giovedì 27 febbraio 2014

De officiis (inter tenuiores et potentiores amicos)

Il titolo del post di oggi è anche quello (ma senza parentesi!) di un breve trattato latino di cui è autore Giovanni Della Casa, lo scrittore del Galateo, per intenderci, ed è stato scelto a proposito di un evento accadutomi non troppo tempo fa. Correva l'estate scorsa. Reduce da un'intensa giornata costellata di imprecazioni in tutte le lingue conosciute e non contro i mocciosi di undici anni a cui davo ripetizioni, davanti ai quali avevo infine capitolato spiegando loro l'apparato digerente con "bocca-tubo lungo-sacca-tubi mollicci-buco del culo", decido di recarmi in spiaggia, il che significa anche portarsi appresso quel codazzo di esseri umani con cui condivido parte del mio corredo genetico volgarmente definito famiglia. Cosa non si fa per un po' di rilassamento! Fattasi ormai sera e avendo assistito alla ritirata in armi anche dell'ultima vecchia dotata di sdraio, mi godo l'ebbrezza del possedere, almeno per un po', la spiaggia intera. È qualcosa di galvanizzante per chiunque, ma per me ancor di più perché l'acqua è da sempre il mio elemento e perché sono sempre stata un'anima schiva e solitaria: la spiaggia vuota è la mia tranquilla euforia. Tutto ha però una fine e stavolta a ricordarmelo ci pensa mio fratello, a modo suo, ovviamente: lanciandomi un pugno di sabbia addosso. Hop, hop! La pacchia è finita. Ma dato che una delle poche cose comuni ai membri della mia famiglia è la pigrizia, soprattutto quando si tratta di cucinare (mica di mangiare, figuriamoci), ci fermiamo a cenare nella pizzeria di fronte alla spiaggia. E credo sia stata l'iniziativa più fortunosamente pigra di tutta l'estate: quando il cameriere ci indirizza verso il nostro tavolo e ognuno di noi sta per prendere posto, un sorridente e distinto signore di mezz'età si alza per far accomodare meglio me e mia madre. È colui che si rivelerà essere il nostro vicino di tavolo, accompagnato da una gaudente signora dai tratti nordici che si presenterà come sua moglie. Discorrendo, scopriamo che la coppia non è italiana ma tedesca e, sebbene conducesse una vita sana e felice in quel di Crucchiolandia, ha masochisticamente deciso di abbandonarla per aprire un'azienda di prodotti agricoli in questo viottolo senza uscita che è il tacco d'Italia. Lo so, sembra la trama di uno dei quei film americani misticheggianti ma vi assicuro che è tutto vero. Passiamo la serata a mangiare pizze insipide e a discorrere amabilmente del più e del meno come vecchi amici, o meglio, quello lo fanno i miei e la coppia di sconosciuti: a me tocca tradurre tutto dall'inglese all'italiano e viceversa (avrei dovuto farmi pagare quella sera, mannaggia la pupazza). Al termine della serata, il signore si alza e fa il baciamano a me e a mia madre. Il baciamano. Roba che io pensavo fosse passata di moda nel Medioevo e invece no. Chiunque mi conosca sa che, nonostante io sia zitella dalla nascita, non disdegno le romanticherie, sempre ammesso che non sfocino nella sdolcinatezza, e sa anche che adoro le usanze d'altre tempi, quindi se un determinato costume vanta il favore delle Grazie e più di due secoli di storia per me sfiora le nuvole del paradiso. Dubito che il signore lo sapesse o potesse averlo dedotto (del resto odoravo di salsedine e indossavo un vestitino stropicciato), ma diamine, che classe per una pizzeria a pochi passi dal bagnasciuga, e soprattutto nei confronti di una ragazza e una donna qualunque! Nel raggio di pochi metri erano seduti esemplari di femmina umana decisamente più degni di nota rispetto a noi, eppure lo straniero ha scelto le sottoscritte per intavolare una conversazione bilingue. Oppure, ancora: sono così poco abituata ad essere vezzeggiata da trovare straordinario qualcosa che magari per altri è ordinaria amministrazione. Credo che metà degli avventori del locale si sia girata a guardare la scena (l'altra metà era costituita da tamarri mezzi ubriachi, quindi non contava) e per un attimo ho pensato che un tipo qualunque che avesse appena fatto il baciamano a due sconosciute avrebbe come minimo ricevuto una strigliata galattica dalla moglie appena fuori dalla pizzeria (sempre ammesso che io e la mia genitrice fossimo riuscite a sopravvivere ad eventuali sguardi di fuoco da parte della suddetta); macché, quella sorrideva così genuinamente che sembrava appena uscita dalla pubblicità di un'azienda che produceva latte di mucca. Insomma, fatto sta che durante il tragitto in macchina pizzeria-casa io e mia madre non possiamo fare a meno di sentirci piuttosto scosse riguardo la serata appena terminata: incontrare degli stranieri è già un'esperienza eccitante e incontrarne uno che ti faccia il baciamano è deliziosamente lusinghiero, ma incontrarne due che abbiano lasciato la Germania in pieno possesso delle proprie facoltà mentali (o almeno così presumo) per stabilirsi in Italia in questo periodo va oltre i confini della fantascienza.

