giovedì 18 dicembre 2014

Vis grata puellae

Temo che tutte le donne apprezzino la crudeltà, la crudeltà pura, più di qualsiasi altra cosa. I loro istinti sono meravigliosamente primitivi. Le abbiamo emancipate, ma esse rimangono sempre schiave in cerca di un padrone. Amano essere dominate.                                                                                                                                                  (Oscar Wilde)
Come sapete, in quanto amministratrice di una pagina contro il femminismo e scrittrice di diversi articoli al riguardo, il tema della parità dei sessi mi sta particolarmente a cuore. Così, la scoperta quasi simultanea dell'esistenza di questa citazione di quel figlio di... un dandy di Oscar Wilde e di questa foto pubblicata sulla pagina ufficiale delle WAF mi hanno lasciato di stucco a pari merito: ammetto candidamente che la mia prima reazione ad entrambe è stata una faccia da "wtf" seguita da un "però niente droga contraffatta la prossima volta" (per quanto riguarda l'immagine, poi, c'è stato un fugace attimo di sconforto nel leggere che la sua autrice era cristiana come me - "oh no, non di nuovo"), poi però ho fatto scorrere un po' i commenti e ne ho trovato uno decisamente interessante, scritto da un ragazzo che ha fatto notare come effettivamente le donne cerchino qualcuno di "superiore" a loro sia fisicamente (età, altezza, forza) sia caratterialmente (spirito di iniziativa, maturità) sia socialmente (ricchezza, status sociale). E francamente non penso che ci sia bisogno di riflettere molto per capire che è vero: la stragrande maggioranza dei fidanzati delle mie amiche è effettivamente così, ma non per questo tiranneggia deliberatamente le proprie compagne, anzi, a me pare che entrambi vivano sereni e quindi non vi sia alcuna effettiva subordinazione femminile; sappiamo che è praticamente impossibile essere uguali e pari in tutti i campi, al contrario di quanto vorrebbero alcuni, ed ecco dunque che ci si divide i compiti ciascuno secondo le proprie capacità, e non so se è per legge di natura o per evoluzione di società che a uomini e donne riescono in massima parte cose diverse fra loro e pure complementari, cose che oggi par brutto nominare in relazione quasi esclusiva all'uno o all'altro sesso ma sancite implicitamente in un tempo immemore ed ancestrale nel tacito e vitale patto per la sopravvivenza. S'impara in terza elementare che le genti del Paleolitico avevano usi semplici, sapete, uomini a caccia fuori dalla caverna e donne a ravvivare il fuoco e a praticare con l'erbe e a curar pargoletti, mica se ne fregavano qualcosa di femminismo, di maschilismo, di parità dei sessi o di qualcosa del genere, è che poveretti, non ne erano in grado... non ancora, perlomeno. Non è che agli uomini o alle donne interessasse davvero sottomettere la controparte o relegarla nel ruolo opposto al proprio, volevano semplicemente giocare di squadra e far campare la propria prole: natura ha assegnato agli uomini maggior forza fisica e alle donne gravidanza e allattamento e quindi istinto genitoriale più forte, perciò vien da sé che ad ognuno spettassero compiti diversi. Poi, però, il tempo ha continuato a scorrere e le cose son cambiate, sono nate prima gerarchie e poi città, insomma: all'istinto si è unita la razionalità. Che non è ad esso subentrata, attenzione, altrimenti non staremmo qui a parlare: la ragione è servita ad incanalare l'istinto nei neonati canoni della civiltà. La ragione ci ha trasformato da bestie a umani. Così, dunque, sono sorte le colonne d'Ercole che hanno relegato la donna dentro e l'uomo fuori dalla casa, che non si sono curate delle differenti attitudini del singolo individuo e ne hanno pianificato la vita prima in funzione del proprio ceto sociale e poi in funzione del proprio sesso, che hanno sancito la superiorità dell'uomo prima in base alla propria forza fisica e poi in virtù di una supposta superiorità intellettiva (uomo come unico portatore di logos, in atavica contrapposizione all'istinto materno, che di pensieri e sillogismi bisogno di certo non aveva), che hanno esautorato la donna dal ruolo di magica dea madre e misteriosa datrice di vita fino a renderla un mero ricettacolo del seme maschile quando ci si è accorti che anche l'uomo contribuiva alla procreazione. Insomma, la parabola discendente della figura femminile non ha avuto origine da un complotto dell'altro sesso, è stato più o meno il prodotto di una sequela di eventi "sfortunati", come del resto accade per tutti i fatti della Storia. E oggi? Oggi è diverso, perché alla forza bruta si è sostituita quasi per intero la diplomazia e lo sfruttamento dell'intelletto (per chi ce l'ha, s'intende), quindi una parità dei sessi non è solo moralmente doverosa, è anche naturalmente derivante dalle evoluzioni della società. Trionfa la razionalità, dunque, ma l'istinto non scompare, e a tal proposito vorrei citare, forse impropriamente, lo straordinario successo tenuto dalla trilogia delle "Cinquanta sfumature" di tale E. L. James, che come sappiamo è sostanzialmente la saga di Twilight con i nomi dei personaggi cambiati e il vampirismo sostituito col sadomaso. Il protagonista, Christian Grey, è noto al mondo per essere bello, ricco ("Anastasia, io guadagno circa centomila dollari all'ora" è la sua frase cult) e amante di pratiche sessuali... diciamo di nicchia, che comprendono sculacciate, frustate e altra roba che non sto qui a spiegare perché, come Anastasia, potete erudirvi su Wikipedia. O un sito porno qualunque, tanto è lo stesso. Insomma, fatto sta che 'sto tizio ha riscosso un successo stratosferico fra le donne di tutto il mondo e chiedersi il perché è effettivamente la cosa più naturale che si possa fare, dato che la caratterizzazione fornitagli dalla sua autrice (sempre che lo si consideri un personaggio letterario e non una figurina di carta ritagliata da un libro dell'asilo) non lo rende, a conti ben fatti, il più desiderabile fra gli uomini. Sì, è bello e ricco come i divi di Hollywood con i cui poster avevate tappezzato la cameretta a dodici anni, ma è un po' rompiscatole. Un po' ossessivo. Un po', per usare le sue stesse parole, "maniaco del controllo" (sì, esatto, come vostra madre quando si assicurava che il sabato sera non andaste a ubriacarvi). Tuttavia, è proprio questo a renderlo estremamente attraente agli occhi delle sue adoratrici: Grey è uno stereotipo vivente, ma è l'incarnato del maschio alfa, l'epitome della virilità, il macho degli Harmony degli anni 80 che ha scambiato i suoi sproporzionati bicipiti guizzanti da copertina per un posto da amministratore delegato in giacca e cravatta e si è fatto volitivo uomo del Duemila. Grey domina le sue donne nella maniera meno metaforica possibile e tutte le donne gli sbavano dietro. Donzelle masochiste, dunque? Infamanti ritrattatrici delle conquiste femministe del Novecento? Vergogna del genere femminile? Niente di tutto ciò, credo. Per quanto trovi inutile sprecare anche solo una singola goccia della mia bile per odiare visceralmente il Ken de noantri, non sono affatto convinta che le fans del belloccio metallizzato di Seattle rinuncerebbero volentieri al diritto di voto o all'usufrutto di contraccettivi o, ancora, abbiano qualcosa a che spartire con le loro antenate: se a dar loro ordini nella stessa maniera fosse stato il padre o il datore di lavoro, giù di lagne su Tumblr; questo, però, è l'infido terreno di Afrodite e del di lei divin fagotto pannoluto Eros, l'Amore, sì, ma l'amore erotico, irrazionale, non l'Agape. È il campo dell'istinto che porta la fimmina ad aspirare al leone con la criniera più figa, e anche se razionalità dice che il compagno migliore sia quello con cui si condividono i lavori di casa e la cura dei figli eccetera eccetera... quando valuti un maschio come papabile compagno di vita, a primo acchito usi il sesto senso. E se il sesto senso continua a spingerti verso di lui a dispetto di tutto (il "tutto" spazia da "ha un carattere di merda" a "amò dopo la laurea sto sotto i ponti"), purtroppo - o per fortuna, dipende dai casi - non c'è storia. L'erotismo è una passione, è la passione, è quanto di più inafferrabile e inspiegabile possa esistere - non per niente gli epicurei consigliavano di starne alla larga - e suo fedele famiglio è l'istinto, che a quanto sembrerebbe nelle donne conduce davvero ad un desiderio di sottomissione. Wilde era in un certo senso nel giusto, dunque, ma ricordiamoci che parlava solo di una delle eliche del nostro DNA, la più primitiva: la ragione la sovrasta e ha il potere di dominarla ma non di annullarla. Come già detto, è mia opinione che nella maggior parte dei casi si preferisca inconsciamente la via della diplomazia e che dunque la "sottomissione" si traduca in termini pratici in una versione decisamente più light di se stessa, come quella enunciata dal commento analizzato all'inizio. La vis del titolo dell'articolo, in linea di massima, non è cosa positiva, ma ad onor del vero devo dire che essa è una delle parola chiave di un concetto estrapolato dall'Ars amandi di Ovidio, classe 43 a.C., che per la cronaca non è il vademecum delle verginelle ma è più simile all'almanacco delle immoralità (in amore, come in guerra, tutto è lecito) e, uhm, diciamo che è da audaci, o presuntuosi, farne uso: se una donna ti dice no, nella maggior parte dei casi vuol dire no, ma esiste anche l'opzione "mi faccio desiderare" se la corte risulta gradita ma la donna non vuol dar l'idea di cedere subito (ai tempi non lo si faceva perché era considerato sconveniente per una donna avere parte attiva nel gioco amoroso, sebbene il caro Naso lasci intendere non troppo velatamente che alla fin fine non importa chi fa cosa purché si trombi, ora invece è più un vezzo o una prova d'amore livello base). La soluzione? È sempre una sola: in medio stat virtus. Se vuoi ribattere al primo "no" della donzella fallo pure, se vuoi ribattere al suo dodicesimo "no" comincia a procurarti una panoplia. Sai com'è, per l'autodifesa.

