domenica 21 febbraio 2016

De immortalitate

Seguendo il dibattito sulle unioni civili che sta recentemente infiammando l'Italia, mi è capitato di leggere (o forse ascoltare?) da qualche parte la frase "ho scelto di stare dal lato giusto della storia". Sia chiaro, questo non sarà un articolo sulle unioni civili, sulla politica, sull'etica o su qualunque altra cosa vi venga in mente e non sia venuta in mente a me: esse sono state citate solo come informazione aggiuntiva in merito alla frase che mi ha fatto venire voglia di rimettere mano alla tastiera dopo tutto questo tempo. Che cosa vuol dire "stare dal lato giusto della storia"? Chi è che fa la storia? Che cosa si guadagna se si sceglie di appartenere al fantomatico "lato giusto"? Perché la gente vuole essere ricordata e, soprattutto, è un vizio del nostro tempo, diretto discendente dell'ascesa della società di massa, oppure esisteva già da secoli e millenni?
Da febbricitante appassionata della storia, della mitologia e ancor più della natura umana, sono più che mai certa solo della risposta all'ultima domanda: la seconda. La gente desidera essere ricordata da quando ha capito di essere fatta di carne e sangue ma si è illusa di valere più della polvere: già Achille, uno dei più celebri personaggi di tutta la grecità, fu chiamato a scegliere fra una vita lunga e serena, addolcita dalla presenza e dall'amore di una moglie e dei figli, e una vita breve, che tuttavia gli avrebbe assicurato la fama dei posteri. E optò per quest'ultima. Una decisione che il lato più selvaggio e romantico del mio spirito quasi continua ad ammirare, ma che non avrebbe mai preso: uno solo è il mio transito su questa terra, che almeno mi sia onesto e piacevole! Certo, Achille è il capo dei capi della società della vergogna che regolava le relazioni interpersonali in epoca omerica, si dirà: è un'altra mentalità, tutta un'altra storia. Eppure dico che anche nella società di oggi il suo dilemma stuzzicherebbe più di qualche animo e, se solo fosse possibile, non sarebbero in pochi gli emuli del Pelide.
Del resto, quando Medea, titanica protagonista dell'omonima tragedia euripidea, esce dalla sua ottica di ex principessa barbara ed entra in quella dell'uomo medio della Grecia classica, il quale era solito considerare i figli quasi come proprie appendici, eredità e specchi, prende la tremenda risoluzione di far fuori la sua stessa prole pur di polverizzare il cuore di Giasone. E ci riesce. Colpisce nel segno: Si dirà: "eh ma lui l'aveva tradita, le aveva fatto del male, oltre alla fredda premeditazione c'è dietro anche una rabbia tartarica". Certo che c'è, ovvio che c'è. E ci mancherebbe altro. Giasone, del resto, ama(va) i suoi figli... ma se li avesse amati in quanto figli e basta, avrebbe capito l'importanza di tenere unita la famiglia e di assicurar loro l'amore della madre a dispetto dell'opinione dei corinzi, che la ritenevano una strega. Giasone, invece, li amava in quanto sangue del suo sangue, perpetuazione della sua carne nel mondo, e li avrebbe preferiti principini infelici piuttosto che cittadini sereni.
Tra storia e leggenda, mito e realtà si colloca infine la figura di Alessandro Magno, del quale Plutarco, nelle Vite parallele, racconta fra gli altri questo aneddoto:
Ogni volta che sentiva annunciare che Filippo aveva conquistato una città famosa o aveva vinto una celebre battaglia, non dimostrava molta gioia e ai coetanei diceva: "Amici, mio padre si prenderà tutto e non mi lascerà la possibilità di compiere con voi qualche grossa, luminosa impresa". Egli infatti non aspirava a piaceri o ricchezze, ma a virtù e fama, e pensava che quanto più riceveva dal padre, tanto meno avrebbe guadagnato da solo.
 Alessandro, uno a cui il destino aveva concesso tutto quanto avesse mai desiderato, avrebbe anche potuto accontentarsi, per così dire, delle vittorie paterne: era già un principe e presto sarebbe diventato re, pronto a godere a pieno titolo dei piaceri del denaro, del buon cibo e della lussuria. Avrebbe avuto una vita che avrebbe fatto invidia a chiunque, fuori e dentro il suo palazzo. Ma Alessandro voleva la fama. Voleva la gloria tutta per sé. Ed era disposto ad averla a qualsiasi prezzo. Ci è riuscito: la Storia gli ha garantito l'immortalità... beh, almeno per ora, considerando quanto sono variabili i rovesci della Fortuna e quanto poco si potrebbe sapere di lui anche solo fra cento anni, se per caso succedesse qualcosa che arrivasse a cancellarne la memoria dalla faccia della Terra, come è già accaduto a molta altra gente prima e dopo di lui; il che ci porta direttamente alla questione se esista davvero un "lato giusto" della storia, e per me è no. La storia è semplicemente il manto dei vincitori: certo, i fatti accadono a prescindere da essi, ma sono loro ad interpretarli come avvocati in un processo senza giudici. Non esistono progressi morali parallelamente riconducibili a quelli temporali: un uomo del 2016 non è migliore rispetto ad uno del 45, ha semplicemente diversi codici etici, e perfino quelle azioni che noi interpretiamo quasi universalmente come salvifiche o barbariche sono interamente frutto del contesto culturale in cui siamo immersi (per ulteriori approfondimenti sul mio pensiero in proposito, si può sempre dare un'occhiata all'articolo precedente a questo). Veniamo dunque al cuore, al nucleo, al nocciolo della questione, ovverosia il motivo per cui la gente desidera essere ricordata anche dopo il proprio trapasso. Il guadagno effettivo, a primo acchito, sembra non esistere, giacché in nessun apparato religioso di mia conoscenza esiste un sistema di premi e punizioni basato sulla fama accumulata in vita o successivamente perpetuata e, nel caso dopo la morte non ci fosse alcunché, risulta evidente che gli incensamenti delle tombe risulterebbero, se possibile, ancora più inutili. Ma quindi, che diamine ci succede? Perché, se la fama, il ricordo, la memoria, non ci allungano la vita né ci migliorano quello che c'è dopo, vogliamo vivere in eterno? Ammetto l'imperdonabile mancanza di non conoscere le affermazioni della psicologia a tal proposito, ma spero nel perdono del lettore dato che qui non siamo su Nature e il tono sta pure diventando troppo serio per i miei standard abituali. Dal punto di vista obiettivo, credo che la cosa si prefiguri come una specie di appendice dell'istinto di autoconservazione e un primitivo tentativo di esorcizzazione del trapasso: l'immortalità vera e propria, purtroppo o per fortuna, non ci è concessa, quindi ci tocca ripiegare sugli altri e affidare a loro il ricordo di noi stessi. Mi pare inoltre che esistano due principali canali in cui far confluire i vezzi d'eternità della gente: il primo è quelli degli artisti, dei condottieri, dei politici e di chi davvero vuole guadagnarsi un posto nella storia oggettiva, convinto (a torto o a ragione) di aver operato per il bene dell'umanità o comunque di aver influito in maniera più che determinante sulle sue sorti; il secondo è quello delle persone comuni, che, consapevoli di aver semplicemente rivestito il ruolo di una misera comparsa in quel gran teatro di marionette che è il nostro mondo, aspirano più modestamente a perpetuarsi attraverso la procreazione, in modo da lasciare attraverso la carne ciò che non hanno potuto lasciare attraverso la mente. Il desiderio di immortalità, per quanto concretamente vano... è davvero una delle cose più umane che possano esistere. O forse è tale proprio perché è concretamente vano: tutte le cose più belle di questo mondo sono inutili! L'arte è l'inno alla vanità per eccellenza, eppure chi potrebbe negare che sia l'apoteosi dell'umanità? E così il desiderio d'immortalità, questo stupendo, inutile e tantalicamente prossimo slancio verso l'infinito... questo meraviglioso e disperato tentativo di vincere l'assoluto negativo, unico denominatore comune a tutti i viventi... sì, ci rende davvero umani. Se è vero che abbiamo preso coscienza della nostra umanità quando ci siamo resi conto che potevamo morire, se è vero che esiste questo spartiacque dimenticato dalla storia di cui non sembriamo mai esserci resi conto a tutti gli effetti, allora come possiamo rinunciare a questa straziante tensione verso l'ignoto, motore dello spirito e della scienza, dolce balsamo e amara condanna di tutta l'umanità?