giovedì 20 febbraio 2014

Error, conditio, votum, cognatio, crimen

«Error, conditio, votum, cognatio, crimen, cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, si sis affinis...» cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita. «Si piglia gioco di me?» interruppe il giovine. «Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?»
 Il passo citato è tratto dal secondo capitolo dei mitici Promessi Sposi di Manzoni, romanzo a cui sono stata iniziata ormai più di un anno fa per motivi puramente scolastici ma che ho imparato ad amare per motivi personali. Nel caso ve lo stiate chiedendo, sì: anch'io ho odiato Lucia durante tutta la lettura del romanzo. Tuttavia non nascondo di aver avuto bisogno di riflettere sulla sua figura alla fine del lungo viaggio intrapreso con quel tomo e di averla trovata, in fondo, non così negativa come l'avevo immaginata. Anzi, l'ho davvero rivalutata. Il mio personaggio preferito resta però la Signora, preda di un lacerante conflitto interiore e algida proprietaria di una personalità troppo debole per reagire ma troppo forte per obbedire, che attualmente gode del privilegio di essere una delle figure in cui sono riuscita ad identificarmi di più in tutta la letteratura (il che non è oggettivamente un fatto positivo ma tant'è). Per restare in tema, rassicuro i miei venticinque lettori di non essere stata costretta dai miei a farmi suora. Data la primogenita che si ritrovano, al massimo potrebbe accadere il contrario.
Ma ritorniamo alla citazione iniziale. Il giovine che risponde stizzito a don Abbondio altri non è che Renzo, ovvio, e ha ben ragione di rivoltarsi così contro il principale impedimento alla sua piccola felicità. Il ragazzo però si scaglia anche contro il mezzo usato dal pavido curato per giustificare, o meglio nascondere, il reale impedimento alle nozze: il mitico latinorum, con tanto di desinenza sbagliata per restare in linea con il personaggio. In questo caso non si può che tifare perché il nostro montanaro faccia valere i suoi diritti, ma in generale il latinorum è sempre stato visto con sospetto, se non ostilità, da parte della massa, in quanto mezzo prediletto per la selvaggia strumentalizzazione della suddetta. L'atavico binomio cultura-cattiveria, in passato così intrinsecamente legato alla tirannica classe dirigente, avrebbe dovuto essere disgiunto tanto, tanto tempo fa, più o meno quando l'istruzione è stata resa pubblica e obbligatoria, a riprova del fatto che essa è necessaria e indispensabile a tutti, e che grazie ad essa si può finalmente decifrare il linguaggio altrimenti sterile dei capi. Mi rincresce tuttavia ammettere che oggi chiunque scelga di seguire fino in fondo quella strada si ritrovi ad essere guardato dall'alto in basso da chi, invece, ha studiato a stento il necessario solo perché s'ha da fare. Intendiamoci, tutti i lavori hanno pari dignità, ma è innegabile la constatazione che per accedere a quelli di maggior prestigio sociale e quindi più dichiaratamente complicati e indirizzati alla collettività serva anche maggior conoscenza, da secoli e nei secoli, se non altro perché almeno in teoria si abbracciano più campi dello scibile umano e quindi si richiede uno sforzo maggiore rispetto a quello necessario per un mestiere settorializzato.
Gli uomini e le donne di cultura, si dice, si riconoscono perché hanno sempre quell'aria trasognata, citano passi di libri a memoria e sarebbero capaci di inserire dissertazioni filosofiche anche nel menu del ristorante: gente che vive alla leggera, che se lo può permettere perché magari, si sa, ha lo stipendio assicurato; che ne sanno, loro, dei veri problemi della vita, della gente che non arriva a fine mese, che magari pure loro dopo otto ore di lavoro in fabbrica vorrebbero staccare la spina dal mondo intero guardando spettacoli televisivi dichiaratamente orchestrati ad arte piuttosto che documentari naturalistici del National Geographic. Che ne sanno don Abbondio e la sua rendita assicurata del duro lavoro di Renzo? La cultura è un passatempo per i ricchi e gli scansafatiche, mica per chi ha una famiglia a cui pensare.
Con la cultura non si mangia è l'ormai famosa frase di quella mezza calzetta dell'ex ministro dell'economia Tremonti, che all'epoca scatenò un mare di polemiche e che forse è attualmente lo scivolone politicante più famoso dell'Internet, seguito a ruota dell'esilarante tunnel di neutrini della Gelmini.
Volete sapere come la penso io?
È vero. Con al cultura non si mangia, o magari ci mangiano solo quelli che lavorano nei musei o nei teatri o nelle mostre. Se io avessi davanti un barbone, preferirei dargli prima un tozzo di pane piuttosto che una copia della Divina Commedia. Ma col pane si sopravvive, con la cultura si vive, e credo che ogni essere umano dovrebbe aspirare alla seconda opzione, se non altro per rendersi degno di fronte al mondo di quel dono di inestimabile valore che è la vita. Per non cancellare secoli di lotte fatte da chi aveva capito l'intrinseca positività della conoscenza per far sì che la cultura non fosse solo lo scettro dei despoti e la maschera del male ma l'ancella della verità e il balsamo dell'anima.
O almeno per rendere onore a tutti i geni che hanno calpestato il suolo che attualmente porta il nome di Italia. Siate umani e non macchine, siate corpi e spiriti. Nobilitare l'animo è più semplice di quanto si possa pensare.
La cultura ora è per tutti, se lo si vuole.

