Da febbricitante appassionata della storia, della mitologia e ancor più della natura umana, sono più che mai certa solo della risposta all'ultima domanda: la seconda. La gente desidera essere ricordata da quando ha capito di essere fatta di carne e sangue ma si è illusa di valere più della polvere: già Achille, uno dei più celebri personaggi di tutta la grecità, fu chiamato a scegliere fra una vita lunga e serena, addolcita dalla presenza e dall'amore di una moglie e dei figli, e una vita breve, che tuttavia gli avrebbe assicurato la fama dei posteri. E optò per quest'ultima. Una decisione che il lato più selvaggio e romantico del mio spirito quasi continua ad ammirare, ma che non avrebbe mai preso: uno solo è il mio transito su questa terra, che almeno mi sia onesto e piacevole! Certo, Achille è il capo dei capi della società della vergogna che regolava le relazioni interpersonali in epoca omerica, si dirà: è un'altra mentalità, tutta un'altra storia. Eppure dico che anche nella società di oggi il suo dilemma stuzzicherebbe più di qualche animo e, se solo fosse possibile, non sarebbero in pochi gli emuli del Pelide.
Del resto, quando Medea, titanica protagonista dell'omonima tragedia euripidea, esce dalla sua ottica di ex principessa barbara ed entra in quella dell'uomo medio della Grecia classica, il quale era solito considerare i figli quasi come proprie appendici, eredità e specchi, prende la tremenda risoluzione di far fuori la sua stessa prole pur di polverizzare il cuore di Giasone. E ci riesce. Colpisce nel segno: Si dirà: "eh ma lui l'aveva tradita, le aveva fatto del male, oltre alla fredda premeditazione c'è dietro anche una rabbia tartarica". Certo che c'è, ovvio che c'è. E ci mancherebbe altro. Giasone, del resto, ama(va) i suoi figli... ma se li avesse amati in quanto figli e basta, avrebbe capito l'importanza di tenere unita la famiglia e di assicurar loro l'amore della madre a dispetto dell'opinione dei corinzi, che la ritenevano una strega. Giasone, invece, li amava in quanto sangue del suo sangue, perpetuazione della sua carne nel mondo, e li avrebbe preferiti principini infelici piuttosto che cittadini sereni.
Tra storia e leggenda, mito e realtà si colloca infine la figura di Alessandro Magno, del quale Plutarco, nelle Vite parallele, racconta fra gli altri questo aneddoto:
Ogni volta che sentiva annunciare che Filippo aveva conquistato una città famosa o aveva vinto una celebre battaglia, non dimostrava molta gioia e ai coetanei diceva: "Amici, mio padre si prenderà tutto e non mi lascerà la possibilità di compiere con voi qualche grossa, luminosa impresa". Egli infatti non aspirava a piaceri o ricchezze, ma a virtù e fama, e pensava che quanto più riceveva dal padre, tanto meno avrebbe guadagnato da solo.
Alessandro, uno a cui il destino aveva concesso tutto quanto avesse mai desiderato, avrebbe anche potuto accontentarsi, per così dire, delle vittorie paterne: era già un principe e presto sarebbe diventato re, pronto a godere a pieno titolo dei piaceri del denaro, del buon cibo e della lussuria. Avrebbe avuto una vita che avrebbe fatto invidia a chiunque, fuori e dentro il suo palazzo. Ma Alessandro voleva la fama. Voleva la gloria tutta per sé. Ed era disposto ad averla a qualsiasi prezzo. Ci è riuscito: la Storia gli ha garantito l'immortalità... beh, almeno per ora, considerando quanto sono variabili i rovesci della Fortuna e quanto poco si potrebbe sapere di lui anche solo fra cento anni, se per caso succedesse qualcosa che arrivasse a cancellarne la memoria dalla faccia della Terra, come è già accaduto a molta altra gente prima e dopo di lui; il che ci porta direttamente alla questione se esista davvero un "lato giusto" della storia, e per me è no. La storia è semplicemente il manto dei vincitori: certo, i fatti accadono a prescindere da essi, ma sono loro ad interpretarli come avvocati in un processo senza giudici. Non esistono progressi morali parallelamente riconducibili a quelli temporali: un uomo del 2016 non è migliore rispetto ad uno del 45, ha semplicemente diversi codici etici, e perfino quelle azioni che noi interpretiamo quasi universalmente come salvifiche o barbariche sono interamente frutto del contesto culturale in cui siamo immersi (per ulteriori approfondimenti sul mio pensiero in proposito, si può sempre dare un'occhiata all'articolo precedente a questo). Veniamo dunque al cuore, al nucleo, al nocciolo della questione, ovverosia il motivo per cui la gente desidera essere ricordata anche dopo il proprio trapasso. Il guadagno effettivo, a primo acchito, sembra non esistere, giacché in nessun apparato religioso di mia conoscenza esiste un sistema di premi e punizioni basato sulla fama accumulata in vita o successivamente perpetuata e, nel caso dopo la morte non ci fosse alcunché, risulta evidente che gli incensamenti delle tombe risulterebbero, se possibile, ancora più inutili. Ma quindi, che diamine ci succede? Perché, se la fama, il ricordo, la memoria, non ci allungano la vita né ci migliorano quello che c'è dopo, vogliamo vivere in eterno? Ammetto l'imperdonabile mancanza di non conoscere le affermazioni della psicologia a tal proposito, ma spero nel perdono del lettore dato che qui non siamo su Nature e il tono sta pure diventando troppo serio per i miei standard abituali. Dal punto di vista obiettivo, credo che la cosa si prefiguri come una specie di appendice dell'istinto di autoconservazione e un primitivo tentativo di esorcizzazione del trapasso: l'immortalità vera e propria, purtroppo o per fortuna, non ci è concessa, quindi ci tocca ripiegare sugli altri e affidare a loro il ricordo di noi stessi. Mi pare inoltre che esistano due principali canali in cui far confluire i vezzi d'eternità della gente: il primo è quelli degli artisti, dei condottieri, dei politici e di chi davvero vuole guadagnarsi un posto nella storia oggettiva, convinto (a torto o a ragione) di aver operato per il bene dell'umanità o comunque di aver influito in maniera più che determinante sulle sue sorti; il secondo è quello delle persone comuni, che, consapevoli di aver semplicemente rivestito il ruolo di una misera comparsa in quel gran teatro di marionette che è il nostro mondo, aspirano più modestamente a perpetuarsi attraverso la procreazione, in modo da lasciare attraverso la carne ciò che non hanno potuto lasciare attraverso la mente. Il desiderio di immortalità, per quanto concretamente vano... è davvero una delle cose più umane che possano esistere. O forse è tale proprio perché è concretamente vano: tutte le cose più belle di questo mondo sono inutili! L'arte è l'inno alla vanità per eccellenza, eppure chi potrebbe negare che sia l'apoteosi dell'umanità? E così il desiderio d'immortalità, questo stupendo, inutile e tantalicamente prossimo slancio verso l'infinito... questo meraviglioso e disperato tentativo di vincere l'assoluto negativo, unico denominatore comune a tutti i viventi... sì, ci rende davvero umani. Se è vero che abbiamo preso coscienza della nostra umanità quando ci siamo resi conto che potevamo morire, se è vero che esiste questo spartiacque dimenticato dalla storia di cui non sembriamo mai esserci resi conto a tutti gli effetti, allora come possiamo rinunciare a questa straziante tensione verso l'ignoto, motore dello spirito e della scienza, dolce balsamo e amara condanna di tutta l'umanità?