giovedì 21 agosto 2014

Amor memoriae

Tanto tempo fa, in un minuscolo paesino del meridione d'Italia, in quella che un tempo fu la terra dei Greci e dei Romani e prima ancora dei Messapi, sorgeva un castello. Anzi, a dirla tutta era il villaggio a sorgere intorno al castello: quest'ultimo, infatti, era nato in un'epoca lontana in cui si favoleggiava di dame e cavalieri, ma al tempo in cui nei dintorni iniziarono ad affollarsi i popolani degli altri paesi esso non era altro che un rude maniero adibito alla difesa dei confini dei territori dell'area tarantina, abitato quasi esclusivamente da quelle vigiliae che avrebbero inconsapevolmente dato il nome al villaggio che si stava formando. La vita del castello proseguì prospera e felice per i secoli che seguirono e l'imponente dimora passò di mano in mano, arricchendo le liste dei possedimenti ora di un nobile ora di un altro, finché un giorno gli capitò perfino di ospitare la futura regina di Napoli Isabella, che aveva ivi deciso di ristorarsi durante il viaggio che dal profondo Salento l'avrebbe condotta nella bella Partenope per sposare re Federico. Ma il castello, memore esso stesso della funzione per cui era stato costruito, non si perse negli agi e negli ozi che inevitabilmente derivavano da un arricchimento generale e dal conseguente impigrirsi dei costumi: nei primi anni del Cinquecento, durante la guerra tra Francia e Spagna, si ribellò coraggiosamente ai francesi, anche se purtroppo ci è rimasto sconosciuto l'esito finale di questo affronto. Alla fine del XVIII secolo il maniero divenne di proprietà della famiglia Imperiali, a cui oggi la via in cui abito è intitolata: segue poi un buco nelle fonti che ci trasporta direttamente al 1850, anno in cui sappiamo da uno storico cittadino che del castello, ahimé, ormai, sopravvivono solo scarne rovine, insieme all'ombra della gloria che passò. Nel 1914, mentre in Europa inizia a soffiare l'atroce vento della guerra, un altro storico locale riferisce che non sono rimasti che pochi ruderi: nei locali a pianterreno (quelli superiori erano inagibili), tuttavia, scorge ancora alcuni affreschi, e riesce anche a leggere un'iscrizione posta sull'architrave di una finestra che dava sul cortile, la quale diceva "enfaio proprio sepe delicie", e lo interpreta come un malinconico riferimento a quel posto che, forse, per qualcuno era stato luogo di delizie. Nel 1925 vengono scoperti altri affreschi risalenti al Trecento, ma la cronista che verga queste parole sulle sue pagine aggiunge anche che questi erano gravemente a rischio perché i monelli del paese si dilettavano a gettar le pietre attraverso l'inferriata della cancellata, e una prova di coraggio, un "rito di passaggio" per i ragazzini di allora consisteva nell'addentrarsi nei locali sotterranei situati nei pressi dell'edificio e posti sotto alla ghigliottina e avanzare fino a scorgere e contemplare le ossa di coloro che furono quivi giustiziati in epoche remote. La Soprintendenza, nel frattempo, si disinteressava totalmente dello stato di abbandono del castello, facendo così il gioco dell'allora padrone dell'edificio che, negli anni 50, finalmente si sbarazzò definitivamente di quel rudere, e nemmeno di sua mano: l'aveva volontariamente abbandonato all'incuria paesana per sfruttare il terreno per costruirci abitazioni private, le stesse che tuttora circondano una piazza che del castello di secoli prima ha solo il nome e, quasi come ultima beffa, ne conserva e ricorda, inevitabilmente, la forma del cortile.
Del castello, di quell'edificio imponente che un tempo doveva aver dominato una delle aridissime zone della mia Apulia siticulosa, dunque, non è rimasto nulla: svanito, come una manciata di polvere nel vento, quasi assente perfino nei ricordi degli anziani, forse perfino da questi volutamente ignorato. Nessuno ne parla più, e quando capita che qualche bambino impertinente chieda ai genitori dove si trovi il castello che dà il nome alla piazza, e che inevitabilmente i fanciulli associano alle fiabe, essi rispondono nulla che non sia: "non c'è più". Una domanda che ho posto anch'io svariate volte all'intero parentado, da cui ho ricevuto la medesima, eloquente risposta, che sostanzialmente voleva dire "quello che è stato è stato, e non ci interessa nient'altro": penso che il mio pallino, anzi, chiodo fisso, per la conservazione, il restauro e la valorizzazione dei beni culturali sia nata proprio da qui, almeno in parte. Io... riesco ad accettare l'idea del trascorrere del tempo, riesco perfino a concedere un'attenuante all'ignoranza dei contadini, ma non riesco a concepire l'idea che qualcuno possa aver desiderato la distruzione di quelle due pietre in croce e che la Soprintendenza, nonostante i ripetuti e solleciti richiami da parte di qualche cittadino preoccupato, non si sia curata di alcunché. E, cosa ancor peggiore, non sopporto l'idea che oggi non se ne ricordi nessuno: non è la morte la vera fine, è l'oblio. Il castello del mio paese probabilmente non avrà cambiato la storia, non avrà ospitato capolavori artistici di maestri del Rinascimento, non avrà accolto i concili di eminenti nobili che hanno deciso le sorti del mondo, però... aveva il suo valore. Lo aveva, e lo ha ancora, per chi vuole che lo abbia. Volendo buttarla sulla venalità, avrebbe avuto anche costituito una fonte di guadagno piuttosto redditizia per il turismo locale.
