sabato 6 dicembre 2014

Eum interfecerunt: dixit: ignosco

Humanum amare est, humanum autem ignoscere.                                                                (Mercator, Plauto)
Mi è recentemente riaffiorata alla memoria, complice anche un progetto organizzato dal mio insegnante di storia, la triste, disumana vicenda di Elisa Springer, che risulta priva di originalità e spessore solo se messa a confronto con le centinaia di storie simili vissute da chi ha condiviso il suo atroce destino: quello di deportata in un campo di sterminio della Seconda Guerra Mondiale. Elisa però ha avuto anche la smisurata fortuna di riuscire a sopravvivere, anche se, una volta conclusasi questa devastante parabola emotiva, ha preferito trincerarsi nel silenzio e lasciar scorrere la vita come l'aveva conosciuta prima dell'orrore, nascondendo il numero tatuato sul polso con un cerotto e stabilendosi in quella che attualmente è la mia città. Solo quando il suo unico figlio ha compiuto ormai i vent'anni e le ha chiesto spiegazioni ella ha trovato il coraggio di narrare l'indescrivibile prima a lui e poi al grande pubblico, tenendo la sua prima conferenza proprio nella mia scuola media; scuola media che oggi, per via di un progetto di giornalismo a cui ha partecipato mio fratello, ha riesumato alcuni dei suoi reperti digitali, fra cui il video dell'intervista ad Elisa. L'Elisa del video è una donna anziana che parrebbe non aver nulla di dissimile dalle vecchiette che calcano quotidianamente le strade del paese, ma i segreti, si sa, non lasciano tracce, si celano insidiosi e meditabondi nei solchi del viso, salvo poi riemergere dalle proprie ceneri compresse ed espandersi nell'aria come gas velenosi: la donna trova la forza di tornare ad Auschwitz nel 1995 e, come comprensibilmente previsto, viene annichilita dal vuoto che la circonda, lì dove prima c'era l'asfissiante tanfo del male fatto persona, della carne umana putrescente delle vittime e soprattutto dello spirito in decomposizione degli aguzzini. La Springer, tuttavia, nel video mostrato a scuola e girato non molti anni prima che io venissi a studiare lì, all'insolente, scontata e indiscreta domanda "ha perdonato?" risponde che lei ha perdonato per quanto era possibile, che il resto, la parte importante, era giurisdizione divina: insomma, non è a lei che devono rendere conto i carnefici, dice, ma alla Giustizia superiore. Elisa si ritiene miracolata per essere sfuggita più volte alla Morte, dopo essere stata avvicinata da lei suadente ed essere stata accarezzata dalle sue lunghe unghie aguzze, ma quello che mi ha interessato più di tutto è stato proprio il fugace accenno al perdono. Perdono. Per-donare. In latino la particella per ha valore intensivo o indicante compimento. Donare tutto con tutto se stesso, o qualcosa del genere. Ma perdonare è già atto nobile in contesti di vita quotidiana, e quindi come si può perdonare chi ha compiuto bestialità di tal fatta? Sarebbe già miracoloso non provare verso di loro un odio intransigente, già magnanimo ignorarli con stoica forza d'animo, ma perdonarli, oh signori, chi ce la fa? E poi non si rischierebbe di offendere perfino la memoria delle vittime accordando tale beneficio agli sterminatori, che umane fattezze avevano meramente usurpato? La risposta, messeri e madame, m'è semplicemente ignota. La Springer in quel campo maledetto ha riscoperto Dio, altri come lei, fra cui Primo Levi, l'hanno smarrito una volta per tutte, e io ammetto hic et nunc che non so se la mia fede sarebbe riuscita a rimanere salda anche in quel dove e in quel quando. Non lo so. Non so se in un futuro più o meno lontano sarei mai riuscita a spendere una parola non dico buona, ma almeno non d'accusa, per... coloro che stavano dall'altra parte. Come... come si fa? Errare è umano, perdonare è divino, diceva Pope. Ma se perdonare è divino... lasciamo a Lui quest'incombenza molesta, no? No, non possiamo. Perché siamo tutti chiamati ad essere santi ed eroi, e siamo chiamati ad esserlo perché possiamo esserlo: non intendo solo dalla religione, ma dalla società in generale, siamo chiamati a fare gli dei pur non essendolo di natura ma in nome della nostra metamorfica facoltà di elevarci al loro livello o di degradarci a quello delle bestie. Perdonare davvero chi ha compiuto azioni di tale portata e non semplicemente scegliere di chiamare con tale nome il proprio ormai scemato rancore verso gli antichi nemici è tuttavia così difficile e così raro da trascendere il terreno e sfiorare il limite del sovrumano, ecco perché "divino". Plauto, però, la pensa in maniera opposta: perdonare è ancora più umano. E ha ragione anche lui, perché la vera e pura umanità si raggiunge quando avviene il distacco maggiore dalla propria elica ferina di DNA e ci si afferma parallelamente nell'esercizio delle virtù universali che di ultraterreno hanno tutto.
