giovedì 13 marzo 2014

De beatitudine familiae

«Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è disgraziata a modo suo.» (Lev Tolstoj, Anna Karenina) 
Ho letto il capolavoro di Tolstoj esattamente un anno fa e mi piacerebbe dire che ci ho impiegato tre mesi per godermelo appieno, ma in realtà ero impegnata con la scuola e perciò, mi duole ammetterlo, avevo poco tempo da riservare alla lettura. L'incipit del libro è tra i più celebri e i più incisivi della letteratura: non ha la poesia di Nel mezzo del cammin di nostra vita, non ha la deliziosa vezzosità di It is a truth universally acknowledged, non ha l'epicità senza tempo di Arma virumque cano, non ha l'ardente dannazione di Lolita, light of my life, fire of my loins ma ha lo scomodo potere di colpirti come un dardo avvelenato, perché semplicemente tutti, in modo o nell'altro, hanno avuto o hanno ancora una famiglia. Tolstoj inizia il suo libro conficcando un ago nel cuore del lettore: parlando cioè della famiglia, ma parlando anche (e, continuando a leggere, sarebbe forse meglio dire "soprattutto") del suo lato oscuro. La famiglia è, per antonomasia, una riproduzione in scala del paradiso terrestre, un luogo in cui ci si sente amati, un nido caldo e accogliente in cui tutti ti capiscono, ti accettano e ti adorano per come sei. Inutile dire che, per molti, così non è. Mi piace immaginare che la maggior parte dei lettori si sia ritrovata totalmente spiazzata dall'incipit e si sia fermata a riflettere sulla condizione della propria famiglia e sui requisiti necessari per definirla infelice. Quand'è che, esattamente, una famiglia è infelice, disgraziata, disagiata? È necessario che viva sotto i ponti o che non arrivi a fine mese? È necessaria almeno qualche percossa, qualche insulto, qualche tradimento o separazione in più? Qual è la soglia da oltrepassare per entrare nel triste novero delle famiglie infelici? Tolstoj sembra dividere il mondo in due categorie, seguendo una classificazione che più basilare non si può, ma non lo fa in maniera rigida e schematica: lo fa come se stesse parlando di qualcosa di naturale, come di donne e uomini. È come se dicesse che un uomo non può capire cosa significhi provare i dolori del travaglio e del parto non per propria colpa, semplicemente perché è nato uomo e né lui né le donne possono farci niente. Tolstoj non si profonde in un velato j'accuse, si limita a descrivere i fatti con un lieve senso d'impotenza misto a rassegnazione, come un bambino che guarda sognante un negozio di caramelle ma che sa che, per un motivo o per l'altro, entrambi indipendenti da lui, non potrà mai entrarci. La prima volta che ho letto l'incipit mi sono figurata un codazzo di luminose famiglie sorridenti con prole degne della migliore propaganda d'era vittoriana e uno sparuto gruppetto di persone dai volti scuri, unite fra loro da meri legami di sangue, sprezzanti del mondo e da esso emancipate, che si dirigevano ciascuna in direzioni diverse. Ci sono tanti modi di peccare ma uno solo di essere santi, sembra dirci l'autore. Ma i confini ben definiti non mi sono mai stati congeniali e fatico a credere che il nostro complicato universo possa essere ingabbiato in due singole definizioni; può darsi che l'autore, quando ha scritto delle famiglie felici, non pensasse realmente ad un idillio dal retrogusto bucolico, ma più semplicemente ad una realtà fatta di piccole cose, in cui sono piccoli anche i peccati, che di conseguenza si accontentano di un perdono di minor sforzo. I protagonisti del romanzo, invece, hanno a che fare con le menzogne, l'odio, il rifiuto, la vendetta e, primo fra tutti, il tradimento, il peccato che Dante relegò nell'infimo stadio dell'Inferno. Anna, la donna attorno alla quale ruota tutta la vicenda, tradisce il marito, sposato controvoglia anni addietro per motivi di pura natura economico-sociale e, folle d'amore, di vergogna e di rabbia, si suicida: ha anteposto il suo bene alla reputazione della famiglia, non reprimendo i suoi sentimenti e, per dirla poeticamente, non pensando alle sorti del marito e del figlio. Anna, insomma, ha pensato a sé. Grosso, grosso errore. In una famiglia gli errori e le relative conseguenza ricadono automaticamente sul resto del gruppo, come in una specie di ultimo baluardo di una società dei tempi antichi. In una famiglia non si pensa a sé, ma al bene degli altri, anche se questo comporta, nei casi peggiori, sacrificare la propria individualità. Forse si può biasimare Anna per non aver pensato al marito che, volente o nolente, le era toccato in sorte, e al figlio, che comunque amava davvero: ma come la si può biasimare per aver, almeno una volta, preso le redini della propria vita? Uno dei contrasti più evidenti è dunque quello fra collettività e individuo, fra famiglia e singolo, fra un gruppo in cui ognuno deve svolgere un ruolo preciso per tenere in piedi la società e la spinta individualista del proprio animo. Il mondo, per restare in piedi, chiede un sacrificio ad ognuno di noi: rispettare i ruoli imposti. Anna se ne libera e diventa un'eroina, ma cosa sarebbe successo se, invece, tutti avessero sempre fatto come lei? La sofferenza, il dolore, il rimorso, il rimpianto esistono in ogni famiglia: la differenza tra una felice e una infelice, forse, sta nella capacità di dissimulare.

1 commento:

  1. Una bellissima riflessione, che, fra l'altro, incontro anch'io a poco più di un anno dalla lettura. Penso che la conclusione del tuo post sia, in effetti, il nucleo della familiarità quali appaiono dal romanzo: Karenin, Dolly, la contessa Vronskaja sono tutti campioni di dissimulazione, capaci di soffocare dietro le apparenze della buona società i loro drammi, l'artificiosità dei rapporti coniugali, l'infelicità dei tradimenti. La società chiama, e Anna, da un certo punto in poi, non risponde...

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