giovedì 27 marzo 2014

Sic transit gloria mundi

Dov'è silenzio e tenebre / la gloria che passò.                           (A. Manzoni, Il cinque maggio)
Così passa la gloria del mondo. Sembra l'avvertimento che potrebbe dare un padre al proprio figlio davanti ad un errore altrui; sembra la constatazione che potrebbe fare un anziano a lungo provato dai travagli di una vita; sembra la domanda che potrebbe porre un bambino incredulo dopo aver ingoiato uno Zanichelli, per dire. Manzoni scrive quelle parole a proposito di Napoleone e delle sue imprese che nell'altro mondo sarebbero state stimate meno di nulla, ma non si limita a parlare di silenzio, ovvero di muta indifferenza, ma parla anche di tenebre: tenebrosa è in effetti la sorte dell'uomo, tenebrosi sono i mondi a cui potrebbe accedere dopo essere andato a Patrasso, ma tenebrosa è anche l'idea che tante epiche gesta non abbiano più alcun valore, o peggio, possano ivi venir placidamente dimenticate come se fossero state cancellate con l'acqua del Lete.
In maggio muore anche il marchese protagonista di un'altra poesia, forse meno solenne dell'ode manzoniana ma non meno famosa: 'A livella di Antonio De Curtis, in arte semplicemente Totò. Con una spiccatissima ironia l'attore-poeta mette a confronto due figure: quella del pomposo marchese, le cui spoglie mortali giacciono in una tomba sovrastata da mille luci e fiori, e quella del povero netturbino, che invece riposa in un semplice loculo in cui è infissa una piccola croce di legno su cui si legge a malapena il nome dello sventurato defunto. Il nobile è indignato dal fatto di dover avere, durante il suo riposo eterno, un tale vicino di tomba, ma il serafico poveraccio risponde che la morte è, appunto, 'na livella: una falciatrice che non fa distinzioni fra l'uno e l'altro ed esegue il suo ambiguo compito di dispensare a tutta l'umanità l'unica cosa che davvero accomuna tutti gli individui. A proposito della morte falciatrice, Manzoni scrive nei Promessi Sposi:
Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.
Così come la peste non ha fatto differenze tra la piccola Cecilia e sua madre, la morte non si è curata di strappare alla terra l'anima di un nobile o di uno spazzino, l'anima di un eroe o di un pezzente. In una specie di bizzarra legge della giustizia, la morte coglie tutti e a tutti riserva la stessa, incerta, forse inospitale, sorte. E delle azioni terrene, cosa rimane? Rimane la Fama, rapida e talvolta menzognera ambasciatrice delle res gestae di coloro che, nel grande teatro della vita, scelsero di scrivere le battute e non di recitare. Ma (Petrarca docet) sulla Fama trionfa il Tempo, che, lento ma inesorabile, agisce come la pioggia che scava una montagna, goccia dopo goccia. Nell'aldilà, sempre che ce ne sia uno, a nulla vale morire da Napoleone o da Cecilia. Sulla Terra, invece, sarà serbato il ricordo il primo e non della seconda, ma il Tempo provvederà ad appianare anche queste divergenze, prima sminuendo, poi cancellando passo dopo passo ogni ricordo di ciò che fu dalla mente degli uomini. Quant'è triste, però, che ad una lama così implacabile debbano sottostare sia le meraviglie sia le brutture del mondo, e che per ogni muro abbattuto debba esserci un papiro bruciato! Ma si sa, la storia è ciclica, e nulla di nuovo può nascere se non affonda le radici nella polvere del suo predecessore.

giovedì 20 marzo 2014

Quod non fecit tempus, fecerunt homines...