domenica 30 agosto 2015

Nihil admirari

Internet è un posto bellissimo. È un posto in cui la gente tira fuori il meglio e il peggio di sé in una maniera così grottescamente semplice da rendere inutili, quasi ridicoli, tutti gli esperimenti psicologici volti a dilatare intenzionalmente lo spettro dell'emotività umana. Tuttavia, una tale macchina miracolosa ha bisogno di un carburante altrettanto peculiare e credo di poterlo individuare con una certa accuratezza negli scandali, luculliano pasto di cui si nutre questo Erisittone elettronico che, quando non ne trova al di fuori di sé, sa come crearseli. Lo scandalo su Internet, questo gioioso e spietato compendio d'umanità, può essere costituito da tutto: avvenimenti più o meno insoliti, ingiustizie dal carattere più o meno marcato, ma anche fatti di ordinaria e irrilevante quotidianità elevati a bizzarrie da circo da gente annoiata dalla constatazione della vanità della propria esistenza in cerca di un motivo qualsiasi per essere ricordata dai posteri. Nonostante alla terza categoria fra queste io stessa abbia appena dedicato una menzione particolarmente lunga, trovo che la più interessante resti la seconda: le ingiustizie, ovvero il male quotidiano. La gente si sorprende, si meraviglia del male e della sua stessa esistenza. Si scandalizza per il politico che ruba, per il criminale che stupra le ragazzine, per la moglie che ammazza il marito e via dicendo. Da un lato mi fa abbastanza piacere che a far notizia sia il male, considerato ancora come l'eccezione, e non il bene (tremo all'idea di un mondo in cui i telegiornali trasmettono le buone notizie per consolare la popolazione), ma dall'altro i nasini che si storcono indignati per un banale furto ai danni dello Stato o per l'ennesima strage familiare mi strappano al massimo qualche sorriso.
Studiare e appassionarsi alla storia è qualcosa che ti cambia davvero la vita e fa sentire quasi superfluo il desiderio di conoscere cosa avverrà nel futuro: ti fa uscire dal piccolo angolo della piccola epoca in cui ti ha relegato la sorte e ti pone al centro della stanza del tempo (non gasatevi, non è Dragon Ball). Ti mostra nella maniera più naturale del mondo che tutto quello che accade e potrà mai accadere è già accaduto. Che bisogna avere un po' di pazienza con chi rimane stupefatto alla notizia degli inciuci, non so, nella Roma repubblicana o nella Firenze rinascimentale, e tuttavia concepisce lo scorrere del tempo come una retta di un grafico a proporzionalità diretta, come una consolante linea obliqua che punta verso l'alto, come la rappresentazione più elementare del progresso. Il progresso, già. Sono ancora in molti a pensare che, col passare del tempo, l'umanità progredisca. Insomma, prima c'erano le candele e ora ci sono le lampadine, prima c'erano i piccioni viaggiatori e ora ci sono i telefoni, prima c'era la schiavitù e ora no, prima le donne non potevano votare e ora sì. Chi avrebbe mai il coraggio di dire che questo non è progresso? Nessuno, credo. O meglio, nessuno che sappia fare delle dovute distinzioni. Sia chiaro, non è che non credo che i miglioramenti non possano avvenire in linea generale, è solo che penso che il progresso vero e proprio sia mero appannaggio della scienza e della tecnologia: ogni anno si scoprono cose nuove e la conoscenza avanza, la nostra capacità di manipolare la natura si affina notevolmente e siamo tutti più contenti (beh, quasi tutti, ma quella è un'altra storia). Ma il nostro animo, i nostri sentimenti, tutta la nostra sfera emotiva, i nostri istinti... beh, quelli sono gli stessi da secoli: pensate alla nostra sublime capacità di rispecchiarci in una poesia di Catullo, in un trattato di Machiavelli, in un romanzo di Hugo. Ogni minuto amori e odi si intrecciano come dieci, cento e mille anni fa, e di conseguenza anche concetti come l'etica e la morale, che di concreto non hanno nulla, seguono la medesima scia. Ad esempio, perché mai dovremmo aver ragione noi e le nostre posizioni antischiaviste rispetto ad un dominus di duemila anni fa che sull'acquisto e lo sfruttamento di esseri umani basava il sostentamento della propria casa? I miei compagni d'epoca obietterebbero che noi diamo valore alla vita umana ed evitiamo la sofferenza, ma chi dice che la vita umana abbia valore? Gli uomini e le carte del nostro tempo, ma questa non è un'argomentazione valida. La teoria del miglioramento che avanza parallelo al tempo non ha ovviamente alcun solido pilastro su cui appoggiarsi, se non altro perché, per esempio, la parentesi nazista si colloca tra gli anni 30 e 40 del secolo scorso ma dubito che siano in molti a ritenerla un passo avanti rispetto alla Belle Époque, tanto per dirne una. Dunque, se si esclude un principio superiore all'umanità che stabilisca l'essenza del bene e del male proprio in virtù della sua natura superiore, ecco, io credo che tutti abbiano il diritto di stabilire cos'è bene e cos'è male. Noi abbiamo determinate leggi perché ci troviamo in una determinata porzione di tempo e di luogo, tutto qui, e quando tentiamo di giustificarle con il fantomatico buonsenso stiamo semplicemente dicendo che una cosa è giusta perché ci è stata trasmessa così. Il male, quindi, o quello che ciascuno percepisce come tale (e qui diamo per buona la concezione che ne è stata fatta in pressoché l'intero mondo occidentale, se non altro perché è quella che condivido io per buona parte quindi in caso contrario arrangiatevi), esiste da quando esiste l'umanità: non sarebbe meglio farsene una ragione? Non arrendersi, non accettarlo, non rassegnarsi: soltanto smetterla di cadere dalle nuvole e opporvisi giorno per giorno o, perlomeno, provare a farlo rientrare nei margini; il bene assoluto non è di questo mondo ma dobbiamo comunque tentare di avvicinarci il più possibile. A chi il male lo vede come una realtà quotidiana riesce più facile combatterlo rispetto a chi se lo figura come una specie di nemico di Sailor Moon che appare ogni tanto fra le pagine di cronaca e ha sembianze soverchianti tipo nuvolona nera di fumo generata da eruzione del Vesuvio. Assassini, imbroglioni e criminali vari proliferano sin dalla notte dei tempi: più che sperare in una loro redenzione di massa o in una utopica e subitanea cancellazione del male per effetto di qualche nuova legge (qualcuno crede davvero che dire agli stupratori che stuprare è sbagliato o ai ladri che rubare è sbagliato farà cessare le loro malefatte? insomma, loro non la vedono così, e se volete che facciano altrimenti dovete piegarli al vostro volere con la persuasione, non facendo leva su un ipotetico concetto di giustizia spacciato per universale solo perché condiviso dai più), credo sia meglio puntare alla propria educazione e quella della propria prole e iniziare a comportarsi bene da sé. Il male esiste. Nasce con noi e ogni volta che qualcuno pensa che si sia raggiunto il fondo e si meraviglia quando viene smentito perché ormai si è iniziato a scavare, esso si nutre del nostro sconcerto, della nostra incapacità e della nostra paura di fronteggiarlo. Ma il pozzo in cui viviamo non ha fondo; tutto è possibile. Non lanciatevi in grandi progetti, combattete le vostre piccole battaglie con la massima naturalezza di cui siete capaci: insomma, state buoni (e filosofi) se potete, tutto il resto è vanità.