sabato 6 dicembre 2014

Eum interfecerunt: dixit: ignosco

Humanum amare est, humanum autem ignoscere.                                                                (Mercator, Plauto)
Mi è recentemente riaffiorata alla memoria, complice anche un progetto organizzato dal mio insegnante di storia, la triste, disumana vicenda di Elisa Springer, che risulta priva di originalità e spessore solo se messa a confronto con le centinaia di storie simili vissute da chi ha condiviso il suo atroce destino: quello di deportata in un campo di sterminio della Seconda Guerra Mondiale. Elisa però ha avuto anche la smisurata fortuna di riuscire a sopravvivere, anche se, una volta conclusasi questa devastante parabola emotiva, ha preferito trincerarsi nel silenzio e lasciar scorrere la vita come l'aveva conosciuta prima dell'orrore, nascondendo il numero tatuato sul polso con un cerotto e stabilendosi in quella che attualmente è la mia città. Solo quando il suo unico figlio ha compiuto ormai i vent'anni e le ha chiesto spiegazioni ella ha trovato il coraggio di narrare l'indescrivibile prima a lui e poi al grande pubblico, tenendo la sua prima conferenza proprio nella mia scuola media; scuola media che oggi, per via di un progetto di giornalismo a cui ha partecipato mio fratello, ha riesumato alcuni dei suoi reperti digitali, fra cui il video dell'intervista ad Elisa. L'Elisa del video è una donna anziana che parrebbe non aver nulla di dissimile dalle vecchiette che calcano quotidianamente le strade del paese, ma i segreti, si sa, non lasciano tracce, si celano insidiosi e meditabondi nei solchi del viso, salvo poi riemergere dalle proprie ceneri compresse ed espandersi nell'aria come gas velenosi: la donna trova la forza di tornare ad Auschwitz nel 1995 e, come comprensibilmente previsto, viene annichilita dal vuoto che la circonda, lì dove prima c'era l'asfissiante tanfo del male fatto persona, della carne umana putrescente delle vittime e soprattutto dello spirito in decomposizione degli aguzzini. La Springer, tuttavia, nel video mostrato a scuola e girato non molti anni prima che io venissi a studiare lì, all'insolente, scontata e indiscreta domanda "ha perdonato?" risponde che lei ha perdonato per quanto era possibile, che il resto, la parte importante, era giurisdizione divina: insomma, non è a lei che devono rendere conto i carnefici, dice, ma alla Giustizia superiore. Elisa si ritiene miracolata per essere sfuggita più volte alla Morte, dopo essere stata avvicinata da lei suadente ed essere stata accarezzata dalle sue lunghe unghie aguzze, ma quello che mi ha interessato più di tutto è stato proprio il fugace accenno al perdono. Perdono. Per-donare. In latino la particella per ha valore intensivo o indicante compimento. Donare tutto con tutto se stesso, o qualcosa del genere. Ma perdonare è già atto nobile in contesti di vita quotidiana, e quindi come si può perdonare chi ha compiuto bestialità di tal fatta? Sarebbe già miracoloso non provare verso di loro un odio intransigente, già magnanimo ignorarli con stoica forza d'animo, ma perdonarli, oh signori, chi ce la fa? E poi non si rischierebbe di offendere perfino la memoria delle vittime accordando tale beneficio agli sterminatori, che umane fattezze avevano meramente usurpato? La risposta, messeri e madame, m'è semplicemente ignota. La Springer in quel campo maledetto ha riscoperto Dio, altri come lei, fra cui Primo Levi, l'hanno smarrito una volta per tutte, e io ammetto hic et nunc che non so se la mia fede sarebbe riuscita a rimanere salda anche in quel dove e in quel quando. Non lo so. Non so se in un futuro più o meno lontano sarei mai riuscita a spendere una parola non dico buona, ma almeno non d'accusa, per... coloro che stavano dall'altra parte. Come... come si fa? Errare è umano, perdonare è divino, diceva Pope. Ma se perdonare è divino... lasciamo a Lui quest'incombenza molesta, no? No, non possiamo. Perché siamo tutti chiamati ad essere santi ed eroi, e siamo chiamati ad esserlo perché possiamo esserlo: non intendo solo dalla religione, ma dalla società in generale, siamo chiamati a fare gli dei pur non essendolo di natura ma in nome della nostra metamorfica facoltà di elevarci al loro livello o di degradarci a quello delle bestie. Perdonare davvero chi ha compiuto azioni di tale portata e non semplicemente scegliere di chiamare con tale nome il proprio ormai scemato rancore verso gli antichi nemici è tuttavia così difficile e così raro da trascendere il terreno e sfiorare il limite del sovrumano, ecco perché "divino". Plauto, però, la pensa in maniera opposta: perdonare è ancora più umano. E ha ragione anche lui, perché la vera e pura umanità si raggiunge quando avviene il distacco maggiore dalla propria elica ferina di DNA e ci si afferma parallelamente nell'esercizio delle virtù universali che di ultraterreno hanno tutto.
Il titolo dell'articolo è la traduzione latina di un verso della poesia X Agosto di Giovanni Pascoli, che in italiano recita "l'uccisero: disse: perdono": il riferimento è chiaramente quello all'assassinio del padre dell'autore, morto in circostanze misteriose trent'anni prima della stesura di questo famosissimo componimento. Non so se interpretare la parola "perdono" come una richiesta di assoluzione rivolta in extremis all'alto dei cieli o come l'ultimo, supremo atto di bontà dell'uomo verso il suo assassino, il cui nome è a noi rimasto ignoto, però mi piace pensare che il poeta abbia volutamente lasciato alla libera interpretazione del lettore questo piccolo enigma. Se si intende dunque tal parola come il più grande dei condoni, si ritorna comunque al punto di partenza: come si fa a perdonare chi ti ha fatto non solo del male, ma chi ha commesso nei tuoi confronti un torto di dimensioni incalcolabili? Dall'alto della mia presunzione, io che sono sicura nella mia tiepida casa, io che trovo tornando a sera cibo caldo e visi amici, dico che non so come, ma è possibile. Lo so perché sono forte dei miei processi d'astrazione mentale, ma anche e soprattutto perché è riuscito a farlo chi ha ricevuto quest'offesa immane, senza la cui testimonianza provata le mie inconsistenti teorie si dissolverebbero come fumo nel vento. Forse, chissà, ci si potrebbe appellare all'insanità mentale dei carnefici, perdonarli perché erano inconsci di quello che compivano, ma ahimé quant'è doloroso e incredibile scoprir che tali malefatte erano parto razionale di menti lucidamente abiette!
Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno.
Non sanno quello che fanno.
Quello che fanno.
Anche i soldati vicino alla croce si divertivano, e in ogni caso padroni di sé lo erano eccome. Sapevano di causare sofferenza: certo, tutto è relativo, loro vivevano nel loro tempo e avevano delle concezioni morali di base assolutamente diverse da quelle di un mio contemporaneo, ma anche i nazisti vivevano, più che nel loro tempo, nelle loro idee malsane, e anche per loro c'è dunque l'attenuante della relatività. Allora cosa si intende con quel "nesciunt quid faciant"? Possibile che non riuscissero proprio a immaginare nemmeno una minima parte del dolore causato? No, lo sapevano, e pure bene, e ne godevano perversamente e innaturalmente; forse, però, non sapevano il valore assoluto del peso dell'aria spostata dai movimenti delle loro mani barbare. Insomma, non avevano la minima idea di quanto le loro azioni rispondessero ad un criterio oggettivo: il criterio scientifico e morale dell'uguaglianza fra tutti gli uomini e della conseguente equivalenza delle loro pene. Se vogliamo buttarla sul piano mistico, ignoravano la piccolezza dei loro mantra da strapazzo di fronte all'infinita immensità del Creatore. O forse, ancora, volevano deliberatamente ignorarla, illudendosi di aver spodestato quest'ultimo almeno sul trono della terra calcabile. Oh, somma stoltezza, insolente perfino nei riguardi dei rigorosi e improvvisati codici di guerra, qui oltraggiosamente ed insopportabilmente violati! Loro sapevano quello che facevano in relazione a se stessi, ma non in relazione a ciò che c'è di più grande ed è insindacabile per palese assioma. E l'assioma da cosa è stabilito? Beh, prendete la parabola del servo senza pietà. Poi prendete la seguente affermazione: "Noi siamo tutti impastati di debolezze ed errori: perdonarci reciprocamente le nostre balordaggini è la prima legge di natura". Infine sappiate che la prima è tratta dal Vangelo, la seconda dagli scritti dell'illuminista Voltaire. Per quanto, in casi rari come quello di cui ho parlato sopra, la gravità del peccato di uno verso un altro renda possibile riconoscere un carnefice e una vittima, nessuno su questa terra può assurgere al ruolo di bene o male assoluto; siamo tutti potenziali vittime e carnefici verso qualunque fratello, e l'essere vittima di uno non mi impedisce di essere carnefice di un altro. E per bilanciare nuovamente l'ordine universale di fondo, ad un grande peccato deve necessariamente corrispondere un grande perdono, anche se incommensurabilmente sofferto. Al vuoto piace la materia compatta.

giovedì 13 novembre 2014

De pecunia et felicitate

Più fortunato, quando abbia benessere, può l'uno esser dell'altro; e niun felice.                                                                                                               (Medea, Euripide)
La Medea è la tragedia che la nostra scuola sta mettendo in scena, sia pure in una versione ridotta all'osso per questioni di tempo, al Tarentum Festival della prossima settimana: a dire il vero, il nostro copione dice "non esiste nessuno fra gli uomini che può dirsi felice: con la ricchezza può dirsi fortunato, ma felice no, mai" per ovvie questioni di comprensione al grande pubblico, ma la sostanza non cambia. Erano secoli che sognavo di trovare una frase che esprimesse al meglio la mia concezione del rapporto pecunia/felicità (stranamente, non riuscivo a dirla a parole mie, nonostante non implicasse chissà quali perifrasi o ragionamenti) ed eccola qui. Una delle massime più abusate dal popolo recita "i soldi non fanno la felicità", e ad essa i più disincantati, il cui numero cresce esponenzialmente di giorno in giorno, sono soliti ribattere con un sarcastico "come no!", alludendo non molto velatamente al vantaggio che comporterebbe il possedimento di ingenti ricchezze. Essere ricchi, beh, dev'essere bello, non lo metto in dubbio. Si potrebbero soddisfare in tempi brevi tutti i propri desideri, si eserciterebbe automaticamente sugli altri una certa qual dose di fascino, si sarebbe oggetto e non soggetto di invidia, si avrebbe il mondo ai propri piedi, insomma: calerebbero drasticamente le probabilità di avere rimpianti in punto di morte. Calerebbero, appunto, ma non si annullerebbero: aver fatto mille e mille viaggi o aver comprato mille e mille libri o mille e mille gioielli non mi assicurerebbe una sana quiete di coscienza prima del trapasso. Avrei esaudito tutte le mie volontà, sì, ma non sarei comunque sicura di aver vissuto una vita degna di questo nome: è da millenni che la filosofia insegna che bisogna badare a ciò che c'è all'interno di noi stessi e circondarsi di ninnoli come fanno i tiranni con gli adulatori aiuta a riempire il vuoto della propria casa, non quello del proprio cuore. La ricchezza porta avidità, e l'avidità moltiplica i bisogni innaturali del corpo, così come afferma giustamente Seneca nelle Lettere a Lucilio (questo è un concetto di cui, ancora una volta, hanno parlato in tanti - primo fra tutti, credo, Aristotele - ma piazzo quell'infame dell'Anneo perché questa era la versione dell'ultimo compito in classe):
Si accumuli nelle tue mani tutto ciò che molti ricchi avevano posseduto; la sorte ti spinga oltre il limite di ricchezza concesso ad un privato, ti ricopra di oro, ti vesta di porpora, ti spinga ad una tale soglia di delizie e ricchezze che tu possa ricoprire la terra di marmo: ti sia lecito non soltanto possedere ricchezze, ma calpestarle. Si aggiungano statue e dipinti e tutto ciò che le varie arti hanno creato per la soddisfazione della lussuria: da questi beni imparerai a desiderare solamente di più.
Come può dunque la ricchezza renderci davvero felici? È certo indispensabile che i bisogni necessari del corpo siano soddisfatti, ma quali sono allora i bisogni necessari? Sempre Seneca:
Allontanati, dunque, dalle vanità e quando vuoi sapere se ciò cui aspiri corrisponde a un desiderio cieco o naturale, considera se ha un termine; se dopo un lungo cammino rimane sempre una meta più avanzata, sappi che non è un desiderio naturale.
Un barbone che vive sotto i ponti può essere dunque pienamente felice? Beh, in genere non mi piace porre limiti alle umane capacità, ma stavolta azzardo un "sicuramente no" (a meno che non si tratti di qualche emulo del leggendario Diogene): è fondamentale comprendere che la felicità vera è uno stato dell'animo, ma la soddisfazione dei bisogni dell'animo viene per legge di natura dopo quella dei bisogni del corpo; insomma, a pancia piena si pensa decisamente meglio. Pancia piena e non strabordante, attenzione, ché poi i lipidi rischiano di danneggiare anche le sinapsi! Sarebbe bello se potessimo mangiare o bere per il solo piacere di farlo e non perché il corpo lo reclama e dedicarci invece per tutto il tempo alla realizzazione dello spirito, ma (almeno attualmente, non pongo limiti nemmeno al progresso) non è possibile e dobbiamo accontentarci: chi può, dunque, soddisfi fame e sete, se può le soddisfi anche nel modo che gli riesce più gradito, se gli è consentito faccia in modo che anche agli altri venga garantita questa possibilità, ma non offra allo stomaco più di quanto esso stesso chiede, perché altrimenti questo imparerà ad esigere sempre di più. Non si disprezzino a priori le cose della carne, ma le si vedano solo come i gradini più bassi (per i quali, diciamocela, non conviene assolutamente sprecare tutte le forze che in genere si impiegano per l'accumulo smodato di beni materiali) di una scala molto, molto più elevata: non si arriva in cima se non si sono calpestati i primi gradini, tuttavia, a ben guardare, può essere prerogativa di qualche anima magnifica riuscire a saltarli con un balzo solo. A noi, che sovrumani non siamo, conviene certo percorrere tutte le tappe del cursus honorum della felicità: anzi, è già tanto riuscire ad evitare di fare deviazioni intestardendosi C'è addirittura qualcuno che ha provato a spiegare la correlazione denaro/felicità in termini matematici: oh numi, che impresa improba! Easterlin ha notato che la felicità umana aumenta solo fino ad un certo punto e che poi comincia la decrescita: il punto di rottura non si avrà mica quando ci si accorge che, ammassando denaro, si accumulano anche le preoccupazioni, le ansie e i pensieri nefasti che impediscono lapalissianamente lo sbocciare della felicità? Penso che si tratti di qualcosa di simile al principio del "da un grande potere derivano grandi responsabilità": più influisci sulle vite degli altri (ebbene sì, la ricchezza porta a questo), meno sei padrone della tua. Altri ancora, poi, si sono spinti perfino ad istituzionalizzare la felicità: stavolta è il turno dei firmatari della Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti, in cui compare appunto il celebre diritto alla ricerca della felicità, che suona tanto poetico, specie se messo in un contesto così formale come quello della politica, ma alla fine io non ho mai capito che cosa fosse. La ricerca della felicità non è inclusa nell'esercizio delle proprie libertà? E soprattutto, a quale prezzo va ricercata? Quanto vale la felicità? Quanto valgono pochi attimi di estatica realizzazione umana? Perché sì, noi trascorriamo tutta la vita a inseguire queste impertinenti scintille, questi ipnotici fuochi fatui e alla fine la felicità non consiste in altro che in pochi istanti di assaggio del nettare olimpico. Penso che l'errore più grande in cui cadono quelli che si aggrappano all'oro sia pensare che la ricchezza possa essere eterna, oltre che eternamente incrementabile. Oh no, le monete scivolano via come olio, e voi come tutti avete solo due mani con cinque dita ciascuna! La felicità vera non è come la serenità, che invece ha la sorridente e duratura calma del mare in bonaccia. La serenità è il cielo stellato, la felicità è il passaggio di una cometa, e la saggezza sta nel riconoscere che innanzitutto per acchiappare quest'ultima con lo sguardo bisogna prima fermarsi a fissare la volta celeste e soprattutto che è inutile e vano e quasi fuorviante innalzarsi su scale chilometriche per tentare di toccarla: per godersela davvero basta semplicemente trovare la posizione giusta a terra.

