sabato 21 febbraio 2015

Audacter calumniare, semper aliquid haeret

[avrei dovuto scriverlo prima ma grazie al cielo ho aspettato perché una conferenza sul terrorismo e la libertà di parola - a cui sono stata costretta a partecipare, ma vabbè - mi ha offerto nuovi spunti di riflessione. Tiè.]

Sappiamo tutti dell'attentato di Parigi.
Sappiamo tutti cosa c'era dietro, cosa c'è stato e cosa ci sarà.
Sappiamo tutti che i populisti, i complottisti (pentastellati o meno) ed altri esseri indegni che rispondono al nome di leghisti ci hanno marciato sopra come i fascisti a Roma nel '22 per giustificare, come da agenda, il loro razzismo (che mi sarebbe piaciuto definire "latente", ma ormai non si sforzano nemmeno di nasconderlo).
E chi trascorre su Internet almeno un briciolo del suo tempo sa che è stato lanciato l'hashtag #JesuisCharlie per mostrare sostegno alle vittime dell'attentato. Chi invece passa sulla rete qualcosa di più di un briciolo di tempo avrà notato anche l'indignazione scatenata negli utenti più sensibili dall'uso smodato di suddetto hashtag, diventato in un tempo sospettabilmente breve un fenomeno virale, spesso accompagnato dall'immagine di matite, spezzate o no, a simboleggiare l'attività svolta dalle vittime. Nulla di nuovo sul fronte occidentale, si dirà: ricordare chi ha perso la vita in un evento di tale portata è la prassi per tutti, darsi al più becero sciacallaggio è prerogativa di pochi (spero), ma, più in generale, esprimere una propria opinione riguardo l'accaduto è cosa più che normale e in un certo senso perfino lodevole (tremo all'idea di un mondo in cui eventi come questo potrebbero non far notizia, per esempio). Il problema è che non si è capito cosa volesse significare l'hashtag: perché sì, ok, se vuol dire supporto ai poveretti che hanno perso la vita più o meno tutti siamo d'accordo (e suppongo che quelli che non sono d'accordo marciscano in galera già da parecchio tempo o stiano per andarci), se invece significa difendere la libertà di Charlie Hebdo di pubblicare quel che pubblicava è un'altra storia. E qui, manco a dirlo, si sfora in campi di cui è estremamente difficile delimitare i confini: in questo caso, essi sono religione, satira e libertà. Partiamo dal primo.
Fare satira sulla religione per chi si definisce ateo è come per gli onnivori fare satira sui vegani: troppo facile. È troppo facile e intellettualmente disonesto prendersi gioco di ideali che non sono i propri: è lecito contrattaccarli e smontarne l'impalcatura etica, ma in un dibattito filosofico e con argomentazioni di una dialettica degna di questo nome, non con qualche parola volgare sparata senza scopo e senza meta come i botti a Capodanno nei quartieri malfamati, perché altrimenti scompare la differenza fra il "giornalista satirico" e il bullo delle superiori che ti scriveva le offese sul banco. Io, per esempio, non sono vegana, e l'immagine di un maialino arrosto con la mela in bocca non mi suscita sentimenti di repulsione, tuttavia riconosco che ci sono persone che potrebbero rimanere ferite da ciò e perciò evito di pubblicare sulle loro bacheche immagini di questo tipo. Inoltre, per quel che mi riguarda, che ci crediate o meno, io provo una stima profonda per la causa vegetariana (forse un po' meno per quella vegana, a mio parere un po' troppo esagerata) e ad urtarmi non sono coloro che ritengono immorale avere animali morti e cotti nel piatto, sono coloro che pretendono di spacciare le proprie idee come verità aventi fondamento scientifico. Insomma, dire "sono vegetariano perché mangiare animali è secondo me una cosa eticamente sbagliata" è perfetto, dire "sono vegetariano perché la carne fa male e il pesce pure perché contengono composti tossici come la cadaverina, la putresceina e la supercazzola" è errato perché si affermano cose totalmente infondate dal punto di vista scientifico. Io combatto chi fa disinformazione e getta fango sui ricercatori e sulla scienza in generale, non le convinzioni etiche del singolo, e credo che moltissimi dei problemi dell'umanità siano riconducibili a quest'incapacità dell'individuo di distinguere tra idea e seguaci dell'idea, teoria che tra l'altro spiegherebbe perfettamente perché questo mondo vada in malora nonostante la storia abbia partorito menti eccelse che hanno a loro volta sfornato pensieri innovativi e geniali che, pur essendo conosciuti e amati, non vengono applicati come Madama Ratio imporrebbe. Sullo stesso tronco si innesta la differenza fra la religione e i seguaci della religione e successivamente fra la religione e il potere. Che vi piaccia oppure no, religione e potere sono due cose diverse, anche se c'è chi amministra contemporaneamente l'una e l'altra: è dunque lecitissimo fare satira sul papa o chiunque altro quando lo si presenta come uomo di potere, ma non come uomo di fede. Il potere è sempre stato il bersaglio della satira, non le idee, non le razze, non le religioni, non i sessi né qualsiasi altra cosa vi passi per la mente. Le pouvoir, la politique. Come si fa allora a scindere religione e potere, che spesso appaiono legate a doppio filo? Il metodo è meno difficile di quanto sembri.