domenica 8 marzo 2015

Cuique suum

Oggi è la festa della donna. O la giornata della donna. O qualcosa del genere. Comunque si festeggiano/commemorano tutti gli esseri umani dotati di tette e Amica Chips perché, ecco, hanno le tette e l'Amica Chips: essi, secondo stime personali, si aggirerebbero attorno alla metà dell'attuale popolazione umana. Rientro anch'io in quella metà, e vi assicuro che nell'essere donna non c'è nulla di... come dire... stimolante, anomalo, emozionante o mistico. Forse perché vivo una vita miseramente normale e, boh, ormai noi e gli uomini, almeno qui, facciamo praticamente le stesse cose. O forse vivo la mia femminilità in un modo così istintivo e naturale che non mi accorgo neanche di viverla: se mi chiedessero di identificare e catalogare la femminilità (la parola mi fa venire in mente cucine e vestitini a fiori anni '50), non lo saprei fare, però nonostante questo riesco inspiegabilmente a notare quando qualcuno è più mascolino/femminile del solito.
Dunque, oggi mi è capitato sott'occhio quest'articolo e, alla luce riflessa di questo disarmante ventunesimo secolo, ci ho pensato su. Un sacco.
So che state ridendo in sottofondo (tu, all'ultima fila! ti ho visto!), ma ci ho pensato davvero.
E alla luce di cotanta riflessione non riesco a dire che: "ammazza che stronza".
La storia del rapporto a tre non è esattamente una di quelle che mi stanno proprio simpaticissime, così, a pelle, ma boh, dato che io non sto nelle mutande degli altri, che facciano ciò che vogliono. Il problema è che questa tizia sta con due uomini contemporaneamente e uno dei due non lo sa. Questo, a casa mia, si chiama tradimento. E il tradimento non è esattamente una bella cosa, nemmeno quando viene infarcito da una retorica così deviante e artificiosa (o comunque l'ultima volta che ho controllato non era una bella cosa: non vorrei che nell'ottica relativista del mondo di oggi fosse diventato anche comunemente lecito stimarlo e apprezzarlo - se, sic effata, ho urtato i sentimenti di qualcuno, non chiedo scusa).
L'apologia di se stessa scritta da questa donna suona come il magnifico corollario esposto dai perbenisti per cui sarebbe più corretto chiamare il bidello "collaboratore scolastico" e il netturbino "operatore ecologico" per... come dire? cancellare lo stigma sociale che etichetta questi due lavori come umili. Il problema è che in effetti questi lavori sono umili, ma non per questo meno dignitosi. Se un bambino che è figlio di un politico sfondato di soldi prende un giro il figlio di un bidello, la soluzione non sta nel cambiare nome alla sostanza, sta nel far capire al moccioso rompiscatole che nella sostanza non c'è nulla di male.
E così qui. Ammettiamo che si possa provare amore per due persone in egual maniera come dice la signora: non è forse giunto il punto di chiedersi se le altre due persone coinvolte sono d'accordo? A quanto pare no.
Sono innamorata di entrambi e quel che so è che la monogamia è una gran stronzata e farei bene a dirlo con chiarezza soprattutto a me stessa. Mi piacerebbe riuscire a dirlo a mio marito ma sono certa che lui mi lascerebbe e io non ne capirei proprio la ragione.
Devo commentare seriamente?
La proprietaria del blog dice che questa è una storia (quasi) vera. Ammettiamo pure che questa storia sia totalmente falsa: a prescindere da questo articolo, so che là fuori ce ne sono parecchie, di persone che la pensano così, e una l'ho pure incontrata e mi son dovuta perfino sorbire le sue pomiciate con l'amante (o fidanzato numero 2, chissà). Tesoro, ora che hai chiarito con te stessa che la monogamia è una gran stronzata, faresti bene, se non altro per onestà intellettuale, a condividere la tua idea col tizio a cui hai giurato fedeltà eterna. E se ci riesci, anche a metterti nei suoi panni: quest'uomo non è uno che si è ritrovato davanti un amico che gli ha detto "senti, ma tu vuoi sapere o non sapere se tua moglie ti tradisce?" e ha scelto la seconda opzione per il quieto vivere o per chissà quale altro motivo, è un poveraccio a cui la possibilità di scelta non è stata data.
Il sesso che faccio con il mio amante migliora la qualità della relazione con mio marito e viceversa e non capisco come mio marito, per esempio, possa essere felice solo restando con me.
Perché magari ti ama, donna. Perché accetta tutto di te, anche quello che non è come lui vorrebbe. Perché è questo l'amore: riuscire ad amare qualcuno che non è se stesso come se stesso. Siamo tutti bravi a voler bene alle nostre fotocopie, a coloro che ci corrispondono in tutto e per tutto: l'abilità sta nel saper convivere anche quando le opinioni divergono, e questo accadrà sempre, oh se accadrà, perché semplicemente non possono esistere due persone perfettamente uguali e concordi in ogni tempo. Esiste il sacrificio: se è unilaterale è schiavitù, se è bilaterale è amore. Poi tra l'altro dar tutta la colpa a questo insopprimibile richiamo del sesso è francamente offensivo per l'intelletto di un qualunque essere umano: le bestie ragionano con gli organi sessuali, non gli esseri umani. Vogliamo mica ritornare all'epoca in cui perfino uno stupro era giustificato con un becero "svuotarsi le palle"?
Ne hai bisogno, confessalo a te stessa, perché non riusciresti a restare chiusa in un rapporto a due senza gli stimoli che arrivano da altre persone. 
So di essere tremenda perché mi sto infil(tr)ando in discorsi in cui a ragion veduta non c'entro una ceppa dato che, per quanto riguarda la sfera amorosa, mi piazzo giusto un gradino sopra ad Anastasia Steele perché almeno io mi depilo e qualche volta ho sognato roba bum bum (non è che sono frigida - o forse sì -, diciamo che per ora aspetto l'amour e basta), ma probabilmente l'idea di relazione di questa tizia implica una gelosia e una possessività senza precedenti. Laggente, in genere, oltre ad avere un compagno, ha contemporaneamente anche degli amici: se il fatto che ad un mio ipotetico fidanzato non piaccia la serie televisiva per cui sto impazzendo nelle ultime settimane mi frustra così tanto, vado a fare la fan disagiata con un amico o un'amica, no? Anche perché dubito che vi venga voglia di farvi la prima persona con cui scoprite di avere qualcosa in comune o con cui avete comunque solo quella cosa in comune: se vi succede così, altro che amore, ci vuole la psicoterapia.
Noi siamo fatte per il matrimonio, per i figli, non abbiamo bisogno d'altro, questo è quel che pensano.
In genere questa è l'introduzione delle lagne delle fanciulle che credono che la vessazione subita dalle loro antenate in passato abbia bisogno di una vendetta a valore retroattivo, e infatti qui siamo più o meno nella stessa situazione. Il marito della tizia non è un violento, non è un maschilista, non è uno psicopatico, non è un criminale (però a quanto pare è bigotto, almeno una colpa gliel'abbiamo trovata): di cosa si lamenta lei? Perché tirar fuori la chiosa sulla gelosia eccessiva visto che non mi sembra che lei ne sia vittima? Si è lottato per ottenere pari diritti e pari doveri, cocca, per cancellare le disuguaglianze, non per favorire il tuo personalissimo modo di vivere la sessualità. Ai mariti era concesso essere infedeli e alle mogli no? E allora ben venga che anche ai mariti non sia più concesso essere infedeli, miseria benedetta! Erano loro a dover riguadagnare il valore, non noi a perderlo (parlo ovviamente degli stereotipi, perché è ovvio che nella vita reale ci fossero anche uomini fedeli e donne traditrici)! Se poi volete creare relazioni sentimentali aperte, iniziate col dirlo apertamente: ma tu guarda se mo il cornificio se deve chiamà emancipazione.
C'è poi un motivo per cui la promiscuità è sempre stata guardata male e la prostituzione ancora di più: usare il proprio corpo con tutti viene appunto facile a tutti, e sfruttarlo per il proprio mestiere ancor di più (voglio dire, un medico deve studiare dieci anni, per dar via le Amica Chips e le controparti maschili non servono lauree e contrallauree). Poi fate vobis, distribuite piacere a chi volete, ma almeno siate onesti. Con voi stessi e con gli altri.
Auguri, donne, ché qua in Occidente ce l'abbiamo praticamente fatta. E grazie al cielo abbiamo avuto leitmotiv più interessanti della bombata libera.