Altre pietre in condizioni più che precarie sono quelle che compongono una chiesetta medievale poco fuori dal paese, nei cui dintorni sono state rinvenute tombe dello stesso periodo e perfino tracce di insediamenti di epoca romana. La chiesa, che sorge su un luogo consacrato da più di duemila anni (prima ad una dea assimilabile alla Vesta romana, poi alla Vergine), è stata prima profanata dai tombaroli che, alla ricerca di tesori, ne hanno sventrato e distrutto l'interno (tant'è che ora si può accedere soltanto camminando su una passerella di metallo sopraelevata rispetto al pavimento ricoperto di macerie, in fondo alla quale si trova un tavolino con una vetusta immagine della Madonna contornata da qualche fiore a ricordare, nonostante l'annientamento dell'altare, l'originaria funzione di quel luogo), poi dai vandali, che ne hanno imbrattato con scritte oscene i muri. La vecchia chiesa, ormai, non è che lo scheletro di se stessa; eppure mi piace andare lì, respirare quell'antichità che mi congiunge con l'eterno, sfiorare le pareti più volte insultate sia come tempio del cielo sia come dimora della storia, provare a consolare un po' quei sassi solitari che anelano pudicamente e silenziosamente attenzione e rievocano mesti l'impercettibile ma non anodina comunione del presente col passato, tentare di immaginare i volti e i corpi dei trapassati che hanno sfiorato pensierosi la nuda pietra prima di me per chiedere una grazia, per pregare o forse solo per trovare un momentaneo ristoro dopo una lunga camminata o, ancora, per incontrare qualcuno in un luogo insospettabile. Mi riesce così facile immaginare i loro visi e le loro storie che a volte ho perfino la superba impressione di non stare fantasticando a ruota libera ma semplicemente di star assimilando in tutta tranquillità il messaggio trasmessomi dagli antichi mattoni, perfino nelle sue varianti più leggere e vezzose: l'area campestre intorno alla solitaria chiesetta ha difatti tutt'oggi la fama di essere un ritrovo piuttosto ricercato per le coppie adulterine del paese, attorno alle quali finisce per crearsi un alone di chiacchiere alimentato dai sussurri dei benpensanti del paese e dai sorrisi invisibili degli spiriti che di loro approfittano come di un effimero momento di ricreazione che fa dimenticare loro l'insondabile peso dell'eterno.
Quando sono stata sulla via Appia, a Roma, e da irriducibile romantica mi sono chinata per accarezzare quei massi millenari*, mio zio, il mio cicerone per quell'occasione, mi ha detto che è un bene amare queste cose e saperne riconoscere il valore. Ma poi mi ha sussurrato di guardarmi intorno. La Regina viarum era fiancheggiata da imponenti cancelli davanti ai quali stazionavano automobili di lusso e dai quali si sentiva provenire l'abbaiare rauco e feroce dei cani da guardia. E poi, ancora, mi ha indicato una casetta che probabilmente avrebbe fatto la sua figura come cottage nella verdeggiante campagna inglese: e infine, il muro di cui era in parte composta. Lo riconosci, vero? Opus latericium, che domande. Sì che lo riconosco, non è difficile. Sai, vero, che il proprietario di quella casa ha usato un antico muro romano per costruirsela? Non è legale, ovvio, ma se hai il potere tutto è possibile. Un tempo, qui, i ricchi ci costruivano le tombe; ora, invece, i ricchi ci abitano. Non è buffo? Magari quei benestanti vivono dove un tempo giacevano gli altri benestanti, quelli morti però.
Già.
Clio non perdona.

*Perdonatemi se vi rovino l'atmosfera, ma vi ricordo che siete ancora in tempo per prenotare un TSO a mio nome.

2 commenti:

  1. Nessuno prenoterà un TSO a tuo nome e se lo facessero, chi continuerebbe a scrivere su questo bel blog?
    L'oblio del passato implica quello del futuro. In una società come quella attuale dove regna l'ignoranza e l'indifferenza ( io non ne sono estraneo ) è normale non avere cura del passato, il quale dovrebbe fornire una solida base per un' identità e coscienza dell'individuo affinchè possa anche solo pensare al futuro. Un vecchio edificio o anche un cumulo di pietre sono la prova tangibile di un mondo antecedente a quello che noi viviamo giorno per giorno e che dovrebbe essere fonte di ispirazione e ammonimento per le nostre azioni quotidiane e future. Questo, però, non è un mondo ideale e quindi il tutto rimarrà nell'oblio perchè alla fine l'uomo ama così tanto la storia che non smetterà mai di ripeterla.

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  2. Ci piace girare in tondo facendo finta di andare avanti e ignorando di aver già percorso quella medesima via.

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