P.S. E poi chissà che il barbone non possa trovare la forza di andare avanti leggendo la Comedìa...

giovedì 13 febbraio 2014

De amore nesciendo - Vale, vita mea!

Il post di oggi ha due titoli. Il primo significa Sul non conoscere (o ignorarel'amore; sul secondo, invece, mi soffermerò più tardi.
San Valentino è alle porte e, sebbene la mia persona non abbia mai avuto nulla a che spartire con tale festività, trovo irritanti a pari merito sia le imbarazzanti effusioni virtuali delle vittime dell'alato pannoluto sia le frecciatine da parte dei single che rosicano blaterando di presunte cornificazioni tra partner. E vorrei comunicare a questi ultimi che, disgraziatamente per loro ma fortunatamente per noi, le coppie felici esistono: poche, forse, ma esistono. Non so se in tale novero possa essere pienamente ascritta anche quella formata dai miei genitori, fatto sta che però ogni anno papà sgancia rose e/o cioccolatini per la consorte e pure per la sottoscritta, la quale, nonostante sbuffi e invettive contro il consumismo selvaggio, segretamente apprezza entrambi i doni. I fiori, perché sono un'appassionata in incognito del loro linguaggio (certo, le rose sono banali, ma come dicono tutti è il pensiero quello che conta); i cioccolatini, perché colleziono messaggini dei Baci Perugina da tempi immemori e poi, vuoi mettere? ogni occasione è buona per strafogare.
Tuttavia, per quel che mi riguarda, l'amore è sempre stato connesso alla sfera dell'arte: ho visto l'amore in un quadro, l'ho letto in un romanzo, l'ho ascoltato in una canzone, ma non l'ho mai vissuto, e mai come ora ho realizzato che davvero l'arte è μίμησις, ovvero imitazione, della realtà. Per una volta, forse la prima in vita mia, sono dell'idea che l'arte non eguagli né migliori la realtà, ma semplicemente la... anestetizzi; i sogni e la bellezza sono fugaci e l'arte è, ahimé, troppo eterea per essere vera. Mi hanno sempre ripetuto che i libri non t'insegnano né l'amore né l'amare, che stavolta la scuola non serve a niente, che l'aver letto sonetti medievali non ti rende edotto circa la Cupidinis potestas. È una cosa che non ero mai riuscita ad accettare fino in fondo: è come dire che per capire quanto è profondo un burrone ti ci devi affacciare per forza. Poi, l'illuminazione. L'amore, per essere e per definirsi tale, ha bisogno dell'ἐμπειρία, l'esperienza. È una cosa così oggettivamente bella e superiore che non necessita di calcoli e supposizioni, di parole e descrizioni, che lasciano la persona insoddisfatta. Guardate il fondo dell'abisso e tutto sarà chiaro. L'amore vuole fatti compiuti alogicamente, vuole concretezza e follia.
Non conosco l'amore ma ne parlo lo stesso. O forse l'ho visto e non me ne sono accorta, mi è passato davanti e non ci ho semplicemente badato.
E qui ritorniamo al secondo titolo. Questo si riferisce ad un piccolo aneddoto che mi riesce alquanto difficile raccontare in quanto pregno di intimità, ma di cui, inspiegabilmente, sento il bisogno di parlare. Vale, vita mea in latino significa Addio, vita mia. Le parole italiane sono quelle pronunciate da mia nonna quando, stringendo in mano un fazzoletto, all'uscita della chiesa, ha salutato il carro funebre che si allontanava con le spoglie del nonno. Di quei pochi attimi ricordo che lei non piangeva: chissà, forse aveva già finito le lacrime, forse le erano rimaste bloccate in gola, forse non ne aveva mai avute.
Vale in latino era sia un saluto di commiato sia una formula fissa che ricorreva a conclusione delle epistole e il cui significato si aggira sostanzialmente sullo "stammi bene". Trovo che questa parola abbia una bellissima sfumatura esortativa e una pronuncia che si perde nel vento, ma contemporaneamente mi piace pensare che si sia realizzata la speranza che è all'origine del termine italiano "addio", il quale è, linguisticamente parlando, l'univerbazione delle parole a Dio [sottinteso vi raccomando], ma, grammatica a parte, ci regala l'idea che una persona che ne saluti un'altra per sempre la affidi, anche se ormai quasi inconsciamente, a chi ha più potere di tutti, sia in questo mondo, sia nell'altro, ovvero all'Amore divino che move il sole e l'altre stelle...

