giovedì 20 febbraio 2014

Error, conditio, votum, cognatio, crimen

«Error, conditio, votum, cognatio, crimen, cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, si sis affinis...» cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita. «Si piglia gioco di me?» interruppe il giovine. «Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?»
 Il passo citato è tratto dal secondo capitolo dei mitici Promessi Sposi di Manzoni, romanzo a cui sono stata iniziata ormai più di un anno fa per motivi puramente scolastici ma che ho imparato ad amare per motivi personali. Nel caso ve lo stiate chiedendo, sì: anch'io ho odiato Lucia durante tutta la lettura del romanzo. Tuttavia non nascondo di aver avuto bisogno di riflettere sulla sua figura alla fine del lungo viaggio intrapreso con quel tomo e di averla trovata, in fondo, non così negativa come l'avevo immaginata. Anzi, l'ho davvero rivalutata. Il mio personaggio preferito resta però la Signora, preda di un lacerante conflitto interiore e algida proprietaria di una personalità troppo debole per reagire ma troppo forte per obbedire, che attualmente gode del privilegio di essere una delle figure in cui sono riuscita ad identificarmi di più in tutta la letteratura (il che non è oggettivamente un fatto positivo ma tant'è). Per restare in tema, rassicuro i miei venticinque lettori di non essere stata costretta dai miei a farmi suora. Data la primogenita che si ritrovano, al massimo potrebbe accadere il contrario.
Ma ritorniamo alla citazione iniziale. Il giovine che risponde stizzito a don Abbondio altri non è che Renzo, ovvio, e ha ben ragione di rivoltarsi così contro il principale impedimento alla sua piccola felicità. Il ragazzo però si scaglia anche contro il mezzo usato dal pavido curato per giustificare, o meglio nascondere, il reale impedimento alle nozze: il mitico latinorum, con tanto di desinenza sbagliata per restare in linea con il personaggio. In questo caso non si può che tifare perché il nostro montanaro faccia valere i suoi diritti, ma in generale il latinorum è sempre stato visto con sospetto, se non ostilità, da parte della massa, in quanto mezzo prediletto per la selvaggia strumentalizzazione della suddetta. L'atavico binomio cultura-cattiveria, in passato così intrinsecamente legato alla tirannica classe dirigente, avrebbe dovuto essere disgiunto tanto, tanto tempo fa, più o meno quando l'istruzione è stata resa pubblica e obbligatoria, a riprova del fatto che essa è necessaria e indispensabile a tutti, e che grazie ad essa si può finalmente decifrare il linguaggio altrimenti sterile dei capi. Mi rincresce tuttavia ammettere che oggi chiunque scelga di seguire fino in fondo quella strada si ritrovi ad essere guardato dall'alto in basso da chi, invece, ha studiato a stento il necessario solo perché s'ha da fare. Intendiamoci, tutti i lavori hanno pari dignità, ma è innegabile la constatazione che per accedere a quelli di maggior prestigio sociale e quindi più dichiaratamente complicati e indirizzati alla collettività serva anche maggior conoscenza, da secoli e nei secoli, se non altro perché almeno in teoria si abbracciano più campi dello scibile umano e quindi si richiede uno sforzo maggiore rispetto a quello necessario per un mestiere settorializzato.
Gli uomini e le donne di cultura, si dice, si riconoscono perché hanno sempre quell'aria trasognata, citano passi di libri a memoria e sarebbero capaci di inserire dissertazioni filosofiche anche nel menu del ristorante: gente che vive alla leggera, che se lo può permettere perché magari, si sa, ha lo stipendio assicurato; che ne sanno, loro, dei veri problemi della vita, della gente che non arriva a fine mese, che magari pure loro dopo otto ore di lavoro in fabbrica vorrebbero staccare la spina dal mondo intero guardando spettacoli televisivi dichiaratamente orchestrati ad arte piuttosto che documentari naturalistici del National Geographic. Che ne sanno don Abbondio e la sua rendita assicurata del duro lavoro di Renzo? La cultura è un passatempo per i ricchi e gli scansafatiche, mica per chi ha una famiglia a cui pensare.
Con la cultura non si mangia è l'ormai famosa frase di quella mezza calzetta dell'ex ministro dell'economia Tremonti, che all'epoca scatenò un mare di polemiche e che forse è attualmente lo scivolone politicante più famoso dell'Internet, seguito a ruota dell'esilarante tunnel di neutrini della Gelmini.
Volete sapere come la penso io?
È vero. Con al cultura non si mangia, o magari ci mangiano solo quelli che lavorano nei musei o nei teatri o nelle mostre. Se io avessi davanti un barbone, preferirei dargli prima un tozzo di pane piuttosto che una copia della Divina Commedia. Ma col pane si sopravvive, con la cultura si vive, e credo che ogni essere umano dovrebbe aspirare alla seconda opzione, se non altro per rendersi degno di fronte al mondo di quel dono di inestimabile valore che è la vita. Per non cancellare secoli di lotte fatte da chi aveva capito l'intrinseca positività della conoscenza per far sì che la cultura non fosse solo lo scettro dei despoti e la maschera del male ma l'ancella della verità e il balsamo dell'anima.
O almeno per rendere onore a tutti i geni che hanno calpestato il suolo che attualmente porta il nome di Italia. Siate umani e non macchine, siate corpi e spiriti. Nobilitare l'animo è più semplice di quanto si possa pensare.
La cultura ora è per tutti, se lo si vuole.

P.S. E poi chissà che il barbone non possa trovare la forza di andare avanti leggendo la Comedìa...

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