giovedì 23 ottobre 2014

De rebellione et re publica

Povera Roma mia de travertino, / te sei vestita tutta de cartone / pe' fatte rimira' da 'n imbianchino / venuto da padrone!
Questi versi, scritti da un anonimo romano in occasione della visita di Hitler a Roma nel 1938, sono le più celebri e salaci ultime parole vergate su uno dei mitici foglietti che, nella storia dell'Urbe, hanno costellato la statua parlante di Pasquino. Questo era nell'antichità una semplice scultura di marmo, come tante ve n'erano a quei tempi, tuttavia nel corso della storia gli è capitato di assumere, suo malgrado, il gravoso ma catartico ruolo di portavoce del malcontento del popolo romano. Da altera statua raffigurante il glorioso re di Sparta Menelao (forse) e ornante il superbo Stadio di Domiziano a torso sfigurato e impietosamente mutilato piazzato in uno dei tanti crocicchi della futura capitale d'Italia a far da valvola di sfogo per le invettive del popolino: bello smacco, eh? Ma Pasquino, cosa mirabile a dirsi (soprattutto se a farlo è la sottoscritta), si è fieramente guadagnato a buon diritto un ruolo di primissimo piano nelle contorte vicende che hanno avviluppato la Roma papalina e forse, al relativamente modico prezzo di un non proprio felice stato di conservazione, ha ottenuto quello che magari non avrebbe ricavato da un'esposizione in un museo, circondato e messo in ombra da tanti suoi simili, molti dei quali più esteticamente soddisfacenti o più archeologicamente interessanti. Pasquino è l'emblema di quel quid di cui lo spirito latino si è sempre voracemente nutrito e, nonostante i papi fossero i primi a volersene sbarazzare per ragioni più che ovvie, quando Adriano VI fu davvero sul punto di gettarlo nel Tevere, fu dissuaso dal farlo proprio dai suoi cardinali, che vedevano nella possibile scomparsa dell'impertinente statua un attacco troppo audace alla congenita inclinazione alla satira del popolo romano. La satira! Satura quidem tota nostra est, denunciava orgoglioso Quintiliano nel I secolo d.C., rimarcando le origini esclusivamente italiche dell'invettiva pungente fatta letteratura: e di chi poteva essere figlia la satira, se non della città eterna e dei suoi tanto megalomani quanto veraci abitanti? Oh, suadente e strisciante serpe dai denti velenosi, benedetto e centellinato flusso acre della società, opposizione fioca e fatale, unico, eloquentissimo antidoto alla secolare corruzione del potere! Per capire chi vi comanda, basta scoprire chi non vi è permesso criticare, diceva una nota massima di Voltaire. E il papa, manco a dirlo... mica era possibile criticarlo, nossignore! Benedetto XIII, per esempio, emanò addirittura un editto che prevedeva pena di morte, confisca e infamia per chi si fosse reso colpevole di pasquinate e fece presidiare la statua da guardie scelte giorno e notte... per tutta risposta, i romani andarono ad appiccicare i loro fogliettini alle altre statue parlanti: Madama Lucrezia, Marforio, il Babuino, il Facchino e l'Abate Luigi. Tappò un buco e se ne formarono cento altri, insomma. Ma cos'altro avrebbe potuto fare il popolo? Una rivoluzione? Morto un papa se ne fa un altro, e poi come non ricordare a tal proposito l'aneddoto narrato da Valerio Massimo che vedeva protagonisti Dionigi, crudelissimo tiranno di Siracusa, e un'anonima vecchietta che, al contrario dei suoi concittadini, pregava affinché questo despota vivesse più a lungo possibile perché l'esperienza le aveva insegnato che alla sua morte ne sarebbe potuto arrivare uno perfino peggiore? Insomma, a meno che non vi sia qualche evento clamoroso o la proverbiale caduta dell'ultima goccia nel vaso già stracolmo a dar fuoco alle polveri, il popolo non prende le armi in mano: tuttavia, non può nemmeno restare a guardare e a subire passivamente, e la satira si presta in maniera eccellente a far da baionetta per le ragioni del volgo. La satira è probabilmente anche l'unica cosa che è rimasta anche ai nostri tempi moderni, o perlomeno qui in Italia, allo scopo, più che di denunciare i misfatti dei potenti, di sollevare un po' su il morale a noi cittadini lamentosi, anche se ammetto che davvero in politica siamo disastrati e non ci resta che piangere e mi vergogno quasi a dirlo ma ringrazio il cielo di non essere ancora maggiorenne per non dovermi ancora accollare il diritto/dovere del voto perché, lo dico col cuore in mano, non saprei a chi dare la mia preferenza. Ho tentato di interessarmi di politica: non è il mio campo d'interesse, ma ci sto provando comunque, perché so che è mio diritto e mio dovere influire, seppur in minima parte, sulle scelte prese dalla classe dirigente del mio Paese nel mio Paese, il problema è che... il quadro generale è, nel migliore dei casi, desolante, o meglio ancora, in uno stato indescrivibile a metà tra lo spiazzante e il disarmante. Là dentro c'è gente che ha a malapena i requisiti necessari per conseguire la terza media, che crede a idiozie complottiste, che avanza proposte oscene (improvvisamente la nomina del cavallo Incitatus a senatore da parte di Caligola parrebbe quasi un atto assennato e magari pure pietoso nei confronti della massima istituzione dello Stato) che sarebbero state ritenute obsolete pure nell'Età del Ferro e blatera idiozie razziste e manipola tutto ciò che c'è da manipolare e non si sforza nemmeno di assumere le parvenze di persona non dico competente ma almeno normale, sana di mente (il fatto che gente che pensa che lo sbarco sulla Luna sia un'invenzione della NASA o di chissà chi altro appoggi le sue rosee e villose natiche sugli scranni parlamentari mi disgusta assai). Non oso dunque pretendere che il politico spicchi fra la massa per le sue qualità superiori, chiedo solo che almeno si confonda in essa e non si metta alla berlina da solo per essersi rivelato un deficiente a tutto tondo, ecco, ché al massimo l'unica cosa buona che fa in questo caso è offrire ottimo materiale ai cabarettisti da villaggio vacanze per la settimana di Ferragosto. È che io non mi stupisco che oggi l'astensionismo alle votazioni sia salito alle stelle: sia chiaro, non lo giustifico, ma lo comprendo, perché credo che il ragionamento di fondo sia il seguente: "se proprio devo essere male governato, che almeno siano gli altri a scegliere di che morte devo morire". Eh, il problema è che certe morti sono più dolorose di altre ma il dolore è percepito da ognuno in maniera diversa, quindi una scelta s'ha da fare. Canta de Gregori in "La storia siamo noi":
E poi ti dicono "tutti sono uguali, tutti rubano nella stessa maniera" / ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera.
Ha ragione? Eh, sì. Anche quando tutto pare un'indistinta nebula grigia bisogna cercare di raccapezzarsi e non dare ascolto a chi ci dice di lasciar perdere a priori: se cadremo nella lotta, almeno sapremo di essere schiattati con onore. Il problema sta nel fatto che il potere corrompe tutto ciò con cui viene a contatto, come una specie di crudele alter ego del re Mida, e la natura umana, seppur buona in partenza, si abitua ben presto ai meccanismi arrugginiti che muovono il mondo e non trova quindi difficoltà a piegarsi ancora, una volta e per sempre, agli ingranaggi del comando: solo uomini dalla morale integerrima - e chi li trova più - potrebbero riuscire ad opporvisi, tentando di oliare i ferri incrostati, ma il loro successo è quotato uno a un miliardo: gli idealisti, infatti, o si trasformano in materialisti o vengono da questi ultimi fatti fuori. Tuttavia, dobbiamo sperare, sempre. La sera è arrivata già da un pezzo e noi non possiamo assolutamente trincerarci al di là dei nostri piccoli usci: usciamo, accendiamo torce e candele, non importa quanta luce faranno, accendiamole e basta, e se verranno spente dal vento o dal soffio di un nemico, chi se ne frega, accendiamole ancora finché non avremo esaurito tutto il combustibile, finché nella scatola di fiammiferi non sarà rimasto altro che un mucchietto di mozziconi bruciacchiati. Ne vale la pena? Oh beh, nessuna causa è persa finché c'è un solo folle a combattere per essa. E se i folli sono di più, le probabilità di vincere aumentano, anche se comunque il tutto resta un po' come il giocare alla lotteria: si rischia più o meno tanto, si perde spessissimo, ma diamine, se si vince è tutto guadagno.