Il titolo dell'articolo è la traduzione latina di un verso della poesia X Agosto di Giovanni Pascoli, che in italiano recita "l'uccisero: disse: perdono": il riferimento è chiaramente quello all'assassinio del padre dell'autore, morto in circostanze misteriose trent'anni prima della stesura di questo famosissimo componimento. Non so se interpretare la parola "perdono" come una richiesta di assoluzione rivolta in extremis all'alto dei cieli o come l'ultimo, supremo atto di bontà dell'uomo verso il suo assassino, il cui nome è a noi rimasto ignoto, però mi piace pensare che il poeta abbia volutamente lasciato alla libera interpretazione del lettore questo piccolo enigma. Se si intende dunque tal parola come il più grande dei condoni, si ritorna comunque al punto di partenza: come si fa a perdonare chi ti ha fatto non solo del male, ma chi ha commesso nei tuoi confronti un torto di dimensioni incalcolabili? Dall'alto della mia presunzione, io che sono sicura nella mia tiepida casa, io che trovo tornando a sera cibo caldo e visi amici, dico che non so come, ma è possibile. Lo so perché sono forte dei miei processi d'astrazione mentale, ma anche e soprattutto perché è riuscito a farlo chi ha ricevuto quest'offesa immane, senza la cui testimonianza provata le mie inconsistenti teorie si dissolverebbero come fumo nel vento. Forse, chissà, ci si potrebbe appellare all'insanità mentale dei carnefici, perdonarli perché erano inconsci di quello che compivano, ma ahimé quant'è doloroso e incredibile scoprir che tali malefatte erano parto razionale di menti lucidamente abiette!
Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno.
Non sanno quello che fanno.
Quello che fanno.
Anche i soldati vicino alla croce si divertivano, e in ogni caso padroni di sé lo erano eccome. Sapevano di causare sofferenza: certo, tutto è relativo, loro vivevano nel loro tempo e avevano delle concezioni morali di base assolutamente diverse da quelle di un mio contemporaneo, ma anche i nazisti vivevano, più che nel loro tempo, nelle loro idee malsane, e anche per loro c'è dunque l'attenuante della relatività. Allora cosa si intende con quel "nesciunt quid faciant"? Possibile che non riuscissero proprio a immaginare nemmeno una minima parte del dolore causato? No, lo sapevano, e pure bene, e ne godevano perversamente e innaturalmente; forse, però, non sapevano il valore assoluto del peso dell'aria spostata dai movimenti delle loro mani barbare. Insomma, non avevano la minima idea di quanto le loro azioni rispondessero ad un criterio oggettivo: il criterio scientifico e morale dell'uguaglianza fra tutti gli uomini e della conseguente equivalenza delle loro pene. Se vogliamo buttarla sul piano mistico, ignoravano la piccolezza dei loro mantra da strapazzo di fronte all'infinita immensità del Creatore. O forse, ancora, volevano deliberatamente ignorarla, illudendosi di aver spodestato quest'ultimo almeno sul trono della terra calcabile. Oh, somma stoltezza, insolente perfino nei riguardi dei rigorosi e improvvisati codici di guerra, qui oltraggiosamente ed insopportabilmente violati! Loro sapevano quello che facevano in relazione a se stessi, ma non in relazione a ciò che c'è di più grande ed è insindacabile per palese assioma. E l'assioma da cosa è stabilito? Beh, prendete la parabola del servo senza pietà. Poi prendete la seguente affermazione: "Noi siamo tutti impastati di debolezze ed errori: perdonarci reciprocamente le nostre balordaggini è la prima legge di natura". Infine sappiate che la prima è tratta dal Vangelo, la seconda dagli scritti dell'illuminista Voltaire. Per quanto, in casi rari come quello di cui ho parlato sopra, la gravità del peccato di uno verso un altro renda possibile riconoscere un carnefice e una vittima, nessuno su questa terra può assurgere al ruolo di bene o male assoluto; siamo tutti potenziali vittime e carnefici verso qualunque fratello, e l'essere vittima di uno non mi impedisce di essere carnefice di un altro. E per bilanciare nuovamente l'ordine universale di fondo, ad un grande peccato deve necessariamente corrispondere un grande perdono, anche se incommensurabilmente sofferto. Al vuoto piace la materia compatta.

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