sabato 21 febbraio 2015

Audacter calumniare, semper aliquid haeret

[avrei dovuto scriverlo prima ma grazie al cielo ho aspettato perché una conferenza sul terrorismo e la libertà di parola - a cui sono stata costretta a partecipare, ma vabbè - mi ha offerto nuovi spunti di riflessione. Tiè.]

Sappiamo tutti dell'attentato di Parigi.
Sappiamo tutti cosa c'era dietro, cosa c'è stato e cosa ci sarà.
Sappiamo tutti che i populisti, i complottisti (pentastellati o meno) ed altri esseri indegni che rispondono al nome di leghisti ci hanno marciato sopra come i fascisti a Roma nel '22 per giustificare, come da agenda, il loro razzismo (che mi sarebbe piaciuto definire "latente", ma ormai non si sforzano nemmeno di nasconderlo).
E chi trascorre su Internet almeno un briciolo del suo tempo sa che è stato lanciato l'hashtag #JesuisCharlie per mostrare sostegno alle vittime dell'attentato. Chi invece passa sulla rete qualcosa di più di un briciolo di tempo avrà notato anche l'indignazione scatenata negli utenti più sensibili dall'uso smodato di suddetto hashtag, diventato in un tempo sospettabilmente breve un fenomeno virale, spesso accompagnato dall'immagine di matite, spezzate o no, a simboleggiare l'attività svolta dalle vittime. Nulla di nuovo sul fronte occidentale, si dirà: ricordare chi ha perso la vita in un evento di tale portata è la prassi per tutti, darsi al più becero sciacallaggio è prerogativa di pochi (spero), ma, più in generale, esprimere una propria opinione riguardo l'accaduto è cosa più che normale e in un certo senso perfino lodevole (tremo all'idea di un mondo in cui eventi come questo potrebbero non far notizia, per esempio). Il problema è che non si è capito cosa volesse significare l'hashtag: perché sì, ok, se vuol dire supporto ai poveretti che hanno perso la vita più o meno tutti siamo d'accordo (e suppongo che quelli che non sono d'accordo marciscano in galera già da parecchio tempo o stiano per andarci), se invece significa difendere la libertà di Charlie Hebdo di pubblicare quel che pubblicava è un'altra storia. E qui, manco a dirlo, si sfora in campi di cui è estremamente difficile delimitare i confini: in questo caso, essi sono religione, satira e libertà. Partiamo dal primo.
Fare satira sulla religione per chi si definisce ateo è come per gli onnivori fare satira sui vegani: troppo facile. È troppo facile e intellettualmente disonesto prendersi gioco di ideali che non sono i propri: è lecito contrattaccarli e smontarne l'impalcatura etica, ma in un dibattito filosofico e con argomentazioni di una dialettica degna di questo nome, non con qualche parola volgare sparata senza scopo e senza meta come i botti a Capodanno nei quartieri malfamati, perché altrimenti scompare la differenza fra il "giornalista satirico" e il bullo delle superiori che ti scriveva le offese sul banco. Io, per esempio, non sono vegana, e l'immagine di un maialino arrosto con la mela in bocca non mi suscita sentimenti di repulsione, tuttavia riconosco che ci sono persone che potrebbero rimanere ferite da ciò e perciò evito di pubblicare sulle loro bacheche immagini di questo tipo. Inoltre, per quel che mi riguarda, che ci crediate o meno, io provo una stima profonda per la causa vegetariana (forse un po' meno per quella vegana, a mio parere un po' troppo esagerata) e ad urtarmi non sono coloro che ritengono immorale avere animali morti e cotti nel piatto, sono coloro che pretendono di spacciare le proprie idee come verità aventi fondamento scientifico. Insomma, dire "sono vegetariano perché mangiare animali è secondo me una cosa eticamente sbagliata" è perfetto, dire "sono vegetariano perché la carne fa male e il pesce pure perché contengono composti tossici come la cadaverina, la putresceina e la supercazzola" è errato perché si affermano cose totalmente infondate dal punto di vista scientifico. Io combatto chi fa disinformazione e getta fango sui ricercatori e sulla scienza in generale, non le convinzioni etiche del singolo, e credo che moltissimi dei problemi dell'umanità siano riconducibili a quest'incapacità dell'individuo di distinguere tra idea e seguaci dell'idea, teoria che tra l'altro spiegherebbe perfettamente perché questo mondo vada in malora nonostante la storia abbia partorito menti eccelse che hanno a loro volta sfornato pensieri innovativi e geniali che, pur essendo conosciuti e amati, non vengono applicati come Madama Ratio imporrebbe. Sullo stesso tronco si innesta la differenza fra la religione e i seguaci della religione e successivamente fra la religione e il potere. Che vi piaccia oppure no, religione e potere sono due cose diverse, anche se c'è chi amministra contemporaneamente l'una e l'altra: è dunque lecitissimo fare satira sul papa o chiunque altro quando lo si presenta come uomo di potere, ma non come uomo di fede. Il potere è sempre stato il bersaglio della satira, non le idee, non le razze, non le religioni, non i sessi né qualsiasi altra cosa vi passi per la mente. Le pouvoir, la politique. Come si fa allora a scindere religione e potere, che spesso appaiono legate a doppio filo? Il metodo è meno difficile di quanto sembri.