È datata 20 settembre 1870 la Breccia di Porta Pia, l'evento cardine che mise fine al secolare dominio del papa sulla città di Roma e sui territori circostanti, che all'epoca dei fatti erano tuttavia stati quasi tutti già conquistati. Ebbene, come già ho scritto tempo fa, in quei secoli di potere temporale i cittadini dell'Urbe, fieri eredi dello spirito latino, non erano rimasti certo con le mani in mano a farsi tiranneggiare dalla Curia e in certi periodi avevano anche rischiato la vita per attaccare alle cosiddette statue parlanti di Roma i fogliettini contenenti le loro audaci invettive contro il potere: sissignori, era satira a tutti gli effetti. Eppure nessuno potrebbe certo affermare che i romani dell'epoca non fossero credenti, anzi, lo erano certamente più di adesso, ma sapevano ben distinguere i precetti della religione da quelli spacciati per tali o da quelli dichiaratamente temporali. Il segreto è porsi la seguente domanda: cosa avrebbe fatto un romano del Cinquecento? Vedete che magari vi vengono pure nuove idee.
Affermare di essere Charlie a tutti gli effetti provoca infine una reazione a catena devastante: se prendersela per un'offesa o una battuta di qualunque natura implica essere bigotti, allora via gli articoli 368, 594 e 595 del codice penale italiano che regolamentano rispettivamente la calunnia, l'ingiuria e la diffamazione, perché semplicemente tali azioni non esistono, esistono solo persone che non sanno ridere di se stesse! Perché mai deve essere processato quel mononeurone deambulante di Calderoli che tempo fa diede dell'orango alla Kyenge? Ve lo dico io: perché non l'ha offesa sul piano politico. Non ha criticato un suo disegno di legge, non ha fatto opposizione ad una sua proposta, non le ha dato della "politica inetta e incapace". Le ha dato dell'orango semplicemente perché era nera e, ultimi sviluppi alla mano, è stato pure assolto (ora voglio che facciate un "ohhh" di disapprovazione fingendo di stupirvi). Riflettendoci meglio, credo che i più arguti siano anche perfettamente consapevoli di questa distinzione fra le idee e i sostenitori delle idee, fra la religione e il potere, ma sfruttino volutamente l'incertezza dei molti sull'argomento per "propagandare", per così dire, le proprie idee. Insomma, dirà qualcuno, va bene che certa roba è pesante, ma è stata scritta su un giornale di satira, quindi non è stato fatto con intenti malvagi! Beh, ragazzi, novella saeculi: se io scrivo "la fessa ti mammata" su Cosmopolitan non diventa un consiglio di rimorchio solo perché l'ho scritto su Cosmopolitan! C'è modo e modo di far le cose e, sempre che vi piaccia oppure no, la libertà assoluta non esiste e anche se esistesse non ci sarebbe concessa - e meno male, dato che pure con quella relativa riusciamo puntualmente a metterci nei guai -. I giornalisti di Charlie Hebdo non meritavano certo la morte: nessuno merita la morte (a mio modesto parere nemmeno i carcerati colpevoli dei peggiori reati mai concepiti da umano intelletto, se intelletto si può definire quello di chi compie crimini atroci, ma questa è ovviamente un'altra storia), tuttavia i vignettisti sapevano a cosa andavano incontro, dato che le minacce erano arrivate frequenti e numerose e se non ricordo male c'era stato anche un altro attentato anni fa alla loro sede parigina. Hanno deciso di continuare a pubblicare senza apportare modifiche al loro stile e in un certo senso io ammiro questa caparbia perseveranza, ma quand'è che questa finisce per lasciare il posto all'ostinazione? Charlie Hebdo è diventato un simbolo, qualcuno l'ha eletto a martire del laicismo e ci scommetto la mia collezione di gatti di peluche che quel giorno, quando a Parigi hanno sfilato serrati i capi di Stato scortati da una folla immensa, in pochissimi abbiano veramente riflettuto autonomamente sulla vicenda allora appena trascorsa. La visione del terrorista come del male incarnato (beh, insomma, è in effetti piuttosto difficile che qualcuno offra un'interpretazione discordante su questo punto - e meno male, direi) ha offuscato automaticamente tutte le luci e le ombre dell'Hebdo, che quel giorno d'inverno a Parigi ha stramazzato a terra in un lago di sangue ma che nei suoi precedenti anni di vita non si è risparmiato nemmeno una delle frecce della sua faretra e, quel che è peggio, chi ha provato ad analizzare lucidamente la vicenda senza farsi trasportare dai sentimentalismi (che sono sì perfettamente naturali come reazione immediata ma a lungo andare corrompono l'analisi della realtà effettuale) è stato accusato di scaricare sulle vittime la colpa di questo barbaro massacro, nell'eterno, istintivo dualismo bene-male che si crea nella nostra mente sin dall'alba dei tempi e rappresenta la nostra primitiva, umana condanna.
Sì, i terroristi hanno tutte le colpe. L'Hebdo qualcuna in meno.