sabato 18 ottobre 2014

Nox fraudium - Numquam postea Masada expugnabitur

Correva l'anno domini 1969 nella calda terra di Sicilia, che a dire il vero non doveva essere poi così calda nel tempo in cui si svolge la vicenda che andiamo a raccontare: un'anonima notte d'ottobre, per la precisione quella tra il 17 e il 18, e che effettivamente sarebbe rimasta tale se solo non fosse successo quello che è successo. Siamo nella bella Palermo e ci accingiamo a profanare coi nostri passi il sacro pomerio dell'Oratorio di San Lorenzo, che ora di mistico e sovrannaturale sembra avere soprattutto il silenzio. Tutto tace. Ma del resto è notte fonda, cosa mai potremmo aspettarci? Perfino il rumore delle gocce di pioggia che scalfiscono inesorabili l'esterno sembra essersi azzittito, o meglio, mescolato col mutismo assordante dell'interno per creare una pacifica atmosfera, il silenzio vivo e quieto che si distingue da quello inquietante e solenne dei cimiteri. Ma non siamo soli. O comunque non lo siamo stati nelle ultime ore, poco ma sicuro. Il portone dalla serratura cigolante è già semiaperto. Ci guardiamo intorno per capire quali siano gli altri elementi che stonano col nostro ultimo ricordo di quel luogo. Gli stucchi e i rilievi sono ancora lì, immobili, candidi, ieratici, sui muri e sul soffitto. Beh, non potrebbero muoversi nemmeno se lo volessero, e men che meno potrebbero comunque volerlo. Il lampadario pure: incombe benevolo su di noi con la sua lucida e familiare mole dorata. Ma allora cos'è che non va? È solo che... il lampadario non dovrebbe essere l'unica fonte di luce qui dentro. Ce ne dovrebbe essere un'altra, che risplende da secoli, non del fuoco di natura ma di quello che ha consumato l'intera esistenza di un animo tormentato. Un momento. Bianco. C'è bianco ovunque. Bianco dappertutto. Ce n'è troppo. C'è bianco anche dove non dovrebbe esserci. C'è un grande rettangolo bianco lì dove c'era il quadro... il quadro! Dov'è finito? La tela! Manca la tela!
È nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969, infatti, che viene rubato a Palermo il dipinto della Natività con i santi Francesco e Lorenzo, opera dell'indiscusso genio di Michelangelo Merisi da Caravaggio, realizzato durante il suo dibattutissimo soggiorno siciliano. I più videro subito nei mandanti del crimine la mafia siciliana, e in effetti una successiva dichiarazione di un pentito provò a fornire agli investigatori il luogo in cui sarebbe dovuto essere nascosto il quadro, luogo che però, esaminato da cima a fondo, non rivelò alcunché. Un'altra notizia arrivò nel 1980, quando un giornalista inglese dichiarò di aver avuto dei contatti con un mercante d'arte che gli propose la Natività. Forse sarebbe potuta essere un'occasione irripetibile per riappropriarsi del quadro: del resto, Rodolfo Siviero aveva usato quella stessa tattica -fingersi interessato ad un acquisto clandestino- per restituire alla patria uno dei tanti dipinti trafugati durante la seconda guerra mondiale. Ma l'incontro era stato fissato per il 23 novembre. In Irpinia. E nessuno, inutile dirlo, aveva fatto i conti con la beffarda catastrofe che proprio quel giorno avrebbe sconvolto la terra: l'incontro, perciò, non avvenne mai. Nel '92 un altro pentito dichiarò che il dipinto aveva svolto la funzione di simbolo di prestigio nelle riunioni mafiose; nel 2009, un altro pentito ancora rivelò che l'opera avrebbe fatto una fine raccapricciante: nascosta in una stalla, rosicchiata da topi e maiali e infine data pietosamente in pasto alle fiamme. Il comando dei carabinieri per la tutela del patrimonio culturale era stato creato, per un'ulteriore ironia della sorte, solo pochi mesi prima del misterioso quanto sconvolgente furto. E, leggendo quest'articolo, pare proprio che nessuno se ne sia dimenticato, anzi. Sembra che il Caravaggio perduto sia il motore primo che anima il lavoro dell'Arma.
Ma l'articolo di oggi ha due titoli. Perché? Beh, il primo si riferisce indubbiamente alla vicenda appena narrata (e spero che il termine "fraudium" sia stato abbastanza ambiguo da rievocare nella mente del lettore anche un'altra notte silenziosa e rocambolesca allo stesso tempo, ma stavolta solo letteraria). Il secondo, invece, è semplicemente la traduzione latina di un motto ebraico invero quivi poco conosciuto e riferito ad un aneddoto molto particolare, narrato dallo storico Giuseppe Flavio: la caduta della roccaforte di Masada in mano romana. Pare difatti che i figli di Marte, pur di stanare i 960 rifugiati della cittadina, abbiano costruito una babilonica rampa di accesso e che, a sforzo avvenuto, abbiano trionfalmente calpestato una terra sabbiosa ma già insanguinata e dunque messa definitivamente a tacere: stando alla leggenda (e a Giuseppe Flavio), infatti, gli assediati avevano preferito uccidersi l'un altro piuttosto che cadere in mano nemica. Oggi l'archeologia tende a ridimensionare notevolmente la portata dell'evento: pare che la rampa dei Romani fosse di un'altezza molto inferiore rispetto a quella conclamata e, soprattutto, che siano state trovate solo poche decine di cadaveri rispetto alle centinaia narrate da Flavio. Insomma, la storia annienta il mito.
Ma qual è l'anello di congiunzione fra le due vicende appena narrate? Bisogna sapere che il solenne giuramento delle milizie israeliane avviene ancora oggi al grido di "mai più Masada cadrà", parole che mi hanno inspiegabilmente ricordato una frase dell'articolo, riferita al quadro: "è l'opera che più vorremmo ritrovare. Non c'è carabiniere della Tutela Patrimonio Culturale che non la ricordi almeno una volta al giorno". In entrambi i casi, dunque, c'è un avvenimento triste e importante a motivare l'azione di due determinati gruppi che in comune hanno, forse, solo l'appartenenza alle forze armate dei rispettivi paesi. Non si tratta dunque di due effettive "prime volte", ma di due veri e propri punti di svolta. I furti d'arte e le capitolazioni di città assediate non erano certo realtà novelle rispetto ai tempi in cui si sono svolte le relative vicende, eppure questi due eventi hanno costituito, per i loro stessi protagonisti nel primo caso e per i posteri nel secondo, lo "scatto della molla". Un esempio vagamente simile potrebbe essere quello di un bambino che, seppure ripetutamente avvisato della pericolosità delle spine di un rosa, abbia deciso di toccarle ugualmente e ne sia stato conseguentemente ferito: il bambino, da quel momento in poi, non toccherà più le spine non solo perché gli è già stato detto più e più volte, ma perché ha sperimentato quanto possano essere dolorose le spine. Quello della capitale importanza dei fatti rispetto alle parole è un assioma che ci viene propinato quasi a cadenza quotidiana ma in pochi conoscono le reali motivazioni che si celano dietro tutto ciò: è, in sostanza, la stessa storia di chi pensa al burrone dopo essercisi affacciato o esservi precipitato e in seguito riuscito a risalire e chi sa che il burrone è profondo solo perché gliel'hanno detto gli altri. Non è detto che il secondo sia da biasimare a priori, anzi, può capitare che qualcuno che abbia vissuto di persona un determinato evento non abbia ancora imparato la lezione e rischi di ripetere candidamente la medesima esperienza mentre può anche accadere che vi sia chi non abbia bisogno di stare in una determinata situazione per percepirne le caratteristiche: tuttavia, in genere è dall'esperienza che nascono i miglioramenti. Oscar Wilde diceva che proprio l'esperienza non era altro che il nome che gli uomini davano ai propri errori: non concordo in toto col gentiluomo vittoriano data la mia profonda convinzione che anche i fatti positivi costituiscano un bagaglio di storia privata non indifferente (insomma, non c'è bisogno di essere stati bocciati ad un esame per poter dare consigli utili a chi si accinge ad affrontarlo), però è anche vero che sono in gran parte gli errori a costituire dei punti di svolta nelle nostre esistenze (ritorna dunque il tema dell'utilità del male: gli errori sono negativi per definizione ma da essi può nascere qualcosa di positivo). Per i greci il termine corretto per quella che noi chiamiamo esperienza era ἐμπειρία, ovvero prova interna, perché solo grazie ad essa il soggetto era in grado di saggiare la realtà: molti vi arrivavano con la πρᾶξις, i più sensibili e intuitivi con il λόγος, ma in fin dei conti l'importante era giungerci. Sì, gli errori sarebbero da evitare: ma, in mancanza di tale possibilità, non è forse meglio farsi beffe della Sorte dimostrandole che anche dai suoi tiri mancini si possono trar vantaggi?

giovedì 16 ottobre 2014

Amors

Quello di Évariste Galois è un nome praticamente sconosciuto alla maggioranza, nonostante la storia dell'uomo che l'ha portato si sarebbe rivelata a conti fatti più che degna di diventare una leggenda popolare. Il libro che ne narra la vita ha il meravigliosamente evocativo titolo di Tredici ore per l'immortalità, tuttavia è bene far notare che quella italiana non è la pedissequa traduzione del titolo inglese, che invece recita Whom the Gods love, ovvero Colui che gli dei amano, un chiaro riferimento alla mitica frase di Menandro che ha scavalcato i naturalmente elitari confini della classicità per andare a imprimersi nella coscienza collettiva: Ὃν οἱ θεοὶ φιλοῦσινἀποθνήσκει νέος, ovvero "muore giovane colui che è caro agli dei". E Galois morì davvero giovane: non aveva nemmeno ventun anni quando un proiettile gli perforò l'addome nel corso di un duello avvenuto, a quanto sembra, per salvare l'onore della donna amata (ci sono varie versioni al riguardo, ma nell'attesa di leggere il libro ho accolto, da brava e inguaribile romantica, quella più poetica). Ma Évariste, caso più unico che raro, ha saputo guadagnarsi la fama che gli era dovuta in un altro ben più insospettabile campo: quello matematico. A soli vent'anni è un genio dei numeri e, sebbene respinto per ben due volte all'esame di ammissione all'École polytechnique, ben lungi dall'arrendersi, manda i suoi lavori prima a Cauchy, che suggerisce di modificarli perché troppo somiglianti ad un lavoro di Abel, e poi a Fourier, che muore prima di vederne la versione rivisitata. Infine è la volta di Poisson, che li rifiuta adducendo come motivazione la scarsa chiarezza espositiva degli scritti e invita il giovane a rivederli da cima a fondo. Ma, come egli stesso dichiara negli appunti frettolosamente stilati prima dell'ora fatale, non ha tempo. Sa che morirà in quel duello, ne è assolutamente certo, ma al contempo, con quella scintilla di intima sensibilità tipica dei geni, è perfettamente consapevole anche della capitale importanza del proprio lavoro. E così, in sole tredici, ticchettanti, incipienti, impietose ore, prova a riordinare freneticamente le sudate carte: sembra quasi di vederlo, rinchiuso in un bugigattolo oscuro, forse maleodorante, saturo d'aria viziata, con la sola compagnia di un misero mozzicone di candela, in preda all'ansia, quasi al delirio, vergare senza posa, praticamente a memoria, le sue formule, le sue teorie, intingere furioso la penna nel calamaio, e scrivere scrivere scrivere, consapevole con una lucidità tremenda, disarmante, terribile e logicamente elementare che il giorno dopo non potrà più godere della vita. Ed Évariste, come previsto, spira nell'ultimo giorno di maggio del 1832, rivolgendo le sue ultime, strazianti e perfino romanzesche parole al fratello Alfred: «Non piangere! Ho bisogno di tutto il mio coraggio per morire a vent'anni». Giovane, geniale e morto per amore: se probabilmente si fosse dedicato agli studi letterari anziché a quelli matematici, la Storia avrebbe fatto di lui un eroe romantico a tutti gli effetti. Ammesso che la motivazione sentimentale sia quella vera, la domanda cruciale è: vale davvero morire per amore? Tempo fa, visitando il cimitero cittadino, mio nonno mi indicò la statua di un angelo posizionata ad uno dei crocicchi: all'inizio la ritenni solo un elemento decorativo, poi mi accorsi che, alla base, v'erano una foto incorniciata e un'incisione. Avvicinandomi, mi resi conto che la foto, in bianco e nero, rappresentava una fanciulla sorridente vestita alla moda della Belle Époque e che incisi nella pietra v'erano alcuni versi scritti in un italiano piuttosto aulico ma altrettanto comprensibile, sebbene non si potesse dire lo stesso del senso complessivo delle frasi. Solo quando mio nonno mi spiegò che la ragazza si era suicidata per una delusione d'amore riuscii ad intravedere il luccichio del filo trasparente che si attorcigliava languido attorno alle lettere dell'epitaffio e ne compresi a pieno il significato. Perché la statua di un angelo, infine? Facile, la ragazza si era lanciata dal campanile della chiesa di sant'Angelo del mio paese, non era riuscita a sopportare che il fidanzato l'avesse lasciata per un'altra. Annetta, si chiamava. Annetta non è nemmeno un nome vero e proprio, è un diminutivo fatto nome, Annetta sa d'eterna gioventù, di quel bocciolo roseo cristallizzatosi nel sangue su un terreno sacro quel giorno o quella notte di tanti decenni fa. Ma Annetta ha dato la sua vita per una causa di cui non sappiamo nulla, di cui non so nulla, tranne che aveva a che fare con un uomo che le aveva spezzato il cuore. Ignoro del tutto quali siano stati i vincoli reali che la legavano a quello sconosciuto di cui non mi è stato tramandato nemmeno il nome, so solo che per lui o per colpa sua ci ha rimesso la vita. Magari l'aveva tradita. O semplicemente si era stancato di lei. O forse, ancora, aveva trovato un partito migliore da sposare. O magari, semplicemente, non ne era innamorato a sua volta e l'aveva respinta. O l'aveva illusa per trarne un vantaggio personale. Chissà. Mi vengono meno le forze nel giudicare l'estremo gesto della ragazza, anzi, parlandone qui mi sembra quasi di profanarne la memoria e se c'è, ovunque sia, le chiedo perdono. Mi limito a constatare, spero il più innocentemente possibile, che forse, in un mondo perfettamente razionale... non ne sarebbe valsa la pena, ecco. Un uomo a cui di lei non importava a tal punto da amarla non meritava affatto che in suo nome venisse versato del sangue. Forse, prima dell'amore per l'altro, viene l'amore per sé stessi: penso che sia la chiave di volta che ci consente di rapportarci al prossimo in maniera sana in modo da rispettare onorevolmente ogni esistenza. Con "amore per sé stessi" non alludo all'egoismo, anzi, ma a quella vena di istinto di autoconservazione che nell'animo umano dovrebbe aver perso il suo carattere bestiale e assunto quella connotazione di candida semplicità e naturalezza che si prefigge l'obiettivo di farci vivere e vivere bene ma non a tutti i costi e soprattutto non necessariamente a discapito degli altri (è qui che interviene la ragione, del resto). Tuttavia, come non mi stancherò mai di ripetere, la sola e unica forza che governa il mondo è l'amor che move il sole e l'altre stelle, proprio perché l'amore in sé... è equilibrio. L'amore vero, a parer mio, è un miscuglio omogeneo di senno e follia, di ragione e sentimento, una somma di tanti, diversi, infiniti amori che danno (o dovrebbero dare) come risultato zero, altrimenti poi l'equazione si sbilancia. Anche quello di Galois, a pensarci bene, è stato un suicidio, forse perfino più terribile di quello di Annetta perché già preannunciato: in fondo, egli sapeva che sarebbe morto, anzi, magari aveva proposto egli stesso il duello per poi scoprire solo in seguito che ci avrebbe rimesso le penne sembra ombra di dubbio. Avrebbe potuto scappare, in quelle tredici ore, oppure passare il tempo a contemplare il cielo, il sole, la luna, la natura, un bel quadro, leggere un libro, stare con gli amici o i parenti, disperarsi per aver commesso il più grave errore della sua esistenza, darsi magari perfino alla fuga... e invece no. Galois sceglie la matematica. Sceglie sé stesso e l'umanità, contemporaneamente. Non ci è nota l'identità della sua amata, né quello che provasse per lui, ed è qui che si ingarbugliano i fili delle vicende che ci impediscono di avere un quadro chiaro della situazione e di formulare uno o più pensieri al riguardo: questo, signori miei, è terreno di congetture, le scienze esatte sono campo di Évariste. La parola del titolo, amors, a dirla tutta non è latino, anzi, non esiste e basta: una leggenda metropolitana vuole però che il termine amore derivi proprio da questo sedicente alfa privativo unito al sostantivo mors, la morte; senza morte, dunque. Un'etimologia fantasiosa, palesemente costruita ad hoc, ma non per questo meno affascinante, così come lo è l'indubbia assonanza tra i termini amor e mors, che anche grammaticalmente parlando sembrano essere legati a doppio filo. Quand'è, dunque, che finisce l'uno e inizia l'altra (intesa anche in senso metaforico)? Forse, semplicemente, quando pensiamo di poter fare a meno di uno degli amori dell'equazione sbagliando ad assegnare i giusti valori agli elementi che la compongono.