Due sere fa ho visto The Monuments Men. Devo ammettere che è stato un bel film, anche se, dato il tema trattato, avrebbe potuto essere un capolavoro. Si sa, agli americani piace inserire patriottismi gratuiti e dipingersi come gli eroi imperituri, i buoni della situazione (lungi dal voler apologizzare il nazismo, dico semplicemente che la guerra è solo una scacchiera di atrocità) e nemmeno la fugace menzione dell'abbazia di Montecassino distrutta proprio dalle forze alleate basta a riequilibrare la bilancia. Il complesso monastico fondato da San Benedetto appare per pochissimi istanti nella parte iniziale del film, ma per la mia sensibilità è già troppo: due sole foto, scattate rispettivamente prima e dopo il terribile bombardamento del '44, testimoniano il disastroso stato in cui era stata ridotta l'abbazia, che era sopravvissuta a secoli e secoli di storia per trovare infine la morte nella guerra più sanguinosa che l'umanità avesse mai vissuto. Sempre all'inizio del film vengono mostrate le barricate erette dai milanesi nell'agosto del '43 per tentare un'ultima, disperata difesa dell'Ultima Cena di Leonardo; alla fine, invece, il Ritratto di giovane uomo di Raffaello viene inserito fra i dipinti ancora dispersi. La scena risulta però particolarmente amara perché lo spettatore aveva visto lo stesso quadro precedentemente dato alle fiamme insieme a centinaia di altri capolavori dai nazisti in fuga davanti all'avanzata incontrollabile degli Alleati. È una scena che mi ha fatto versare qualche lacrima, lo ammetto. Pur non avendo l'animo particolarmente tenero, questo, per dirla alla virgiliana, inflexit sensus animumque labantem impulit. Semplicemente perché non riesco a concepire come ciò sia potuto veramente accadere. È fuori dalla mia portata, dalla mia comprensione, da tutto quello a cui la mia mente può arrivare. Riesco ad accettare che monumenti e opere d'arte siano andati distrutti, per esempio, a causa del trascorrere dei secoli, oppure per tragici incidenti, oppure perché, semplicemente, nelle guerre del passato non esisteva il concetto di "tutela del patrimonio artistico": esisteva il presente, e il presente doveva essere distrutto. Riesco ad accettare che perfino la più alta espressione dell'umanità possa essere sconfitta da una forza ancora più potente quale è la natura, ma che qualcuno cancelli volontariamente e per sempre la nobiltà dell'animo fattasi concretezza... no, non ce la faccio. O forse non voglio farcela. Penso (anche) ai Fori Romani che avevano resistito perfino alle micidiali scorrerie dei barbari e che invece furono sfruttati a tradimento come cave di marmo dai papi, che non furono dissuasi nemmeno dalle accorate suppliche di artisti del calibro di Michelangelo e Raffaello. E soprattutto penso al fatto che quei tempi non torneranno più: l'arte classica è stata la vetta più alta mai raggiunta dall'umanità, che ha sì conosciuto altri picchi, ma mai di una tale grandezza. E data la china verso cui sembriamo essere destinati ad avviarci, salvare il passato è l'unica cosa che ci rimane da fare per vivere un futuro che sia più dignitoso possibile.
Per la cronaca, il Ritratto di giovane uomo di Raffaello fu davvero visto per l'ultima volta nel 1945, alla fine della guerra, e poi se ne persero le tracce. Nel 2012 le autorità polacche diffusero la notizia di averlo ritrovato nel caveau di una banca di una località sconosciuta. A loro dire, l'opera è sopravvissuta e attende di essere riscoperta da qualche parte nel mondo; in casi come questi, ci resta solo da sperare che un altro tassello di perfezione non sia andato perduto per sempre.