giovedì 6 febbraio 2014

Ars gratia artis

Reduce da una lezione di storia dell'arte sulla scultura nella Grecia classica e da un bombardamento mediatico circa la presunta eliminazione della suddetta materia dalle scuole (in realtà si sarebbe trattato di una riduzione delle ore, cosa peraltro già approvata e messa in pratica qualche anno fa, che tra l'altro sperimento io stessa), sento di aver voglia di parlare d'arte. L'Arte. Nell'antica Grecia era sotto l'alto patronato delle dee d'Elicona, le Muse, che sostanzialmente svolgevano il ruolo di segretarie di Apollo in quanto il laureato (nel senso di incoronato d'alloro, figurati se una divinità si prendeva la briga di studiare, anche perché lì acculturati si nasce) d'Olimpo governava così tante cose che ormai le sue vacanze di trecento giorni l'anno erano messe a dura prova, quindi decise di assumere quelle povere ragazze sottoponendole a orari di lavoro da incubo e stipendi da stagista di Camera Café finché queste non si ribellarono e iniziarono a prendersi i meriti delle loro opere. Del resto una gnocca in abiti succinti che si accosta all'artista di turno e gli sussurra languidamente all'orecchio "Stai scialla che ora ci penso io" è decisamente più poetica di un palestrato riccioluto che gli dice "Beh? E mo che famo?". Insomma, la vita scorre placida per duemila anni. L'Arte fiorisce, ma che dico? non solo fiorisce, ma crea un giardino lussureggiante di rarità ed esotismo. Chiunque si accosti ad essa, sia questo uomo o donna, giovane o anziano, plebeo o patrizio, europeo o asiatico, tronista di Uomini e donne o persona normale, non può fare a meno di restarne estasiato. E come potrebbe essere diversamente? L'Arte è la massima espressione del genio umano, è la summa maxima della bravura, dell'ingegno, della cultura, dell'osservazione. L'Arte non è fatta da tutti ma è fatta per tutti. Sembra dunque che proprio in virtù del rispetto di quest'ultimo assioma convenzionale dell'Arte le Muse indignate abbiano deciso di chiudere baracca e burattini e cominciare a delegare nuovamente tutto ad Apollo. Perché vabbè che sono divinità ma quando è troppo è troppo. Una pallina di creta con impronte digitali definita scultura? Una tela imbrattata di spruzzi di acrilico definita pittura? Un'accozzaglia di rumori agghiaccianti definita musica? Una fan fiction di una directioner definita scrittura? Eh no. Le Muse non ci stanno. Loro infondono il soffio dell'ispirazione, ma sta al corpo dell'artista saperlo accogliere e modellare degnamente. E fregiarsi di un tale titolo se non ci si è meritati nemmeno un'occhiata da parte del divino gruppetto è a tutti gli effetti un peccato di ὕβϱις. Credo che le ragazze stiano scioperando da un secolo e mezzo circa, più o meno da quando si è deciso che per fare arte bastava mettere due cose in croce, perché tanto poi la responsabilità di un'eventuale incomprensione dell'opera sarebbe stata da attribuire esclusivamente allo spettatore, reo di non avere abbastanza fantasia o profondità interiore per cogliere il messaggio dell'operatore (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di artista, avrebbe detto Manzoni) o crearsene uno tutto suo seguendo la propria interpretazione. Ma l'Arte, prima di essere cultura, ingegno, genio, osservazione, è Bellezza, perché ammalia i sensi ancora prima che questi possano realizzarne a pieno la portata sotto qualsiasi punto di vista. E per quel che mi riguarda, l'Arte è semplicemente l'estasi della mia anima.