martedì 7 ottobre 2014

De libertate

Avendo a che fare quasi a cadenza quotidiana con il femminismo e le sue (ahimé spesso) deliranti adepte, mi è anche capitato di spulciare alcuni articoli sul divario salariale (in inglese pay gap) che intercorrerebbe fra gli stipendi di uomini e donne. Penso che il cruciale nodo di Gordio che avvolge gelosamente la questione possa essere incredibilmente sciolto in una maniera piuttosto elementare se si va a guardare la quinta pagina del suddetto documento redatto da nientepopodimeno che la Commissione Europea, il che implica già a prescindere che si ha a che fare con qualcosa di abbastanza lontano dal blog del primo sfigato che vi insegna come truccare i motorini. Il calcolo del divario salariale, per loro stessa ammissione, non tiene assolutamente conto di tutte le dinamiche che lo influenzano: semplificando un po' ma non troppo la questione, è come prendere un campione di cento persone di cui quaranta cassiere, dieci dottoresse, dieci cassieri e quaranta dottori. È ovvio che gli stipendi degli uomini risultino più alti, nevvero? Ma è anche ovvio che la colpa non sia da imputarsi alla virilità dei suddetti quanto piuttosto alle professioni esercitate. Una chicca: guardate la percentuale italiana nella tredicesima pagina del documento, siamo così democratici che se ci sono stipendi da schifo qui devono essere recepiti proprio da tutti! Una volta dimostrato, dunque, che le donne guadagnano di meno perché scelgono di lavorare di meno, di fare meno carriera o di accedere a professioni dichiaratamente meno remunerative, resta da approdare all'ultima spiaggia: perché le donne scelgono questo? Sono intrappolate da sedicenti stereotipi di genere o prendono le loro decisioni autonomamente? Francamente ritengo la donna occidentale abbastanza indipendente e intelligente da riuscire a stabilire da sé ciò che ritiene sia il meglio per la propria persona: probabilmente, coi tempi che corrono, l'unica costrizione in cui potrebbe incorrere nel civile ovest del mondo potrebbe essere quella di seguire la tradizione lavorativa di famiglia, ma questo fardello spetta a pari merito anche agli eredi maschi, quindi automaticamente non conta. Per le donne di altri Paesi, beh, che dire? Quando si vive in condizioni disagiate, non è mai una sola categoria a passarsela male. Alle donne viene inculcata in maniera subdola sin dalla notte dei tempi l'idea che debbano essere mogli e madri? Sinceramente preferisco vedere la situazione al contrario (o meglio, io la intendo così): sono più propensa a credere che sia stata la società ad adattarsi alla natura e non viceversa. Il mercato punta su femminilità (nome che probabilmente solo nella mente delle femministe evoca ammassi di bizzarre chincaglierie rosa di dubbia utilità da annientare spietatamente) e maternità perché è quello che vuole la gran parte delle donne, come natura comanda: del resto, l'istinto primario è quello della riproduzione della specie, e non credo nemmeno che sia necessaria una notevole dose di intuito o di approfondite conoscenze scientifiche per capire il motivo per cui le donne ne sono psicologicamente coinvolte in maniera maggiore degli uomini. Alcune vi si possono a buon diritto opporre con la ragione di cui siamo dotate in quanto esseri umani, ma resteranno comunque una minoranza: la ragione, in genere, è più utile a controllare l'istinto e ad incanalarlo entro gli argini della civiltà piuttosto che ad opporvisi in maniera totalitaria e totalizzante. Le donne che compongono la suddetta minoranza hanno e devono avere tutti i diritti della maggioranza, ma si può elementarmente dedurre che chiunque non sia dotato dalla sola bollicina dell'acqua Lete vagante nel proprio cranio sappia perfettamente che ogni essere umano è nell'intimo meravigliosamente e orgogliosamente diverso dal suo prossimo, ma che per mere questioni di comodità siamo tutti portati a generalizzare. E generalizzare è dunque qualcosa di ingiusto? No, a meno che non si dimentichi l'assioma appena enunciato. Le donne hanno semplicemente forze e debolezze diverse rispetto a quelle degli uomini e anelare alla parità di genere non implica né dovrebbe implicare l'affannosa e vana ricerca di rendere entrambi uguali su tutti i fronti propinando degli improbabili e inesistenti cinquanta e cinquanta un po' ovunque. Oh, andiamo, è come se qualcuno, per eliminare la questione razzista fra bianchi e neri, proponesse di tingerci tutti la pelle color caffellatte per non far torto a nessuno: raccapricciante, nevvero? Uomini e donne sono naturalmente diversi e razionalmente di pari valore, né più né meno, e tutti perfettamente in grado di scegliere quali stimoli e pulsioni, esterni o interni, seguire. Sono difatti dell'idea, squisitamente di stampo filosofico, che la libertà, la vera libertà, quella assoluta... semplicemente non esista, o perlomeno non nel mondo reale. Quando nasciamo, il mondo non è un foglio bianco che noi possiamo tagliare, colorare, decorare o strappare a nostro piacimento (o, come vorrebbe qualcuno, dividere in tante caselle perfettamente uguali), il mondo è già incasinato come una tela di Pollock, è un campo sterminato in cui soffiano infiniti venti da infinite direzioni ed è fisiologicamente impossibile evitare di farsi trascinare da almeno uno di questi: il massimo che possiamo fare è sceglierceli, scegliere le nostre catene, le cose da cui lasciarci influenzare. Ci sono catene più o meno visibili, ci sono persone che non si rendono nemmeno conto di essere trascinate da uno o più venti, altre che ne negano con forza l'esistenza, altre ancora che semplicemente optano per quella che ritengono la via giusta; tuttavia anche in situazioni che riteniamo non-libere ci sono almeno due opzioni da valutare (e il fatto che talvolta una di queste sia la morte non toglie valore alla scelta). Ci sono vari gradi di libertà, credo direttamente proporzionali al numero delle opzioni che ci si presentano davanti, ma a quella pura e reale non è arrivato né mai arriverà alcuno, e a dire il vero trovo che tutto ciò sia non sia qualcosa di negativo, anzi. La libertà assoluta da sperimentare nella vita vera è un bene troppo grande per noi miseri umani, è come mettere una bomba in mano ad un bambino: qualcosa di inquantificabile, sproporzionato e sorprendentemente disarmante, con cui magari all'inizio ci si può baloccare in maniera innocua ma che dopo fin troppo poco tempo potrebbe distruggere noi stessi e quelli che ci circondano. Tuttavia... una via di fuga c'è. È la nostra mente, l'unico luogo dove tutto è possibile perché lì siamo noi a tirare i fili del nostro destino, l'unico posto in cui la volontà può veramente e perfettamente corrispondere alla possibilità. L'unico, immenso atomo in cui si fondono omogeneamente il nulla e l'infinito, in cui siamo candidamente soli e perciò possiamo essere e creare tutto quello che vogliamo senza limiti di sorta. Quello della libertà, inutile dirlo, è un nome che si colloca in quel limbo indefinito tra ciò che abbiamo timore di pronunciare e ciò che desideriamo più d'ogni altra cosa gridare al mondo, e fra i tanti che ne hanno parlato non posso non citare il Sommo, secondo cui la libertà non consiste nell'avere un buon padrone ma nel non averne nessuno. Beh, nella mia personale visione del mondo, è impossibile non avere un padrone, o meglio, diciamo che all'inizio ce ne vengono proposti tanti e noi siamo per forza di cose costretti ad averne almeno uno: la scelta fra i vari "padroni" (uomini o idee, poco importa), però, è tanto più vasta quanto noi siamo liberi. E a dirla tutta dichiararsi liberi è pure il peggiore dei fardelli, visto che implica assumere su di sé le proprie responsabilità, ma la libertà è una cosa che va ricercata in maniera sempre maggiore anche se sappiamo che non la otterremo mai per intero semplicemente perché è positiva per definizione, è uno di quei dogmi dell'esistenza della cui bontà nessuno può e deve in alcun modo dubitare, anche se, proprio in suo nome, gli sarebbe lecito farlo.