È datata 20 settembre 1870 la Breccia di Porta Pia, l'evento cardine che mise fine al secolare dominio del papa sulla città di Roma e sui territori circostanti, che all'epoca dei fatti erano tuttavia stati quasi tutti già conquistati. Ebbene, come già ho scritto tempo fa, in quei secoli di potere temporale i cittadini dell'Urbe, fieri eredi dello spirito latino, non erano rimasti certo con le mani in mano a farsi tiranneggiare dalla Curia e in certi periodi avevano anche rischiato la vita per attaccare alle cosiddette statue parlanti di Roma i fogliettini contenenti le loro audaci invettive contro il potere: sissignori, era satira a tutti gli effetti. Eppure nessuno potrebbe certo affermare che i romani dell'epoca non fossero credenti, anzi, lo erano certamente più di adesso, ma sapevano ben distinguere i precetti della religione da quelli spacciati per tali o da quelli dichiaratamente temporali. Il segreto è porsi la seguente domanda: cosa avrebbe fatto un romano del Cinquecento? Vedete che magari vi vengono pure nuove idee.
Affermare di essere Charlie a tutti gli effetti provoca infine una reazione a catena devastante: se prendersela per un'offesa o una battuta di qualunque natura implica essere bigotti, allora via gli articoli 368, 594 e 595 del codice penale italiano che regolamentano rispettivamente la calunnia, l'ingiuria e la diffamazione, perché semplicemente tali azioni non esistono, esistono solo persone che non sanno ridere di se stesse! Perché mai deve essere processato quel mononeurone deambulante di Calderoli che tempo fa diede dell'orango alla Kyenge? Ve lo dico io: perché non l'ha offesa sul piano politico. Non ha criticato un suo disegno di legge, non ha fatto opposizione ad una sua proposta, non le ha dato della "politica inetta e incapace". Le ha dato dell'orango semplicemente perché era nera e, ultimi sviluppi alla mano, è stato pure assolto (ora voglio che facciate un "ohhh" di disapprovazione fingendo di stupirvi). Riflettendoci meglio, credo che i più arguti siano anche perfettamente consapevoli di questa distinzione fra le idee e i sostenitori delle idee, fra la religione e il potere, ma sfruttino volutamente l'incertezza dei molti sull'argomento per "propagandare", per così dire, le proprie idee. Insomma, dirà qualcuno, va bene che certa roba è pesante, ma è stata scritta su un giornale di satira, quindi non è stato fatto con intenti malvagi! Beh, ragazzi, novella saeculi: se io scrivo "la fessa ti mammata" su Cosmopolitan non diventa un consiglio di rimorchio solo perché l'ho scritto su Cosmopolitan! C'è modo e modo di far le cose e, sempre che vi piaccia oppure no, la libertà assoluta non esiste e anche se esistesse non ci sarebbe concessa - e meno male, dato che pure con quella relativa riusciamo puntualmente a metterci nei guai -. I giornalisti di Charlie Hebdo non meritavano certo la morte: nessuno merita la morte (a mio modesto parere nemmeno i carcerati colpevoli dei peggiori reati mai concepiti da umano intelletto, se intelletto si può definire quello di chi compie crimini atroci, ma questa è ovviamente un'altra storia), tuttavia i vignettisti sapevano a cosa andavano incontro, dato che le minacce erano arrivate frequenti e numerose e se non ricordo male c'era stato anche un altro attentato anni fa alla loro sede parigina. Hanno deciso di continuare a pubblicare senza apportare modifiche al loro stile e in un certo senso io ammiro questa caparbia perseveranza, ma quand'è che questa finisce per lasciare il posto all'ostinazione? Charlie Hebdo è diventato un simbolo, qualcuno l'ha eletto a martire del laicismo e ci scommetto la mia collezione di gatti di peluche che quel giorno, quando a Parigi hanno sfilato serrati i capi di Stato scortati da una folla immensa, in pochissimi abbiano veramente riflettuto autonomamente sulla vicenda allora appena trascorsa. La visione del terrorista come del male incarnato (beh, insomma, è in effetti piuttosto difficile che qualcuno offra un'interpretazione discordante su questo punto - e meno male, direi) ha offuscato automaticamente tutte le luci e le ombre dell'Hebdo, che quel giorno d'inverno a Parigi ha stramazzato a terra in un lago di sangue ma che nei suoi precedenti anni di vita non si è risparmiato nemmeno una delle frecce della sua faretra e, quel che è peggio, chi ha provato ad analizzare lucidamente la vicenda senza farsi trasportare dai sentimentalismi (che sono sì perfettamente naturali come reazione immediata ma a lungo andare corrompono l'analisi della realtà effettuale) è stato accusato di scaricare sulle vittime la colpa di questo barbaro massacro, nell'eterno, istintivo dualismo bene-male che si crea nella nostra mente sin dall'alba dei tempi e rappresenta la nostra primitiva, umana condanna.
Sì, i terroristi hanno tutte le colpe. L'Hebdo qualcuna in meno.

