elisa però ha avuto anche la smisurata fortuna di riuscire a sopravvivere, anche se, una volta conclusasi questa devastante parabola emotiva, ha preferito trincerarsi nel silenzio e lasciar scorrere la vita come l'aveva conosciuta prima dell'orrore, nascondendo il numero tatuato sul polso con un cerotto e stabilendosi in quella che attualmente è la mia città. Solo quando il suo unico figlio ha compiuto ormai i vent'anni e le ha chiesto spiegazioni ella ha trovato il coraggio di narrare l'indescrivibile prima a lui e poi al grande pubblico, tenendo la sua prima conferenza proprio nella mia scuola media; scuola media che oggi, per via di un progetto di giornalismo a cui ha partecipato mio fratello, ha riesumato alcuni dei suoi reperti digitali, fra cui il video dell'intervista ad Elisa. L'Elisa del video è una donna anziana che parrebbe non aver nulla di dissimile dalle vecchiette che calcano quotidianamente le strade del paese, ma i segreti, si sa, non lasciano tracce, si celano insidiosi e meditabondi nei solchi del viso, salvo poi riemergere dalle proprie ceneri compresse ed espandersi nell'aria come gas velenosi: la donna trova la forza di tornare ad Auschwitz nel 1995 e, come comprensibilmente previsto, viene annichilita dal vuoto che la circonda, lì dove prima c'era l'asfissiante tanfo del male fatto persona, della carne umana putrescente delle vittime e soprattutto dello spirito in decomposizione degli aguzzini. La Springer, tuttavia, nel video mostrato a scuola e girato non molti anni prima che io venissi a studiare lì, all'insolente, scontata e indiscreta domanda "ha perdonato?" risponde che lei ha perdonato per quanto era possibile, che il resto, la parte importante, era giurisdizione divina: insomma, non è a lei che devono rendere conto i carnefici, dice, ma alla Giustizia superiore. Elisa si ritiene miracolata per essere sfuggita più volte alla Morte, dopo essere stata avvicinata da lei suadente ed essere stata accarezzata dalle sue lunghe unghie aguzze, ma quello che mi ha interessato più di tutto è stato proprio il fugace accenno al perdono. Perdono. Per-donare. In latino la particella per ha valore intensivo o indicante compimento. Donare tutto con tutto se stesso, o qualcosa del genere. Ma perdonare è già atto nobile in contesti di vita quotidiana, e quindi come si può perdonare chi ha compiuto bestialità di tal fatta? Sarebbe già miracoloso non provare verso di loro un odio intransigente, già magnanimo ignorarli con stoica forza d'animo, ma perdonarli, oh signori, chi ce la fa? E poi non si rischierebbe di offendere perfino la memoria delle vittime accordando tale beneficio agli sterminatori, che umane fattezze avevano meramente usurpato? La risposta, messeri e madame, m'è semplicemente ignota. La Springer in quel campo maledetto ha riscoperto Dio, altri come lei, fra cui Primo Levi, l'hanno smarrito una volta per tutte, e io ammetto hic et nunc che non so se la mia fede sarebbe riuscita a rimanere salda anche in quel dove e in quel quando. Non lo so. Non so se in un futuro più o meno lontano sarei mai riuscita a spendere una parola non dico buona, ma almeno non d'accusa, per... coloro che stavano dall'altra parte. Come... come si fa? Errare è umano, perdonare è divino, diceva Pope. Ma se perdonare è divino... lasciamo a Lui quest'incombenza molesta, no? No, non possiamo. Perché siamo tutti chiamati ad essere santi ed eroi, e siamo chiamati ad esserlo perché possiamo esserlo: non intendo solo dalla religione, ma dalla società in generale, siamo chiamati a fare gli dei pur non essendolo di natura ma in nome della nostra metamorfica facoltà di elevarci al loro livello o di degradarci a quello delle bestie. Perdonare davvero chi ha compiuto azioni di tale portata e non semplicemente scegliere di chiamare con tale nome il proprio ormai scemato rancore verso gli antichi nemici è tuttavia così difficile e così raro da trascendere il terreno e sfiorare il limite del sovrumano, ecco perché "divino". Plauto, però, la pensa in maniera opposta: perdonare è ancora più umano. E ha ragione anche lui, perché la vera e pura umanità si raggiunge quando avviene il distacco maggiore dalla propria elica ferina di DNA e ci si afferma parallelamente nell'esercizio delle virtù universali che di ultraterreno hanno tutto.
