giovedì 13 novembre 2014

De pecunia et felicitate

Più fortunato, quando abbia benessere, può l'uno esser dell'altro; e niun felice.                                                                                                               (Medea, Euripide)
La Medea è la tragedia che la nostra scuola sta mettendo in scena, sia pure in una versione ridotta all'osso per questioni di tempo, al Tarentum Festival della prossima settimana: a dire il vero, il nostro copione dice "non esiste nessuno fra gli uomini che può dirsi felice: con la ricchezza può dirsi fortunato, ma felice no, mai" per ovvie questioni di comprensione al grande pubblico, ma la sostanza non cambia. Erano secoli che sognavo di trovare una frase che esprimesse al meglio la mia concezione del rapporto pecunia/felicità (stranamente, non riuscivo a dirla a parole mie, nonostante non implicasse chissà quali perifrasi o ragionamenti) ed eccola qui. Una delle massime più abusate dal popolo recita "i soldi non fanno la felicità", e ad essa i più disincantati, il cui numero cresce esponenzialmente di giorno in giorno, sono soliti ribattere con un sarcastico "come no!", alludendo non molto velatamente al vantaggio che comporterebbe il possedimento di ingenti ricchezze. Essere ricchi, beh, dev'essere bello, non lo metto in dubbio. Si potrebbero soddisfare in tempi brevi tutti i propri desideri, si eserciterebbe automaticamente sugli altri una certa qual dose di fascino, si sarebbe oggetto e non soggetto di invidia, si avrebbe il mondo ai propri piedi, insomma: calerebbero drasticamente le probabilità di avere rimpianti in punto di morte. Calerebbero, appunto, ma non si annullerebbero: aver fatto mille e mille viaggi o aver comprato mille e mille libri o mille e mille gioielli non mi assicurerebbe una sana quiete di coscienza prima del trapasso. Avrei esaudito tutte le mie volontà, sì, ma non sarei comunque sicura di aver vissuto una vita degna di questo nome: è da millenni che la filosofia insegna che bisogna badare a ciò che c'è all'interno di noi stessi e circondarsi di ninnoli come fanno i tiranni con gli adulatori aiuta a riempire il vuoto della propria casa, non quello del proprio cuore. La ricchezza porta avidità, e l'avidità moltiplica i bisogni innaturali del corpo, così come afferma giustamente Seneca nelle Lettere a Lucilio (questo è un concetto di cui, ancora una volta, hanno parlato in tanti - primo fra tutti, credo, Aristotele - ma piazzo quell'infame dell'Anneo perché questa era la versione dell'ultimo compito in classe):
Si accumuli nelle tue mani tutto ciò che molti ricchi avevano posseduto; la sorte ti spinga oltre il limite di ricchezza concesso ad un privato, ti ricopra di oro, ti vesta di porpora, ti spinga ad una tale soglia di delizie e ricchezze che tu possa ricoprire la terra di marmo: ti sia lecito non soltanto possedere ricchezze, ma calpestarle. Si aggiungano statue e dipinti e tutto ciò che le varie arti hanno creato per la soddisfazione della lussuria: da questi beni imparerai a desiderare solamente di più.
Come può dunque la ricchezza renderci davvero felici? È certo indispensabile che i bisogni necessari del corpo siano soddisfatti, ma quali sono allora i bisogni necessari? Sempre Seneca:
Allontanati, dunque, dalle vanità e quando vuoi sapere se ciò cui aspiri corrisponde a un desiderio cieco o naturale, considera se ha un termine; se dopo un lungo cammino rimane sempre una meta più avanzata, sappi che non è un desiderio naturale.
Un barbone che vive sotto i ponti può essere dunque pienamente felice? Beh, in genere non mi piace porre limiti alle umane capacità, ma stavolta azzardo un "sicuramente no" (a meno che non si tratti di qualche emulo del leggendario Diogene): è fondamentale comprendere che la felicità vera è uno stato dell'animo, ma la soddisfazione dei bisogni dell'animo viene per legge di natura dopo quella dei bisogni del corpo; insomma, a pancia piena si pensa decisamente meglio. Pancia piena e non strabordante, attenzione, ché poi i lipidi rischiano di danneggiare anche le sinapsi! Sarebbe bello se potessimo mangiare o bere per il solo piacere di farlo e non perché il corpo lo reclama e dedicarci invece per tutto il tempo alla realizzazione dello spirito, ma (almeno attualmente, non pongo limiti nemmeno al progresso) non è possibile e dobbiamo accontentarci: chi può, dunque, soddisfi fame e sete, se può le soddisfi anche nel modo che gli riesce più gradito, se gli è consentito faccia in modo che anche agli altri venga garantita questa possibilità, ma non offra allo stomaco più di quanto esso stesso chiede, perché altrimenti questo imparerà ad esigere sempre di più. Non si disprezzino a priori le cose della carne, ma le si vedano solo come i gradini più bassi (per i quali, diciamocela, non conviene assolutamente sprecare tutte le forze che in genere si impiegano per l'accumulo smodato di beni materiali) di una scala molto, molto più elevata: non si arriva in cima se non si sono calpestati i primi gradini, tuttavia, a ben guardare, può essere prerogativa di qualche anima magnifica riuscire a saltarli con un balzo solo. A noi, che sovrumani non siamo, conviene certo percorrere tutte le tappe del cursus honorum della felicità: anzi, è già tanto riuscire ad evitare di fare deviazioni intestardendosi C'è addirittura qualcuno che ha provato a spiegare la correlazione denaro/felicità in termini matematici: oh numi, che impresa improba! Easterlin ha notato che la felicità umana aumenta solo fino ad un certo punto e che poi comincia la decrescita: il punto di rottura non si avrà mica quando ci si accorge che, ammassando denaro, si accumulano anche le preoccupazioni, le ansie e i pensieri nefasti che impediscono lapalissianamente lo sbocciare della felicità? Penso che si tratti di qualcosa di simile al principio del "da un grande potere derivano grandi responsabilità": più influisci sulle vite degli altri (ebbene sì, la ricchezza porta a questo), meno sei padrone della tua. Altri ancora, poi, si sono spinti perfino ad istituzionalizzare la felicità: stavolta è il turno dei firmatari della Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti, in cui compare appunto il celebre diritto alla ricerca della felicità, che suona tanto poetico, specie se messo in un contesto così formale come quello della politica, ma alla fine io non ho mai capito che cosa fosse. La ricerca della felicità non è inclusa nell'esercizio delle proprie libertà? E soprattutto, a quale prezzo va ricercata? Quanto vale la felicità? Quanto valgono pochi attimi di estatica realizzazione umana? Perché sì, noi trascorriamo tutta la vita a inseguire queste impertinenti scintille, questi ipnotici fuochi fatui e alla fine la felicità non consiste in altro che in pochi istanti di assaggio del nettare olimpico. Penso che l'errore più grande in cui cadono quelli che si aggrappano all'oro sia pensare che la ricchezza possa essere eterna, oltre che eternamente incrementabile. Oh no, le monete scivolano via come olio, e voi come tutti avete solo due mani con cinque dita ciascuna! La felicità vera non è come la serenità, che invece ha la sorridente e duratura calma del mare in bonaccia. La serenità è il cielo stellato, la felicità è il passaggio di una cometa, e la saggezza sta nel riconoscere che innanzitutto per acchiappare quest'ultima con lo sguardo bisogna prima fermarsi a fissare la volta celeste e soprattutto che è inutile e vano e quasi fuorviante innalzarsi su scale chilometriche per tentare di toccarla: per godersela davvero basta semplicemente trovare la posizione giusta a terra.

1 commento:

  1. Credevo avessi abbandonato questo divino dono: mi mancava l'appuntamento settimanale con l'oracolo.
    Spero tu non promuova le voci del TG4 sull'orribile trapanazione compiuta dal terrificante lander Philae sulla cometa 64P, perchè tu preferirai stare comoda a guardare le stelle e ammirarle in tutta la loro innocenza ma non c'è niente di più bello che poterle studiare e capire la loro struttura. Avere a disposizione strumenti che provino le tue teorie o le falsifichi completamente ti portano una felicità immensa che potresti capire solo studiandole. Ognuno di quei piccoli puntini luminosi sulla volta celeste ha una propria storia che evolve nel tempo e cambia a seconda del metro che utilizzi per analizzarla. Ti invito a leggere questa riflessione di Carl Sagan: http://it.wikipedia.org/wiki/Pale_Blue_Dot

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