domenica 28 settembre 2014

De heroibus

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi.                                                     (Vita di Galileo, Bertold Brecht)
Non molto tempo fa è ricorso il decimo, triste anniversario della strage di Beslan e mi è capitato sott'occhio un vecchio articolo di giornale al riguardo dove, oltre alla consueta profusione di lutti e compianti, a metà tra il legittimo e l'irrispettoso, faceva un cammeo anche la figura dell'anziana preside della scuola, che durante le tremende ore del sequestro si era per così dire "schierata" dalla parte degli aguzzini, riprendendo i bambini che si lamentavano e tentando di assecondare i terroristi. La donna, sopravvissuta al massacro, dichiarò in seguito che tutti l'avevano additata come collaborazionista dei carnefici, la evitavano in strada e le lanciavano sguardi di ghiaccio, tanto da spingerla perfino a desiderare di morire presto. Una frase dell'articolo diceva di lei: non ha avuto il coraggio di essere un'eroina. Sono parole forti come quelle di una frase accusatoria e allo stesso tempo blande come si stima la personalità della figura umana di cui si vuol parlare, spolverate di un leggero velo di compatimento e di rimpianto per la mancata occasione della donna di assurgere agli onori della cronaca e perché no, magari di ricevere una medaglia al valor civile, in modo che la collettività venisse ancora una volta rassicurata dalla presenza di straordinarietà, pur silenziose, nella folla (un po' come gli anonimi supereroi del film Pixar Gli Incredibili). Ovviamente non so cosa sia accaduto davvero in quel luogo raccapricciante e in quegli attimi d'inferno, provo solo ad ipotizzare che... la donna abbia fatto del suo meglio per evitare ai bambini ulteriori pene: a mio parere era semplicemente convinta che assecondando gli aguzzini sarebbe riuscita a scampare al peggio, nulla di più. Non voglio nemmeno provare ad immaginare cosa passasse per la testa di quella gente in quelle ore senza fine, so solo che giudicare, almeno in questo caso, sarebbe (anzi, è) impietoso. Le parole che Brecht fa dire al suo Galileo in risposta alla frase dell'allievo Andrea Sarti "sventurata la terra che non ha eroi" sono pregne di significato e dischiudono, nella propria solenne nudità, un intero mondo, un intero universo invisibile, conosciuto e parallelo allo stesso tempo, quello appunto degli eroi. I vocabolari dicono che gli eroi sono uomini che compiono azioni fuori dall'ordinario ma essenzialmente ed esclusivamente positive: ma, vedete, gli eroi possono essere tali in positivo o in negativo. Nell'antichità fioccavano i primi, ovvero quelli che spiccavano tra tutti per coraggio e valore, qualità che però non erano aliene al resto della società (sì, lo so, i tempi son cambiati, ora non conta - o comunque non basta - essere un fuoriclasse sul campo di battaglia per essere un eroe): ora, invece, gli eroi sono coloro che compiono gesti di portata cosmica che paiono estranei al miserabile e profano mondo terreno in cui essi sono nati e cresciuti. Gli eroi, dunque, sono diventati sempre più simili a dei santi, che ci sembrano partecipi per natura della gloria divina o che comunque hanno iniziato a manifestare in età precoce i primi segni del destino che li attendeva, disgiungendosi così inesorabilmente dalla compartecipazione nella carne con gli uomini comuni: gli eroi, così inevitabilmente irraggiungibili, hanno smesso di essere dai modelli da imitare e hanno iniziato ad essere sempre di più delle icone da venerare. E Galileo... beh, di certo non è passato alla storia come un eroe: tuttora lo conosciamo come uno scienziato eccezionale, come uno fra i più grandi geni di tutti i tempi, ma non come un eroe. Galileo ha deciso che non valeva la pena rimetterci la pelle per le sue scoperte e, in fondo, un po' tutti ci siamo dispiaciuti almeno in minima parte che la creazione della sua leggenda si sia incagliata in quel malefico atto d'abiura: il mito sarebbe stato certamente completo con una morte spettacolare, da manuale ma sempreverde, in nome di ideali rivoluzionari per l'epoca ma dati per scontati nell'era attuale. Forse ricordiamo con più reverenza Giordano Bruno, passato alla storia più per la sua atroce fine sul rogo a Campo de' Fiori che per le sue spiazzanti teorie, ma ignoriamo che anche lui provò inizialmente a negare il negabile: poi, vistosi alle strette, decise di andarsene almeno dignitosamente e quindi andò incontro al destino che tutti conosciamo. E ciò ci porta a riflettere su un tema di capitale profondità: vale di più una vita o un'idea? Russell diceva che non sarebbe mai morto per le sue idee perché avrebbe potuto aver torto, ma porsi al centro di questa metaforica tavola lignea in bilico sul vertice di un ipotetico triangolo significa automaticamente limitarsi a girare il volto nella direzione ipotizzata come corretta senza muovere il corpo nello stesso verso e mancare dunque della minima dose di dogmatismo indispensabile per difenderla, mostrandosi così implicitamente pronti a voltar la faccia qualora cambi il vento. Perfino chi ha dato la vita per idee dimostratesi in seguito errate o assolutamente folli ha ottenuto dai posteri almeno un velo di rispettoso silenzio. Qualcun altro, invece, disse a suo tempo che non c'era amore più grande di quello di colui che dava la vita per gli amici, tirando così finalmente in ballo il catartico filo rosso dell'esistenza umana: l'amore. Non si muore per le proprie idee, si muore per amore delle proprie idee, così come si muore per amore di una persona: quest'ultima però è tangibile, vera, reale, degnissima per la sua stessa natura umana, l'idea invece può essere giusta o sbagliata, e sarebbe troppo facile dire che è ugualmente eroico morire per le persone e le idee giuste. L'unica cosa che so è che dar la vita per amore è la cosa più nobile in cui l'esistenza umana possa trovare compimento, perché essenzialmente nell'amore vero si fondono omogeneamente l'istinto delle bestie, la ragione delle macchine e il sentimento che è degli uomini, degli uomini soltanto. D'anima e d'amore siam fatti, d'animo e dolore viviamo. Quanto dev'essere disperato il mondo per dover trarre la propria linfa vitale dall'estremo sagrifizio del singolo, per doversi rassicurare sulla propria sopravvivenza anche solo per i prossimi cinque minuti beandosi atrocemente di siffatte azioni? L'eroe compie ciò che dovrebbero compiere tutti in un utopico e totale distacco della natura ferina da quella umana, ma in una società che pare aver dimenticato la picciola santità di cui si professa fiera e modesta portavoce ecco che svetta ombreggiante l'aurea figura di colui che adempie semplicemente il suo salvifico, onorevole, adamantino e banalissimo dovere. L'eroe sacrifica se stesso in nome di qualcun altro: l'eroe dà tutto ciò che ha per diritto naturale, la vita, in nome di qualcuno diverso dalla propria persona, e in questo gesto così intrinsecamente sommo per l'influsso della ragione e del sentimento e perversamente innaturale per la galvanizzante e vertiginosamente estatica assenza dell'istinto di sopravvivenza, in questi attimi di concitata, lucida follia, di parole che paion spade e penne dalla punta di gladio, di contrari che s'annullano e s'armonizzano come l'ago delirante d'una bussola che ora punta il nord e ora il sud ed eppure sembra aver sempre ragione si concentra l'essenza distillata dello spirito umano.

giovedì 18 settembre 2014

Ex stercore flores

Ama e ridi se amor risponde,                                                 piangi forte se non ti sente,                                                         dai diamanti non nasce niente,                                                    dal letame nascono i fior.                                                                                          (Via del Campo, Fabrizio de Andrè)
Uno dei detti popolari più usati e abusati, che chiunque, a dispetto delle proprie origini, avrà sicuramente udito almeno una volta nella propria vita, è senza dubbio "non tutto il male vien per nuocere" (tra l'altro ho appena notato che buona parte dei miei articoli inizia con una serie di pipponi mentali derivanti anche dalla più sciocca riflessione sulla più stupida delle frasi note alla popolazione mondiale, wow, che talento inimitabile). Vabbè, insomma, quello che ho da dire è che semplicemente non sono d'accordo: il male viene per nuocere, è il suo mestiere, la sua causa e il suo scopo, il suo principio e la sua fine, il suo essere e il suo apparire. Però da ogni esperienza negativa ne può sempre (e dico sempre) nascere una positiva, che, se la Fortuna si leva la benda e vi strizza l'occhio, può perfino farvi ringraziare il cielo di esservi beccati la sciagura di turno. Il mondo sarebbe ovviamente migliore, anzi, perfetto, se il male non esistesse, ma mancando tale assenza di turbamento dobbiamo accontentarci di riuscire a trovare le pepite d'oro nei laghi di torba: la metafora della canzone è più calzante di come appare, perché è vero, appunto, che è dallo sterco che sbocciano i fiori, ma è anche vero che i diamanti valgono sempre più di questi ultimi, quindi chiunque fosse sano di mente desidererebbe proprio questi per sé. Veniamo al dunque, allora: il male. Perché esiste il male? Fior fiore di studiosi, scienziati, filosofi, teologi si sono applicati per vite intere per cercare di fornire una risposta a questo asfissiante interrogativo e se vi aspettate che a svelarvi l'arcano sia io allora non avete tutte le rotelle che girano nel verso giusto (ma non preoccupatevi, siete in buona compagnia). Se si dà per scontata la sola esistenza dell'essere umano, la soluzione, o perlomeno una delle più probabili fra le infinite, è che semplicemente il male esiste come comportamento funzionale dell'individuo per la sua sopravvivenza e la soddisfazione dei suoi istinti, dai quelli primordiali a quelli più evoluti (ovvero: homo homini lupus); se ammettiamo anche l'esistenza di... insomma, qualcuno di superiore, a cui poi vengono attribuite tutte le qualità positive al loro stato massimo, le cose cambiano. Insomma, se Dio è buono come si dice, perché permette che accada il male? In virtù della sua potenza e magnanimità, non potrebbe farci vivere tutti in paradiso e via? Perché non lo fa? Se non vuole è cattivo, se non può non è onnipotente. Io invece mi chiedo: perché mai dovrebbe farlo? Ogni uomo non ha forse il sacrosanto diritto di scegliere e vivere la sua strada, anche quando questa comporti il male e quindi il danneggiamento di sé stessi e degli altri? Perché dovrebbe intervenire per incerottare, arginare, contenere, nascondere, reprimere, annientare ciò che una persona ha scelto, nella maggioranza dei casi, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali? È nostro il compito di far sì che le persone non scelgano il male, e se proprio non si è spinti da motivi etici che almeno lo si sia da cause utilitaristiche, perché nessuno fa mai del male solo a se stesso: l'eco di qualunque nostra azione si ripercuote in maniera più o meno brutale su tutti coloro che ci circondano, sia nel bene sia nel male, e un domani potrebbe essere proprio l'io di turno a pagare lo scotto delle malefatte di qualcun altro. Se la natura o chi per lei ci avesse voluti soli ed eternamente indipendenti ci avrebbe fatto nascere in luoghi sperduti della Terra e ci avrebbe fatto riprodurre per mitosi: come in una catena, però, un anello arrugginito arrugginisce anche gli altri, e un anello brillante fa risplendere di luce riflessa anche quelli a cui è legato. Tuttavia... ho la convinzione intima e un po' perversa che sia soprattutto o forse unicamente il dolore, scaturito dal male, a renderci davvero umani. L'eterna, intangibile serenità derivante da un'ipotetica letizia persistente mi parrebbe quasi produrre un effetto simile a quello delle sottili zampe di un insetto che non fendono l'acqua ma ne sfruttano la tensione superficiale: il dolore, invece, scava, raschia e devasta, va a fondo, denuda il cuore e ne scopre i nervi, espande le sue roventi diramazioni rendendo il corpo una mistica e misera tavola anatomica esposta alle intemperie del mondo esterno. Forse è l'impossibilità di giungere infine all'utopica meta a farmi formulare questi pensieri, con l'implicito scopo di esorcizzare la rassegnazione derivante dalla constatazione che tutto ciò mai avverrà (sì, è un po' la versione malinconica della favola della volpe e dell'uva), però... come direbbe una ragazzina su un social network a casaccio, per avere l'arcobaleno bisogna prima sorbirsi la tempesta. E in fondo l'acqua non ha forse il sapore dell'ambrosia per l'assetato e il gusto dell'aria per il sazio? Che il male, in un'accezione più ottimistica, serva anche a farci capire l'incommensurabile valore del bene, che perciò diventa tale solo in relazione ad esso? La storia dello yin e dello yang, insomma. Oppure... un'altra teoria prevedeva che il male fosse assenza di bene: è un po' come la storia del calore, in fisica non esiste mica il freddo, esiste solo il calore con le sue infinite variazioni di temperatura. Così come, almeno in teoria, non esiste l'ombra: esiste solo l'assenza di luce. E quindi il male non è l'opposto ma è semplicemente il nulla o il bene ridotto all'osso; mi piace quest'idea, perché ammetterla significa negare al nemico perfino la dignità di esercitare la propria influenza in negativo, vuol dire annichilirlo fino all'estremo, distruggerlo puntando dritto al cuore. Diceva poi Kafka che il male conosce il bene ma il bene non conosce il male: il male conosce il suo avversario perché semplicemente esiste per nuocergli, invece il bene, il vero bene, lo ignora perché semplicemente esisteva da prima e ha scelto di restarne immune, incorrotto? O magari il vero bene invece conosce e conosce silenziosamente il suo avversario, che invece ne ignora le serafiche mosse nell'ordinata scacchiera dell'universo. Si deduce che il vero bene è dunque sempre rimasto puro e immacolato rispetto a tutto o è diventato tale dopo aver fatto esperienza delle azioni della sua controparte. Credo che siano possibili entrambe le vie, ma mi sembra deliziosamente palese che la più percorsa delle due sia la seconda, perché riuscire a respingere il male in eterno è quasi ultraterreno, ma accoglierlo e poi cacciarlo è divinamente mortale: significa essere riusciti a trarre il bianco dal nero, a far germogliare i fiori del male. Oh, però non è bellissimo sapere che i fiori del male crescono dappertutto? Sono venati di nero e imperlati di veleno come i boccioli veri sono roridi di rugiada mattutina e dai loro petali grondano opachi misfatti, ma sono pur sempre meravigliosi, anzi, sono meravigliosi proprio per questo, e compongono come i pezzi di un ancestrale puzzle i giardini degli animi umani. I fiori del male possono nascere sempre, ma sta alla nostra abilità creare le condizioni adatte affinché crescano: è nel loro sbocciare che si racchiude l'essenza del riscatto e della vittoria umana.