Il titolo dell'articolo è la traduzione latina di un verso della poesia X Agosto di Giovanni Pascoli, che in italiano recita "l'uccisero: disse: perdono": il riferimento è chiaramente quello all'assassinio del padre dell'autore, morto in circostanze misteriose trent'anni prima della stesura di questo famosissimo componimento. Non so se interpretare la parola "perdono" come una richiesta di assoluzione rivolta in extremis all'alto dei cieli o come l'ultimo, supremo atto di bontà dell'uomo verso il suo assassino, il cui nome è a noi rimasto ignoto, però mi piace pensare che il poeta abbia volutamente lasciato alla libera interpretazione del lettore questo piccolo enigma. Se si intende dunque tal parola come il più grande dei condoni, si ritorna comunque al punto di partenza: come si fa a perdonare chi ti ha fatto non solo del male, ma chi ha commesso nei tuoi confronti un torto di dimensioni incalcolabili? Dall'alto della mia presunzione, io che sono sicura nella mia tiepida casa, io che trovo tornando a sera cibo caldo e visi amici, dico che non so come, ma è possibile. Lo so perché sono forte dei miei processi d'astrazione mentale, ma anche e soprattutto perché è riuscito a farlo chi ha ricevuto quest'offesa immane, senza la cui testimonianza provata le mie inconsistenti teorie si dissolverebbero come fumo nel vento. Forse, chissà, ci si potrebbe appellare all'insanità mentale dei carnefici, perdonarli perché erano inconsci di quello che compivano, ma ahimé quant'è doloroso e incredibile scoprir che tali malefatte erano parto razionale di menti lucidamente abiette!
Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno.
Non sanno quello che fanno.
Quello che fanno.
Anche i soldati vicino alla croce si divertivano, e in ogni caso padroni di sé lo erano eccome. Sapevano di causare sofferenza: certo, tutto è relativo, loro vivevano nel loro tempo e avevano delle concezioni morali di base assolutamente diverse da quelle di un mio contemporaneo, ma anche i nazisti vivevano, più che nel loro tempo, nelle loro idee malsane, e anche per loro c'è dunque l'attenuante della relatività. Allora cosa si intende con quel "nesciunt quid faciant"? Possibile che non riuscissero proprio a immaginare nemmeno una minima parte del dolore causato? No, lo sapevano, e pure bene, e ne godevano perversamente e innaturalmente; forse, però, non sapevano il valore assoluto del peso dell'aria spostata dai movimenti delle loro mani barbare. Insomma, non avevano la minima idea di quanto le loro azioni rispondessero ad un criterio oggettivo: il criterio scientifico e morale dell'uguaglianza fra tutti gli uomini e della conseguente equivalenza delle loro pene. Se vogliamo buttarla sul piano mistico, ignoravano la piccolezza dei loro mantra da strapazzo di fronte all'infinita immensità del Creatore. O forse, ancora, volevano deliberatamente ignorarla, illudendosi di aver spodestato quest'ultimo almeno sul trono della terra calcabile. Oh, somma stoltezza, insolente perfino nei riguardi dei rigorosi e improvvisati codici di guerra, qui oltraggiosamente ed insopportabilmente violati! Loro sapevano quello che facevano in relazione a se stessi, ma non in relazione a ciò che c'è di più grande ed è insindacabile per palese assioma. E l'assioma da cosa è stabilito? Beh, prendete la parabola del servo senza pietà. Poi prendete la seguente affermazione: "Noi siamo tutti impastati di debolezze ed errori: perdonarci reciprocamente le nostre balordaggini è la prima legge di natura". Infine sappiate che la prima è tratta dal Vangelo, la seconda dagli scritti dell'illuminista Voltaire. Per quanto, in casi rari come quello di cui ho parlato sopra, la gravità del peccato di uno verso un altro renda possibile riconoscere un carnefice e una vittima, nessuno su questa terra può assurgere al ruolo di bene o male assoluto; siamo tutti potenziali vittime e carnefici verso qualunque fratello, e l'essere vittima di uno non mi impedisce di essere carnefice di un altro. E per bilanciare nuovamente l'ordine universale di fondo, ad un grande peccato deve necessariamente corrispondere un grande perdono, anche se incommensurabilmente sofferto. Al vuoto piace la materia compatta.