giovedì 13 marzo 2014

De beatitudine familiae

«Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è disgraziata a modo suo.» (Lev Tolstoj, Anna Karenina) 
Ho letto il capolavoro di Tolstoj esattamente un anno fa e mi piacerebbe dire che ci ho impiegato tre mesi per godermelo appieno, ma in realtà ero impegnata con la scuola e perciò, mi duole ammetterlo, avevo poco tempo da riservare alla lettura. L'incipit del libro è tra i più celebri e i più incisivi della letteratura: non ha la poesia di Nel mezzo del cammin di nostra vita, non ha la deliziosa vezzosità di It is a truth universally acknowledged, non ha l'epicità senza tempo di Arma virumque cano, non ha l'ardente dannazione di Lolita, light of my life, fire of my loins ma ha lo scomodo potere di colpirti come un dardo avvelenato, perché semplicemente tutti, in modo o nell'altro, hanno avuto o hanno ancora una famiglia. Tolstoj inizia il suo libro conficcando un ago nel cuore del lettore: parlando cioè della famiglia, ma parlando anche (e, continuando a leggere, sarebbe forse meglio dire "soprattutto") del suo lato oscuro. La famiglia è, per antonomasia, una riproduzione in scala del paradiso terrestre, un luogo in cui ci si sente amati, un nido caldo e accogliente in cui tutti ti capiscono, ti accettano e ti adorano per come sei. Inutile dire che, per molti, così non è. Mi piace immaginare che la maggior parte dei lettori si sia ritrovata totalmente spiazzata dall'incipit e si sia fermata a riflettere sulla condizione della propria famiglia e sui requisiti necessari per definirla infelice. Quand'è che, esattamente, una famiglia è infelice, disgraziata, disagiata? È necessario che viva sotto i ponti o che non arrivi a fine mese? È necessaria almeno qualche percossa, qualche insulto, qualche tradimento o separazione in più? Qual è la soglia da oltrepassare per entrare nel triste novero delle famiglie infelici? Tolstoj sembra dividere il mondo in due categorie, seguendo una classificazione che più basilare non si può, ma non lo fa in maniera rigida e schematica: lo fa come se stesse parlando di qualcosa di naturale, come di donne e uomini. È come se dicesse che un uomo non può capire cosa significhi provare i dolori del travaglio e del parto non per propria colpa, semplicemente perché è nato uomo e né lui né le donne possono farci niente. Tolstoj non si profonde in un velato j'accuse, si limita a descrivere i fatti con un lieve senso d'impotenza misto a rassegnazione, come un bambino che guarda sognante un negozio di caramelle ma che sa che, per un motivo o per l'altro, entrambi indipendenti da lui, non potrà mai entrarci. La prima volta che ho letto l'incipit mi sono figurata un codazzo di luminose famiglie sorridenti con prole degne della migliore propaganda d'era vittoriana e uno sparuto gruppetto di persone dai volti scuri, unite fra loro da meri legami di sangue, sprezzanti del mondo e da esso emancipate, che si dirigevano ciascuna in direzioni diverse. Ci sono tanti modi di peccare ma uno solo di essere santi, sembra dirci l'autore. Ma i confini ben definiti non mi sono mai stati congeniali e fatico a credere che il nostro complicato universo possa essere ingabbiato in due singole definizioni; può darsi che l'autore, quando ha scritto delle famiglie felici, non pensasse realmente ad un idillio dal retrogusto bucolico, ma più semplicemente ad una realtà fatta di piccole cose, in cui sono piccoli anche i peccati, che di conseguenza si accontentano di un perdono di minor sforzo. I protagonisti del romanzo, invece, hanno a che fare con le menzogne, l'odio, il rifiuto, la vendetta e, primo fra tutti, il tradimento, il peccato che Dante relegò nell'infimo stadio dell'Inferno. Anna, la donna attorno alla quale ruota tutta la vicenda, tradisce il marito, sposato controvoglia anni addietro per motivi di pura natura economico-sociale e, folle d'amore, di vergogna e di rabbia, si suicida: ha anteposto il suo bene alla reputazione della famiglia, non reprimendo i suoi sentimenti e, per dirla poeticamente, non pensando alle sorti del marito e del figlio. Anna, insomma, ha pensato a sé. Grosso, grosso errore. In una famiglia gli errori e le relative conseguenza ricadono automaticamente sul resto del gruppo, come in una specie di ultimo baluardo di una società dei tempi antichi. In una famiglia non si pensa a sé, ma al bene degli altri, anche se questo comporta, nei casi peggiori, sacrificare la propria individualità. Forse si può biasimare Anna per non aver pensato al marito che, volente o nolente, le era toccato in sorte, e al figlio, che comunque amava davvero: ma come la si può biasimare per aver, almeno una volta, preso le redini della propria vita? Uno dei contrasti più evidenti è dunque quello fra collettività e individuo, fra famiglia e singolo, fra un gruppo in cui ognuno deve svolgere un ruolo preciso per tenere in piedi la società e la spinta individualista del proprio animo. Il mondo, per restare in piedi, chiede un sacrificio ad ognuno di noi: rispettare i ruoli imposti. Anna se ne libera e diventa un'eroina, ma cosa sarebbe successo se, invece, tutti avessero sempre fatto come lei? La sofferenza, il dolore, il rimorso, il rimpianto esistono in ogni famiglia: la differenza tra una felice e una infelice, forse, sta nella capacità di dissimulare.