mercoledì 17 settembre 2014

Egomet

Nome: Costantina (è un nome vecchio e lungo perché è stato generato e non creato per mettere in difficoltà i professori negli appelli e le nuove conoscenze alle presentazioni)
Secondo nome: Francesca (ma solo in chiesa, in onore di San Francesco: dal mistico di Assisi ha ereditato la capacità di comunicare con gli animali ma a quanto pare non quella di farsi capire)
Cognome: Doria (o perlomeno così dice la sua carta d'identità, ma finora questa non le ha mai mentito quindi non trova un motivo valido per non crederle anche stavolta)
Indirizzo: È da quando ha otto anni che suo cugino le dice che abita a Villa Triste in via del Convento, n.0. Ma lei non se l'è mai bevuta e si è prima convinta di risiedere a Delfi e di essere la padrona del tempio, per poi rendersi tale e concedersi brevi periodi di villeggiatura sull'Olimpo.
Altezza: Quando porta i tacchi dieci è alta un metro e settanta.
Peso: No Maria, io esco.
Età fisica: Diciassette anni. Come la sfiga.
Età mentale: Pare che oscilli pericolosamente e repentinamente tra i cinque e gli ottantacinque anni.
Età reale: Duemilacinquecento anni o giù di lì. Forse.
Occhi: Castani (suo padre ce li aveva azzurri, sua madre verdi/castano chiaro e lei ha deciso di fare uno sgarro a tutti e due avendoceli castano scuro)
Capelli: 98% castano scuro, 1% rossi, 1% bianchi (si narra che alla sua nascita Lucina le abbia sussurrato: "'a soggetta!")
Segni particolari: Una piccola cicatrice incavata sotto l'occhio sinistro, originalmente ribattezzata "lacrima": non è l'unica del suo corpo, ma è l'unica che non si è procurata disobbedendo ai suoi genitori.
Pregi fisici: Si crede una gnocca a tutto tondo, ma gli scienziati stanno ancora analizzando il caso.
Pregi caratteriali: Ah no, quelli sono finiti nel tunnel del Gran Sasso.
Difetti fisici: Ha il callo dello scrittore sul medio destro, così quando manda a Città Laggiù le persone lo fa ricordando loro quale penna si sono inimicati.
Difetti caratteriali: Estremamente lunatica e distratta, fautrice del Nuovo Ordine Mondiale della Sua Stanza, istericamente perfezionista, insofferente alle ripetizioni esasperanti, alle insubordinazioni, agli sprechi, all'ignoranza e alle lamentele. Non si è guadagnata l'appellativo di dittatrice per niente.
Cosa colleziona: In realtà accumula cose inutili di varia natura. Sogna tuttavia di sfoggiare orgogliosa su una mensola della sua stanza una fila di veleni e su un'altra una fila di rimedi naturali erboristici. Sogna anche tonnellate di statuette di fatine, bracciali con formule alchemiche, ciondoli con le rune, serie di candele di svariate forme e dimensioni, peluche di gatti e pinguini, armi bianche e busti di illustri personaggi dell'antichità che non c'azzeccano alcunché con ciò che ha elencato in precedenza ma si sa che fanno sempre la loro figura. Per il momento conserva con cura il chiodo recuperato da un suo amico subacqueo dalla nave romana naufragata al largo della costa salentina, perché anche se è solo un chiodo ha pur sempre duemila anni.
Luoghi preferiti: Voleva accamparsi a Pompei e ai Fori Romani ma non gliel'hanno permesso perché dicevano che la gente normale non dorme in mezzo a rovine millenarie per respirarne le cruda bellezza anche perché secondo loro è una cosa che non significa assolutamente niente. In alternativa, le piacciono le città d'arte, i cimiteri, i luoghi abbandonati tra sacro e profano, il mare e tutti i posti in cui si possono guardare le stelle: sogna anche di imparare, un giorno, a saperle distinguere.
Possedimenti imbarazzanti: Possiede un paio di slip decorati con pecorelle e un costume da bagno sul cui didietro c'è scritto "pizza ♥ amore": ha provato a spacciare il primo termine per un omaggio alla cucina partenopea, ma non ci è mai riuscita.
Abbigliamento: Qualunque cosa ci sia di economico al negozio cinese all'angolo: acquista valore aggiunto se strano e/o con scritte palesemente taroccate (se la roba è più retrò, invece, gli amici le danno della "nonna"). In aggiunta, vorrebbe fortissimamente dedicare un intero armadio ai costumi delle varie epoche storiche, nonostante sappia per esperienza quanto siano tremendi i bustini.
Conoscenze: Ha stretto amicizia con le proprietaria del negozio cinese di cui sopra nonostante lei le aprisse deliberatamente a sorpresa il camerino durante i cambi d'abito.
Fantasie: A dodici anni sognava di sposare Mr. Darcy di Orgoglio e pregiudizio, attratta in egual misura dal suo buon cuore e dalle sue diecimila sterline annue di rendita.
Segreti o quasi: Passa metà delle sue notti in preda a incubi dai significati astrusi, i più semplici dei quali hanno a che fare con suoi ipotetici fallimenti a scuola (il che equivarrebbe alla catastrofe). Per quanto riguarda l'altra metà, beh, non se li ricorda. Da piccola faceva anche i sogni premonitori.
Accessori: Mostra particolare predilezione per gli orecchini con le piume, le collane coi cammei e le cose strane, carine e sbrilluccicose in generale, non necessariamente (anzi, possibilmente non) costose.
Esclamazioni tipiche: Quando riesce a trattenersi dal maledire gli antenati del malcapitato con un'apostrofe dai coloriti toni popolareschi, inveisce con "mannaggia la pupazza" o tirando giù il dio greco di turno, entrambi elementi che tuttavia la rendono piuttosto riconoscibile agli occhi (e alle orecchie) altrui. In casi estremi, procede con irripetibili insulti in lingue morte.
Paure: Fugge alla vista di api, vespe e insetti ronzanti temendone i malefici pungiglioni (tuttavia ammazza le zanzare a mani nude); è intimorita e affascinata dal buio e soffre di vertigini e di una lievissima forma di claustrofobia (un tempo decisamente peggiore).
Idee religiose: Crede nel Grande Capo, anche perché è sua amica intima da un sacco di tempo. Alle cene del giovedì stavano sempre assieme.
Idee politiche: In un mondo utopico tiferebbe per la repubblica, ma in ultima istanza è pronta perfino a rivalutare i regimi dittatoriali e a concordare con Giolitti, Mussolini, Churchill o chiunque fu quel tale che pronunciò la fatidica frase "governare gli italiani non è difficile, è inutile".
S'ha da amare: La storia tutta. Ricordatelo, antico è bello.
Narravano di lei: Una volta, in seconda elementare, le hanno fatto interpretare la parte del grillo parlante nella recita di Pinocchio perché, a dire della sua maestra, era "piccola e già piuttosto saccente". Negli anni ha perso quel "piccola" ma si è guadagnata a pieno titolo il "saccente", non esimendosi dal correggere nemmeno quella stessa maestra che, durante una visita di qualche giorno prima, aveva amabilmente elogiato l'itinerario culturale delle sue vacanze romane e ricordato quanto fosse stato bravo Casanova nello scolpire la Paolina Borghese.
Narrano di lei: I suoi amici dicono che quando le cadono gli occhiali sembra la loro nonna (x2), ma quando ammicca da sotto gli occhiali sembra una segretaria da film porno. Lei, imbarazzata, ha provato a smentirli: a suo dire sembra più una professoressa.