giovedì 18 dicembre 2014

Vis grata puellae

Temo che tutte le donne apprezzino la crudeltà, la crudeltà pura, più di qualsiasi altra cosa. I loro istinti sono meravigliosamente primitivi. Le abbiamo emancipate, ma esse rimangono sempre schiave in cerca di un padrone. Amano essere dominate.                                                                                                                                                  (Oscar Wilde)
Come sapete, in quanto amministratrice di una pagina contro il femminismo e scrittrice di diversi articoli al riguardo, il tema della parità dei sessi mi sta particolarmente a cuore. Così, la scoperta quasi simultanea dell'esistenza di questa citazione di quel figlio di... un dandy di Oscar Wilde e di questa foto pubblicata sulla pagina ufficiale delle WAF mi hanno lasciato di stucco a pari merito: ammetto candidamente che la mia prima reazione ad entrambe è stata una faccia da "wtf" seguita da un "però niente droga contraffatta la prossima volta" (per quanto riguarda l'immagine, poi, c'è stato un fugace attimo di sconforto nel leggere che la sua autrice era cristiana come me - "oh no, non di nuovo"), poi però ho fatto scorrere un po' i commenti e ne ho trovato uno decisamente interessante, scritto da un ragazzo che ha fatto notare come effettivamente le donne cerchino qualcuno di "superiore" a loro sia fisicamente (età, altezza, forza) sia caratterialmente (spirito di iniziativa, maturità) sia socialmente (ricchezza, status sociale). E francamente non penso che ci sia bisogno di riflettere molto per capire che è vero: la stragrande maggioranza dei fidanzati delle mie amiche è effettivamente così, ma non per questo tiranneggia deliberatamente le proprie compagne, anzi, a me pare che entrambi vivano sereni e quindi non vi sia alcuna effettiva subordinazione femminile; sappiamo che è praticamente impossibile essere uguali e pari in tutti i campi, al contrario di quanto vorrebbero alcuni, ed ecco dunque che ci si divide i compiti ciascuno secondo le proprie capacità, e non so se è per legge di natura o per evoluzione di società che a uomini e donne riescono in massima parte cose diverse fra loro e pure complementari, cose che oggi par brutto nominare in relazione quasi esclusiva all'uno o all'altro sesso ma sancite implicitamente in un tempo immemore ed ancestrale nel tacito e vitale patto per la sopravvivenza. S'impara in terza elementare che le genti del Paleolitico avevano usi semplici, sapete, uomini a caccia fuori dalla caverna e donne a ravvivare il fuoco e a praticare con l'erbe e a curar pargoletti, mica se ne fregavano qualcosa di femminismo, di maschilismo, di parità dei sessi o di qualcosa del genere, è che poveretti, non ne erano in grado... non ancora, perlomeno. Non è che agli uomini o alle donne interessasse davvero sottomettere la controparte o relegarla nel ruolo opposto al proprio, volevano semplicemente giocare di squadra e far campare la propria prole: natura ha assegnato agli uomini maggior forza fisica e alle donne gravidanza e allattamento e quindi istinto genitoriale più forte, perciò vien da sé che ad ognuno spettassero compiti diversi. Poi, però, il tempo ha continuato a scorrere e le cose son cambiate, sono nate prima gerarchie e poi città, insomma: all'istinto si è unita la razionalità. Che non è ad esso subentrata, attenzione, altrimenti non staremmo qui a parlare: la ragione è servita ad incanalare l'istinto nei neonati canoni della civiltà. La ragione ci ha trasformato da bestie a umani. Così, dunque, sono sorte le colonne d'Ercole che hanno relegato la donna dentro e l'uomo fuori dalla casa, che non si sono curate delle differenti attitudini del singolo individuo e ne hanno pianificato la vita prima in funzione del proprio ceto sociale e poi in funzione del proprio sesso, che hanno sancito la superiorità dell'uomo prima in base alla propria forza fisica e poi in virtù di una supposta superiorità intellettiva (uomo come unico portatore di logos, in atavica contrapposizione all'istinto materno, che di pensieri e sillogismi bisogno di certo non aveva), che hanno esautorato la donna dal ruolo di magica dea madre e misteriosa datrice di vita fino a renderla un mero ricettacolo del seme maschile quando ci si è accorti che anche l'uomo contribuiva alla procreazione. Insomma, la parabola discendente della figura femminile non ha avuto origine da un complotto dell'altro sesso, è stato più o meno il prodotto di una sequela di eventi "sfortunati", come del resto accade per tutti i fatti della Storia. E oggi? Oggi è diverso, perché alla forza bruta si è sostituita quasi per intero la diplomazia e lo sfruttamento dell'intelletto (per chi ce l'ha, s'intende), quindi una parità dei sessi non è solo moralmente doverosa, è anche naturalmente derivante dalle evoluzioni della società. Trionfa la razionalità, dunque, ma l'istinto non scompare, e a tal proposito vorrei citare, forse impropriamente, lo straordinario successo tenuto dalla trilogia delle "Cinquanta sfumature" di tale E. L. James, che come sappiamo è sostanzialmente la saga di Twilight con i nomi dei personaggi cambiati e il vampirismo sostituito col sadomaso. Il protagonista, Christian Grey, è noto al mondo per essere bello, ricco ("Anastasia, io guadagno circa centomila dollari all'ora" è la sua frase cult) e amante di pratiche sessuali... diciamo di nicchia, che comprendono sculacciate, frustate e altra roba che non sto qui a spiegare perché, come Anastasia, potete erudirvi su Wikipedia. O un sito porno qualunque, tanto è lo stesso. Insomma, fatto sta che 'sto tizio ha riscosso un successo stratosferico fra le donne di tutto il mondo e chiedersi il perché è effettivamente la cosa più naturale che si possa fare, dato che la caratterizzazione fornitagli dalla sua autrice (sempre che lo si consideri un personaggio letterario e non una figurina di carta ritagliata da un libro dell'asilo) non lo rende, a conti ben fatti, il più desiderabile fra gli uomini. Sì, è bello e ricco come i divi di Hollywood con i cui poster avevate tappezzato la cameretta a dodici anni, ma è un po' rompiscatole. Un po' ossessivo. Un po', per usare le sue stesse parole, "maniaco del controllo" (sì, esatto, come vostra madre quando si assicurava che il sabato sera non andaste a ubriacarvi). Tuttavia, è proprio questo a renderlo estremamente attraente agli occhi delle sue adoratrici: Grey è uno stereotipo vivente, ma è l'incarnato del maschio alfa, l'epitome della virilità, il macho degli Harmony degli anni 80 che ha scambiato i suoi sproporzionati bicipiti guizzanti da copertina per un posto da amministratore delegato in giacca e cravatta e si è fatto volitivo uomo del Duemila. Grey domina le sue donne nella maniera meno metaforica possibile e tutte le donne gli sbavano dietro. Donzelle masochiste, dunque? Infamanti ritrattatrici delle conquiste femministe del Novecento? Vergogna del genere femminile? Niente di tutto ciò, credo. Per quanto trovi inutile sprecare anche solo una singola goccia della mia bile per odiare visceralmente il Ken de noantri, non sono affatto convinta che le fans del belloccio metallizzato di Seattle rinuncerebbero volentieri al diritto di voto o all'usufrutto di contraccettivi o, ancora, abbiano qualcosa a che spartire con le loro antenate: se a dar loro ordini nella stessa maniera fosse stato il padre o il datore di lavoro, giù di lagne su Tumblr; questo, però, è l'infido terreno di Afrodite e del di lei divin fagotto pannoluto Eros, l'Amore, sì, ma l'amore erotico, irrazionale, non l'Agape. È il campo dell'istinto che porta la fimmina ad aspirare al leone con la criniera più figa, e anche se razionalità dice che il compagno migliore sia quello con cui si condividono i lavori di casa e la cura dei figli eccetera eccetera... quando valuti un maschio come papabile compagno di vita, a primo acchito usi il sesto senso. E se il sesto senso continua a spingerti verso di lui a dispetto di tutto (il "tutto" spazia da "ha un carattere di merda" a "amò dopo la laurea sto sotto i ponti"), purtroppo - o per fortuna, dipende dai casi - non c'è storia. L'erotismo è una passione, è la passione, è quanto di più inafferrabile e inspiegabile possa esistere - non per niente gli epicurei consigliavano di starne alla larga - e suo fedele famiglio è l'istinto, che a quanto sembrerebbe nelle donne conduce davvero ad un desiderio di sottomissione. Wilde era in un certo senso nel giusto, dunque, ma ricordiamoci che parlava solo di una delle eliche del nostro DNA, la più primitiva: la ragione la sovrasta e ha il potere di dominarla ma non di annullarla. Come già detto, è mia opinione che nella maggior parte dei casi si preferisca inconsciamente la via della diplomazia e che dunque la "sottomissione" si traduca in termini pratici in una versione decisamente più light di se stessa, come quella enunciata dal commento analizzato all'inizio. La vis del titolo dell'articolo, in linea di massima, non è cosa positiva, ma ad onor del vero devo dire che essa è una delle parola chiave di un concetto estrapolato dall'Ars amandi di Ovidio, classe 43 a.C., che per la cronaca non è il vademecum delle verginelle ma è più simile all'almanacco delle immoralità (in amore, come in guerra, tutto è lecito) e, uhm, diciamo che è da audaci, o presuntuosi, farne uso: se una donna ti dice no, nella maggior parte dei casi vuol dire no, ma esiste anche l'opzione "mi faccio desiderare" se la corte risulta gradita ma la donna non vuol dar l'idea di cedere subito (ai tempi non lo si faceva perché era considerato sconveniente per una donna avere parte attiva nel gioco amoroso, sebbene il caro Naso lasci intendere non troppo velatamente che alla fin fine non importa chi fa cosa purché si trombi, ora invece è più un vezzo o una prova d'amore livello base). La soluzione? È sempre una sola: in medio stat virtus. Se vuoi ribattere al primo "no" della donzella fallo pure, se vuoi ribattere al suo dodicesimo "no" comincia a procurarti una panoplia. Sai com'è, per l'autodifesa.