giovedì 6 marzo 2014

De bello stultorum

Se c'è una cosa che mi è sempre piaciuta dell'Internet sono le citazioni sugli stupidi, che fioccano come i congiuntivi errati nella casa del Grande Fratello e offrono all'utente medio un'occasione d'oro per dare sfogo alla propria vena da radical chic. Gli stupidi non hanno nome, sesso, nazionalità, etnia, religione: gli stupidi sono una categoria dell'umanità in cui tutti, almeno una volta, si sono imbattuti. Gli stupidi sono tali e tanti perché per ciascuno la stupidità ha caratteristiche differenti, cosicché ognuno ha i suoi nemici personali da annichilire. Ma diffondere citazioni che parlano degli stupidi, ovviamente disprezzandoli, significa certo non inserire sé stessi in quella cricca di reietti dell'umanità: tuttavia una di queste citazioni, la mia preferita, dice che gli stupidi non sanno di esserlo. Risulta dunque chiaro che fra tutti coloro che si considerano emancipati da tale abietta condizione umana si nascondono gli stupidi stessi, sempre ammesso che questo genere d'esseri dai contorni così sfumati ma dal carattere così marcato... esista davvero. Nessuno di noi, ovviamente, si considererebbe stupido. Abbiamo una tale stima di noi stessi da inserirci automaticamente nella classe dei migliori (se dico "italiano medio" come minimo rischio di incrociare gli sguardi di gente che sta per ficcarsi due dita in gola), di quelli che hanno già capito tutto e che purtroppo devono soffrire la presenza di certi beceri individui che sono capaci di rovinare questo pianeta semplicemente esistendo. Oh, avanti, chi non ha mai maledetto in vita sua il suffragio universale evitando accuratamente di menzionare soluzioni alternative, oppure avanzando proposte che non stavano né in cielo né in terra? Nessuno, credo. Ma suppongo che in pochi abbiano provato a mettersi nei panni dell'altro, a scambiarsi i ruoli, a cercare di capire come una determinata cosa potesse apparire agli occhi di qualcuno che al riguardo ha un'opinione diversa dalla propria. In un mondo in cui non esiste la verità assoluta, avanza incontrastato il relativismo e Internet livella tutte le campane, è ancora giusto parlare di torto o ragione e non di opinioni contrastanti e basta? È vero, esiste la verità oggettiva, e se qualcuno la nega allora è oggettivamente stupido: cosa pensereste di uno che nega che il cielo sia blu? Che è stupido. Cosa pensereste di più persone che pensano che il cielo non sia blu? Che sono stupidi anche loro. Ma ora provate ad immaginare che l'oggettività e il comune pensiero del vostro tempo preveda che sia il Sole a girare attorno alla Terra e poi arrivino uno o più tizi a dire il contrario. Avreste pensato che fossero loro ad essere gli stupidi, eh?
C'è chi ha detto che la stupidità è la culla della cattiveria, chi ha ironizzato sulla sua opprimente ed universale presenza, chi l'ha liquidata non aria di sufficienza. Nessuno, tuttavia, si esime dal dire la sua. Credo che implicitamente ognuno di noi senta l'istintivo bisogno di rimarcare la differenza tra sé e gli individui "stupidi", o meglio, fra sé e la fazione avversaria, rispolverando una specie di atavica concezione della civiltà che si oppone alla barbarie, una sorta di Grecia contro Persia del futuro. Dimenticando però che i Persiani non erano barbari, erano semplicemente diversi.

N.B. Come ogni regola, anche questa ha la sua eccezione: quanto detto prima non si accorda infatti con la persona che risponde al nome di Flavia Vento. Quella è stupida e basta.