venerdì 12 settembre 2014

Servate Inferos

C'è una frase, tratta dalle Vite Parallele di Plutarco, che mi ha sempre fatto una certa impressione leggere e ancor più ripetere; pare infatti che Cesare, quando vide Bruto parlare in pubblico per la prima volta, disse: "Non sa cosa vuole, ma lo vuole fortemente". Parole lapidarie ma profonde, come solo il divo Giulio avrebbe potuto pronunciarle, e perfino terribili, perché come ogni cosa classica mi sembrano universali, ma in questo caso velatamente e anacronisticamente... rivolte a me. Coda di paglia? Forse sì, non lo nego. Bruto è passato alla storia come un cattivo, il cattivo: Dante l'ha praticamente relegato al centro della Terra per aver commesso il secondo crimine più abietto della storia dell'umanità, per aver ucciso la massima autorità terrena, l'allora detentrice del potere temporale. Ma Bruto è anche un uomo, quello a cui mi sento intimamente e spiritualmente più vicina, nonostante non riesca a perdonargli di aver fatto fuori proprio uno dei miei miti, oltre che uno degli uomini più grandi che la storia ricordi. Ci viene riferito che Cesare arrestò la sua strenua opposizione ai congiurati quando, quasi esanime, vide stagliarsi fra loro la figura di Bruto e, persa dunque ogni animosità, si accasciò a terra coprendosi dignitosamente il capo con la toga, non prima di aver sussurrato, tra il sorpreso e l'addolorato: "καὶ σύ, τέκνον;". Non so quanto ci sia di vero nell'immagine che mi sono creata di questo interessante personaggio, né francamente mi interessa appurarlo o meno (almeno non riguardo a questo proposito), ma rivelo di essermelo sempre figurato come squarciato da un lacerante tormento interiore, incerto se onorare il nome e la tradizione di famiglia come tutti si aspettavano o dar retta ad altre logiche, magari più personali. A scegliere per lui ci ha pensato il popolo se, come racconta proprio Plutarco, le statue del suo antenato tirannicida furono davvero prese di mira dagli audaci ma anonimi Romani e dai loro graffianti e insinuanti bigliettini che denunciavano a tutta l'Urbe la deplorevole inazione del rampollo dell'antichissima e illustre gens nei confronti del tiranno di turno. Non si sa se davvero Bruto fosse figlio di Cesare: la relazione di lunga data fra quest'ultimo e la di lui madre Servilia era certo nota a pressoché l'intera città, tuttavia pare improbabile che un ragazzo sui vent'anni o meno si intrattenesse con le auguste dame dell'aristocrazia: era certo molto più facile e probabile che se la spassasse con le schiave di casa o con le prostitute nei bordelli (e quando si parla del Divo e delle sue liaison non si può nemmeno lasciar passare sotto silenzio la celebre apostrofe rivoltagli dal Sommo: qualcuno rammenta dunque la regina Bithyniae?). Del resto, comunque, non bastano i legami di sangue a dar vita ad una famiglia, ed è proprio questo il mio cruccio: non essere in grado di provare ciò che ci si aspetterebbe da me. Volontariamente o meno, sono sempre stata sola: non mi sono mai trovata di fronte una persona davanti alla quale valesse la pena aprire se stessi totalmente e incondizionatamente, e anche quando credevo di aver trovato qualcuno di valido mi son sempre trattenuta dal creare legami importanti; ne avevo visto troppi sfaldarsi, sgretolarsi, crollare su se stessi, avevo visto amicizie e amori che parevano da antologia distruggersi e annientarsi, avevo consolato gente affranta e avevo giurato a me stessa che non sarei mai finita così. Non ho mai tollerato i fallimenti, e non li avrei sopportati nemmeno se si fossero verificati nella mia vita sentimentale, come è già successo con coloro che avrei dovuto amare incondizionatamente. Mi è stato insegnato a fidarmi solo di me stessa e della mia famiglia, ché almeno è sicuro che loro mi avrebbero voluto bene, ma ho obbedito solo al primo dei due comandi: nemmeno i miei parenti più stretti conoscono i miei moti dell'animo, essenzialmente perché mi sono troppo poco simili e le discordie quotidiane in casa, diverse dalle semplici scaramucce, ne sono l'irritante prova. I miei genitori sono come gli estremi di un segmento e io ho avuto la disgrazia di nascere punto medio: ho alcune affinità sia con l'uno sia con l'altro, ma in linea di massima per loro provo solo una muta e innaturale, ingrata indifferenza accessoriata da un pizzico di vergogna e una gran quantità di sensi di colpa per non provare rimorsi al riguardo. Mi sento vile per aver tradito così sfacciatamente i principi di amore universale ai quali avevo scelto autonomamente e ingenuamente di attenermi e per aver rifuggito gli affetti a priori, avendo deciso che il gioco non valeva la candela, e mi sento vile per aver lasciato talvolta tramutare la mia indifferenza in odio arrivando a pensare cose innominabili col solo scopo di causare quanta più sofferenza possibile, ma è anche vero che per ora tutti quelli che mi hanno galleggiato attorno si sono rivelati inaffidabili come avevo previsto e piuttosto che circondarmi di gente con cui dover misurare ogni parola ho preferito star da sola: sono un'ottima attrice ma una pessima bugiarda, e la volontà è il mio solo motore. Posso far tutto, basta che ne sia veramente convinta, e forse non sono mai stata capace di intrattenere una relazione interpersonale decente perché cercavo solo mie fotocopie ed ero eternamente incerta, incapace di venire incontro alla gente, tutta concentrata com'ero sul mio mondo e sui miei problemi. Non sono anaffettiva, anche se sono in molti a pensarlo: ho amore da dare, almeno credo, è solo che non so a chi, e ho paura che a furia di star nell'angolo quell'amore si sia già ammuffito o impregnato di bile e forse tanto vale che lo nasconda sotto il tappeto. Voglio dire... in questi anni mi sono creata volutamente la fama di inscalfibile e ne sono sempre stata piuttosto fiera, ma a conti fatti non so quanto mi abbia giovato. Che fare, allora? Provare a fingere un affetto che non provo ma che dovrei provare, o essere dura ma almeno sincera? Sfogarmi a ruota libera con qualcuno che mi convince e rischiare tutto? Star da sola e aspettare il momento in cui il mio animo, gonfio come un palloncino, esploderà, facendo saltar tutti dalla paura? Ci ho già messo troppe toppe e non so per quanto ancora resisterà: ogni volta che parlo, la conversazione vira a 180° e finisco a parlare di me. E poi non sto in pace nemmeno in sogno, ci sono più morti, stragi, perversioni e insensatezze nella mia testa di notte che nelle puntate de Il trono di spade. In ogni caso, rischierei di far male a qualcuno. Il mio problema è che sono come la luna: ho mille facce e sono tutte vere, e l'ho presa sul personale quando Giulietta ha rifiutato la proposta di Romeo di giurare proprio sulla luna, mio spirito guida, e anche se non credo nell'oroscopo mi sa che con me c'ha azzeccato in pieno. Sono poliedrica, non falsa (e anche molto distratta e confusa), e prima di essere capita devo essere sopportata. Probabilmente tutte le persone che mi hanno conosciuto nel corso degli anni darebbero di me descrizioni diverse: quando i miei compagni di classe mi hanno presentato come la secchiona del gruppo alle due nuove arrivate, quelle mi hanno detto che non ci credevano perché ero troppo bella per essere tale. Sentite, io non so chi sono e non so cosa voglio, ma lo voglio fortemente.

P.S. Sì, lo so, non è un articolo ma lo sfogo venuto male di una ragazza di Tumblr. Chiedo venia.

P.P.S. Ora che ci penso, ho deciso di fare la cosa più stupida e dirlo a tutto il mondo. E vabbè. Me ne pentirò fra poco. Anche perché mi sono accorta di aver scritto davvero male, questo testo ha l'armonia e la continuità di uno spettacolo pirotecnico. Bum. Bum. Bum. Badabum.

giovedì 4 settembre 2014

Tempus fugit

Un vecchio adagio afferma che il tempo sia la miglior medicina. A dire il vero, sono più propensa ad indicarlo come la migliore delle droghe: come una droga, infatti, altera il ricordo del passato e di conseguenza modifica la percezione del presente e la concezione del futuro. O forse, ancora, il tempo è il più potente degli anestetici, perché non fa sparire la radice del dolore, fa sparire il dolore e basta, e spesso sublima anche i nostri sentimenti proteggendoci inconsciamente da situazioni che potrebbero causarci danni simili in futuro. Fatto sta, però, che Crono è anche il più biasimato tra gli dei: capisco perfettamente che l'appropinquarsi del termine dell'operato di Lachesi possa far paura a molti (anche se azzarderei l'ipotesi che a terrorizzare i più non sia tanto la recisione del filo quanto il dolore che si teme di dover provare all'ora fatale, o perfino qualche dubbio atroce sulle proprie convinzioni riguardo l'aldilà), comprendo anche che scivolare lentamente nell'età avanzata ed assistere impotenti al decadimento del proprio corpo sia terribilmente frustrante, ma a dire il vero non riesco a risalire alle cause che in ogni dannatissimo caso ci fanno rimpiangere la gloria che passò, vera o presunta che sia. La fanciullezza è per definizione l'estate della vita e quindi è buona ed encomiabile per definizione: ma possibile che tutti guardino solo a lei come all'unico periodo generoso della vita? Possibile che, col passare del tempo, nessuno abbia preso le scelte giuste o sia diventato il prediletto della Tyche? Dubito che, lasciatasi ormai alle spalle la primavera della gioventù, sia stata tutta una sequela di errori, inciampi e arrangiamenti in un'escalation di allontanamenti dai sogni primigeni. Semplicemente, il tempo ha rimediato ai ricordi spiacevoli del passato edulcorandoli, relegandoli in un cassetto sperduto della mente o facendoli svanire: è uno dei sistemi più evoluti di sopravvivenza psichica inconsciamente adottati dall'uomo. Se però proviamo a far luce sul fenomeno in una scala decisamente più vasta, arriviamo al mitico detto del "si stava meglio quando si stava peggio" e "questa generazione ormai è rovinata", frasi fatte per mezzo delle quali basta davvero poco per arrivare a rivalutare in maniera positiva perfino il Ventennio; poco importa che la tecnologia, almeno in questi concitati decenni di fine XX secolo e inizio XXI, si sia evoluta a ritmi pressoché insostenibili, migliorando innegabilmente la vita quotidiana di gran parte della popolazione mondiale: pare proprio che il progredire dei tempi sia inversamente proporzionale alla promozione della pubblica morale. Mi sembra piuttosto facile dedurre che non sia affatto così, altrimenti la società sarebbe diventata un'unica, gigantesca babilonia da parecchio tempo: è che, tutto sommato, questo guardare al passato prossimo come ad una meravigliosa Arcadia da riproporre ed emulare non è una tendenza recente, anzi, affonda le sue radici nell'antichità, ed è quindi un retaggio culturale che ci portiamo appresso da molto più tempo di quel che pensiamo. Come dimenticare gli integerrimi Romani, che, nel periodo repubblicano, non si stancavano mai di predicare l'efficacia degli insostituibili costumi degli antenati ed elogiarne incessantemente il mirabolante operato storico, opponendosi con le unghie e con i denti al novello spiffero di ellenizzazione che stava iniziando a penetrare nello Stato? I maiores dei cittadini dell'Urbe dovevano essere stati, almeno stando a quanto si favoleggiava, dei cittadini davvero irreprensibili: pii, leali, onesti, severi, giusti, rispettosi di tutte le leggi possibili e immaginabili, perfetti e inimitabili come le Mary Sue dei romanzetti fantasy da due assi. Perfino l'Adone di Prassilla capirebbe che, con buona pace dei moralisti, tutto ciò mai è esistito e mai esisterà, semplicemente perché la natura umana è sempre quella, è costellata di errori, dubbi, tradimenti, viltà, crudeltà, vizi, ripensamenti d'ogni sorta ed è bene che gli intoccabili ed ormai sfuggenti antenati restino intatti nell'Oltretomba, là dove sembrano essere stati sempre presenti e a cui sembrano essere stati destinati sin dalla nascita, a guardare e giudicare con cipiglio arcigno le male azioni dei mortali. È come se il nascere in una nuova generazione ci instillasse automaticamente nella coscienza una sorta di laico peccato originale: siamo stati generati già debitori di virtù nei confronti dei nostri genitori e dei loro coetanei e solo ricalcare in tutto e per tutto le loro orme ci salverebbe dalla dannazione eterna. Cosa ovviamente impossibile: l'animo umano è sì sempre lo stesso sin dalla notte dei tempi ma il tempo è per definizione il cambiamento, il divenire: panta rei! È come trovarsi tutti assieme in un enorme recinto: sappiamo per certo che nessuno potrà mai saltare fuori dalle staccionate, ma questo non impedisce a ciascuno di esplorare lo spazio a sua disposizione come meglio crede. Quando sono stata agli scavi di Pompei, molti dei turisti che mi circondavano, stranieri e non, sembravano assolutamente stupefatti dalla presenza di tutti i progenitori degli oggetti e delle comodità moderne (a onor del vero, la frequenza di bocche spalancate raggiungeva i suoi picchi più elevati quando si parlava dei bordelli). Oh, buon cielo! Davvero credevano che i Romani o gli antichi in generale fossero i personaggi statici intrappolati nelle pagine di qualche manuale di storia illustrato, dediti esclusivamente alle attività rigorosamente e minuziosamente spiegate in quegli stessi fogli bidimensionali? Ecco che fine fanno i maiores quando passa troppo tempo! Da terreni modelli di virtù diventano delle misere figurine di carta! È sempre meglio entrare negli annali in questo modo che vergarne in prima persona le pagine col sangue, ma il Tempo è un dio capriccioso dal lungo mantello strisciante su un sentiero di neve fresca: fa rimanere quasi intatte alcune impronte, altre le deforma, altre ancora le cancella con più o meno vigore, ma di tutte confonde i contorni. Non sappiamo cosa diranno i posteri di noi, né tanto meno se si degneranno di ricordarci; il tempo fugge e noi non possiamo preoccuparci di inseguirlo; godiamocelo, piuttosto, e contemporaneamente iniziamo a spianare la strada al futuro, in modo da non trovarci impreparati né quando esso arriverà né quando esso non arriverà perché al suo posto incroceremo lo sguardo vertiginoso di Atropo. Carpe diem, diceva il troppo spesso frainteso Orazio; Quant'è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia! / Chi vuol esser lieto, sia: / del doman non v'è certezza, ribatteva Lorenzo de' Medici. Ci tocca solo sperare che l'implacabile Crono abbia pietà di noi: ma in fondo come può averla, se non l'ha avuta nemmeno per i suoi figli? Però... però il mito dice anche che egli è stato infine sconfitto proprio dall'ultimo nato, Zeus: il Potere, la Legge, l'Ordine, il Comando. Zeus, unitosi in prime nozze con Metis e da lei aiutato a sconfiggere proprio il di lui malefico genitore; Metis, l'Intelletto, l'Astuzia, addirittura la Perfidia. C'è dunque una flebile speme di aggirare il signore dell'infinito? Forse, chissà. A noi basta sapere che non tutto è come ci è stato tramandato, che anche il migliore degli eroi aveva i suoi segreti scomodi: mi piace immaginare l'animo umano nella storia come un sottile, liscio braccialetto d'oro attorno al quale si aggrovigliano ordinati e deliziosi, seguendone le curve sinuosamente perfette, dei fili d'argento: le vicende, le convenzioni, le regole, i disordini delle varie epoche. Tutto ciò giustifica forse i nostri errori e le nostre malvagità? No, affatto: ci ricorda solo che siamo da sempre in buona compagnia.