sabato 6 dicembre 2014

Eum interfecerunt: dixit: ignosco

Humanum amare est, humanum autem ignoscere.                                                                (Mercator, Plauto)
Mi è recentemente riaffiorata alla memoria, complice anche un progetto organizzato dal mio insegnante di storia, la triste, disumana vicenda di Elisa Springer, che risulta priva di originalità e spessore solo se messa a confronto con le centinaia di storie simili vissute da chi ha condiviso il suo atroce destino: quello di deportata in un campo di sterminio della Seconda Guerra Mondiale. Elisa però ha avuto anche la smisurata fortuna di riuscire a sopravvivere, anche se, una volta conclusasi questa devastante parabola emotiva, ha preferito trincerarsi nel silenzio e lasciar scorrere la vita come l'aveva conosciuta prima dell'orrore, nascondendo il numero tatuato sul polso con un cerotto e stabilendosi in quella che attualmente è la mia città. Solo quando il suo unico figlio ha compiuto ormai i vent'anni e le ha chiesto spiegazioni ella ha trovato il coraggio di narrare l'indescrivibile prima a lui e poi al grande pubblico, tenendo la sua prima conferenza proprio nella mia scuola media; scuola media che oggi, per via di un progetto di giornalismo a cui ha partecipato mio fratello, ha riesumato alcuni dei suoi reperti digitali, fra cui il video dell'intervista ad Elisa. L'Elisa del video è una donna anziana che parrebbe non aver nulla di dissimile dalle vecchiette che calcano quotidianamente le strade del paese, ma i segreti, si sa, non lasciano tracce, si celano insidiosi e meditabondi nei solchi del viso, salvo poi riemergere dalle proprie ceneri compresse ed espandersi nell'aria come gas velenosi: la donna trova la forza di tornare ad Auschwitz nel 1995 e, come comprensibilmente previsto, viene annichilita dal vuoto che la circonda, lì dove prima c'era l'asfissiante tanfo del male fatto persona, della carne umana putrescente delle vittime e soprattutto dello spirito in decomposizione degli aguzzini. La Springer, tuttavia, nel video mostrato a scuola e girato non molti anni prima che io venissi a studiare lì, all'insolente, scontata e indiscreta domanda "ha perdonato?" risponde che lei ha perdonato per quanto era possibile, che il resto, la parte importante, era giurisdizione divina: insomma, non è a lei che devono rendere conto i carnefici, dice, ma alla Giustizia superiore. Elisa si ritiene miracolata per essere sfuggita più volte alla Morte, dopo essere stata avvicinata da lei suadente ed essere stata accarezzata dalle sue lunghe unghie aguzze, ma quello che mi ha interessato più di tutto è stato proprio il fugace accenno al perdono. Perdono. Per-donare. In latino la particella per ha valore intensivo o indicante compimento. Donare tutto con tutto se stesso, o qualcosa del genere. Ma perdonare è già atto nobile in contesti di vita quotidiana, e quindi come si può perdonare chi ha compiuto bestialità di tal fatta? Sarebbe già miracoloso non provare verso di loro un odio intransigente, già magnanimo ignorarli con stoica forza d'animo, ma perdonarli, oh signori, chi ce la fa? E poi non si rischierebbe di offendere perfino la memoria delle vittime accordando tale beneficio agli sterminatori, che umane fattezze avevano meramente usurpato? La risposta, messeri e madame, m'è semplicemente ignota. La Springer in quel campo maledetto ha riscoperto Dio, altri come lei, fra cui Primo Levi, l'hanno smarrito una volta per tutte, e io ammetto hic et nunc che non so se la mia fede sarebbe riuscita a rimanere salda anche in quel dove e in quel quando. Non lo so. Non so se in un futuro più o meno lontano sarei mai riuscita a spendere una parola non dico buona, ma almeno non d'accusa, per... coloro che stavano dall'altra parte. Come... come si fa? Errare è umano, perdonare è divino, diceva Pope. Ma se perdonare è divino... lasciamo a Lui quest'incombenza molesta, no? No, non possiamo. Perché siamo tutti chiamati ad essere santi ed eroi, e siamo chiamati ad esserlo perché possiamo esserlo: non intendo solo dalla religione, ma dalla società in generale, siamo chiamati a fare gli dei pur non essendolo di natura ma in nome della nostra metamorfica facoltà di elevarci al loro livello o di degradarci a quello delle bestie. Perdonare davvero chi ha compiuto azioni di tale portata e non semplicemente scegliere di chiamare con tale nome il proprio ormai scemato rancore verso gli antichi nemici è tuttavia così difficile e così raro da trascendere il terreno e sfiorare il limite del sovrumano, ecco perché "divino". Plauto, però, la pensa in maniera opposta: perdonare è ancora più umano. E ha ragione anche lui, perché la vera e pura umanità si raggiunge quando avviene il distacco maggiore dalla propria elica ferina di DNA e ci si afferma parallelamente nell'esercizio delle virtù universali che di ultraterreno hanno tutto.
Il titolo dell'articolo è la traduzione latina di un verso della poesia X Agosto di Giovanni Pascoli, che in italiano recita "l'uccisero: disse: perdono": il riferimento è chiaramente quello all'assassinio del padre dell'autore, morto in circostanze misteriose trent'anni prima della stesura di questo famosissimo componimento. Non so se interpretare la parola "perdono" come una richiesta di assoluzione rivolta in extremis all'alto dei cieli o come l'ultimo, supremo atto di bontà dell'uomo verso il suo assassino, il cui nome è a noi rimasto ignoto, però mi piace pensare che il poeta abbia volutamente lasciato alla libera interpretazione del lettore questo piccolo enigma. Se si intende dunque tal parola come il più grande dei condoni, si ritorna comunque al punto di partenza: come si fa a perdonare chi ti ha fatto non solo del male, ma chi ha commesso nei tuoi confronti un torto di dimensioni incalcolabili? Dall'alto della mia presunzione, io che sono sicura nella mia tiepida casa, io che trovo tornando a sera cibo caldo e visi amici, dico che non so come, ma è possibile. Lo so perché sono forte dei miei processi d'astrazione mentale, ma anche e soprattutto perché è riuscito a farlo chi ha ricevuto quest'offesa immane, senza la cui testimonianza provata le mie inconsistenti teorie si dissolverebbero come fumo nel vento. Forse, chissà, ci si potrebbe appellare all'insanità mentale dei carnefici, perdonarli perché erano inconsci di quello che compivano, ma ahimé quant'è doloroso e incredibile scoprir che tali malefatte erano parto razionale di menti lucidamente abiette!
Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno.
Non sanno quello che fanno.
Quello che fanno.
Anche i soldati vicino alla croce si divertivano, e in ogni caso padroni di sé lo erano eccome. Sapevano di causare sofferenza: certo, tutto è relativo, loro vivevano nel loro tempo e avevano delle concezioni morali di base assolutamente diverse da quelle di un mio contemporaneo, ma anche i nazisti vivevano, più che nel loro tempo, nelle loro idee malsane, e anche per loro c'è dunque l'attenuante della relatività. Allora cosa si intende con quel "nesciunt quid faciant"? Possibile che non riuscissero proprio a immaginare nemmeno una minima parte del dolore causato? No, lo sapevano, e pure bene, e ne godevano perversamente e innaturalmente; forse, però, non sapevano il valore assoluto del peso dell'aria spostata dai movimenti delle loro mani barbare. Insomma, non avevano la minima idea di quanto le loro azioni rispondessero ad un criterio oggettivo: il criterio scientifico e morale dell'uguaglianza fra tutti gli uomini e della conseguente equivalenza delle loro pene. Se vogliamo buttarla sul piano mistico, ignoravano la piccolezza dei loro mantra da strapazzo di fronte all'infinita immensità del Creatore. O forse, ancora, volevano deliberatamente ignorarla, illudendosi di aver spodestato quest'ultimo almeno sul trono della terra calcabile. Oh, somma stoltezza, insolente perfino nei riguardi dei rigorosi e improvvisati codici di guerra, qui oltraggiosamente ed insopportabilmente violati! Loro sapevano quello che facevano in relazione a se stessi, ma non in relazione a ciò che c'è di più grande ed è insindacabile per palese assioma. E l'assioma da cosa è stabilito? Beh, prendete la parabola del servo senza pietà. Poi prendete la seguente affermazione: "Noi siamo tutti impastati di debolezze ed errori: perdonarci reciprocamente le nostre balordaggini è la prima legge di natura". Infine sappiate che la prima è tratta dal Vangelo, la seconda dagli scritti dell'illuminista Voltaire. Per quanto, in casi rari come quello di cui ho parlato sopra, la gravità del peccato di uno verso un altro renda possibile riconoscere un carnefice e una vittima, nessuno su questa terra può assurgere al ruolo di bene o male assoluto; siamo tutti potenziali vittime e carnefici verso qualunque fratello, e l'essere vittima di uno non mi impedisce di essere carnefice di un altro. E per bilanciare nuovamente l'ordine universale di fondo, ad un grande peccato deve necessariamente corrispondere un grande perdono, anche se incommensurabilmente sofferto. Al vuoto piace la materia compatta.

giovedì 13 novembre 2014

De pecunia et felicitate

Più fortunato, quando abbia benessere, può l'uno esser dell'altro; e niun felice.                                                                                                               (Medea, Euripide)
La Medea è la tragedia che la nostra scuola sta mettendo in scena, sia pure in una versione ridotta all'osso per questioni di tempo, al Tarentum Festival della prossima settimana: a dire il vero, il nostro copione dice "non esiste nessuno fra gli uomini che può dirsi felice: con la ricchezza può dirsi fortunato, ma felice no, mai" per ovvie questioni di comprensione al grande pubblico, ma la sostanza non cambia. Erano secoli che sognavo di trovare una frase che esprimesse al meglio la mia concezione del rapporto pecunia/felicità (stranamente, non riuscivo a dirla a parole mie, nonostante non implicasse chissà quali perifrasi o ragionamenti) ed eccola qui. Una delle massime più abusate dal popolo recita "i soldi non fanno la felicità", e ad essa i più disincantati, il cui numero cresce esponenzialmente di giorno in giorno, sono soliti ribattere con un sarcastico "come no!", alludendo non molto velatamente al vantaggio che comporterebbe il possedimento di ingenti ricchezze. Essere ricchi, beh, dev'essere bello, non lo metto in dubbio. Si potrebbero soddisfare in tempi brevi tutti i propri desideri, si eserciterebbe automaticamente sugli altri una certa qual dose di fascino, si sarebbe oggetto e non soggetto di invidia, si avrebbe il mondo ai propri piedi, insomma: calerebbero drasticamente le probabilità di avere rimpianti in punto di morte. Calerebbero, appunto, ma non si annullerebbero: aver fatto mille e mille viaggi o aver comprato mille e mille libri o mille e mille gioielli non mi assicurerebbe una sana quiete di coscienza prima del trapasso. Avrei esaudito tutte le mie volontà, sì, ma non sarei comunque sicura di aver vissuto una vita degna di questo nome: è da millenni che la filosofia insegna che bisogna badare a ciò che c'è all'interno di noi stessi e circondarsi di ninnoli come fanno i tiranni con gli adulatori aiuta a riempire il vuoto della propria casa, non quello del proprio cuore. La ricchezza porta avidità, e l'avidità moltiplica i bisogni innaturali del corpo, così come afferma giustamente Seneca nelle Lettere a Lucilio (questo è un concetto di cui, ancora una volta, hanno parlato in tanti - primo fra tutti, credo, Aristotele - ma piazzo quell'infame dell'Anneo perché questa era la versione dell'ultimo compito in classe):
Si accumuli nelle tue mani tutto ciò che molti ricchi avevano posseduto; la sorte ti spinga oltre il limite di ricchezza concesso ad un privato, ti ricopra di oro, ti vesta di porpora, ti spinga ad una tale soglia di delizie e ricchezze che tu possa ricoprire la terra di marmo: ti sia lecito non soltanto possedere ricchezze, ma calpestarle. Si aggiungano statue e dipinti e tutto ciò che le varie arti hanno creato per la soddisfazione della lussuria: da questi beni imparerai a desiderare solamente di più.
Come può dunque la ricchezza renderci davvero felici? È certo indispensabile che i bisogni necessari del corpo siano soddisfatti, ma quali sono allora i bisogni necessari? Sempre Seneca:
Allontanati, dunque, dalle vanità e quando vuoi sapere se ciò cui aspiri corrisponde a un desiderio cieco o naturale, considera se ha un termine; se dopo un lungo cammino rimane sempre una meta più avanzata, sappi che non è un desiderio naturale.
Un barbone che vive sotto i ponti può essere dunque pienamente felice? Beh, in genere non mi piace porre limiti alle umane capacità, ma stavolta azzardo un "sicuramente no" (a meno che non si tratti di qualche emulo del leggendario Diogene): è fondamentale comprendere che la felicità vera è uno stato dell'animo, ma la soddisfazione dei bisogni dell'animo viene per legge di natura dopo quella dei bisogni del corpo; insomma, a pancia piena si pensa decisamente meglio. Pancia piena e non strabordante, attenzione, ché poi i lipidi rischiano di danneggiare anche le sinapsi! Sarebbe bello se potessimo mangiare o bere per il solo piacere di farlo e non perché il corpo lo reclama e dedicarci invece per tutto il tempo alla realizzazione dello spirito, ma (almeno attualmente, non pongo limiti nemmeno al progresso) non è possibile e dobbiamo accontentarci: chi può, dunque, soddisfi fame e sete, se può le soddisfi anche nel modo che gli riesce più gradito, se gli è consentito faccia in modo che anche agli altri venga garantita questa possibilità, ma non offra allo stomaco più di quanto esso stesso chiede, perché altrimenti questo imparerà ad esigere sempre di più. Non si disprezzino a priori le cose della carne, ma le si vedano solo come i gradini più bassi (per i quali, diciamocela, non conviene assolutamente sprecare tutte le forze che in genere si impiegano per l'accumulo smodato di beni materiali) di una scala molto, molto più elevata: non si arriva in cima se non si sono calpestati i primi gradini, tuttavia, a ben guardare, può essere prerogativa di qualche anima magnifica riuscire a saltarli con un balzo solo. A noi, che sovrumani non siamo, conviene certo percorrere tutte le tappe del cursus honorum della felicità: anzi, è già tanto riuscire ad evitare di fare deviazioni intestardendosi C'è addirittura qualcuno che ha provato a spiegare la correlazione denaro/felicità in termini matematici: oh numi, che impresa improba! Easterlin ha notato che la felicità umana aumenta solo fino ad un certo punto e che poi comincia la decrescita: il punto di rottura non si avrà mica quando ci si accorge che, ammassando denaro, si accumulano anche le preoccupazioni, le ansie e i pensieri nefasti che impediscono lapalissianamente lo sbocciare della felicità? Penso che si tratti di qualcosa di simile al principio del "da un grande potere derivano grandi responsabilità": più influisci sulle vite degli altri (ebbene sì, la ricchezza porta a questo), meno sei padrone della tua. Altri ancora, poi, si sono spinti perfino ad istituzionalizzare la felicità: stavolta è il turno dei firmatari della Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti, in cui compare appunto il celebre diritto alla ricerca della felicità, che suona tanto poetico, specie se messo in un contesto così formale come quello della politica, ma alla fine io non ho mai capito che cosa fosse. La ricerca della felicità non è inclusa nell'esercizio delle proprie libertà? E soprattutto, a quale prezzo va ricercata? Quanto vale la felicità? Quanto valgono pochi attimi di estatica realizzazione umana? Perché sì, noi trascorriamo tutta la vita a inseguire queste impertinenti scintille, questi ipnotici fuochi fatui e alla fine la felicità non consiste in altro che in pochi istanti di assaggio del nettare olimpico. Penso che l'errore più grande in cui cadono quelli che si aggrappano all'oro sia pensare che la ricchezza possa essere eterna, oltre che eternamente incrementabile. Oh no, le monete scivolano via come olio, e voi come tutti avete solo due mani con cinque dita ciascuna! La felicità vera non è come la serenità, che invece ha la sorridente e duratura calma del mare in bonaccia. La serenità è il cielo stellato, la felicità è il passaggio di una cometa, e la saggezza sta nel riconoscere che innanzitutto per acchiappare quest'ultima con lo sguardo bisogna prima fermarsi a fissare la volta celeste e soprattutto che è inutile e vano e quasi fuorviante innalzarsi su scale chilometriche per tentare di toccarla: per godersela davvero basta semplicemente trovare la posizione giusta a terra.