giovedì 28 agosto 2014

Amor patriae

Oh Puglia Puglia mia, tu Puglia mia                                                      ti porto sempre nel cuore quando vado via                                                             e subito penso che potrei morire senza te                                                                 e subito penso che potrei morire anche con te!                                                                   (Caparezza, Vieni a ballare in Puglia) 
Questa canzone, uscita ormai più di qualche anno fa e diventata subito piuttosto famosa per via della scottante attualità dei temi trattati, è disgraziatamente caduta troppo presto nel dimenticatoio: come se si fosse trattato dell'ennesimo tormentone estivo, come se insieme alla canzone fossero spariti anche i problemi della mia adorata e maledetta terra. Sono nata in un ridente paesino del nord del Salento, che tuttavia appartiene alla provincia di Taranto e ha in sé elementi del dialetto brindisino: tutte caratteristiche che ci alienano irrimediabilmente la simpatia totale di ben tre dei capoluoghi del Tacco d'Italia, ma che ci consentono di fregiarci del titolo di "cuore del Salento" (se ovviamente con questa zona si considera non solo la provincia leccese, ma anche parte di quella tarantina e brindisina, un tempo facenti parte della prospera Terra d'Otranto). E così ho imparato a vivere e perfino ad amare questa splendente terra di tutti e di nessuno, questo deserto rigoglioso di messi: già nell'articolo precedente avevo citato l'Apulia siticulosa d'oraziana memoria, ma quando il poeta di Venosa venne qui, nei luoghi in cui il cristallo liquido delle Naiadi, vilissima rerum a Roma e in Campania, si pagava a caro prezzo, non poteva certo prevedere che la situazione già disastrosa di allora sarebbe di gran lunga peggiorata nei secoli futuri. L'inanissima pars Italiae che compare in una delle lettere di Cicerone ad Attico era diventata tale in seguito alle devastazioni operate proprio dai Romani assetati di vendetta: i miei conterranei d'altri tempi, riottosi e recalcitranti ad accettare l'ecumenico dominio della futura caput mundi, avevano commesso due errori imperdonabili: sostenere prima Pirro e poi Annibale. La mia stessa città, che aveva giurato, eccitata, fedeltà al condottiero venuto dalla lontana Africa, fu impietosamente devastata da Fabio Massimo, a cui qualche politico locale beffardo ha poi intitolato perfino una delle vie del centro. Del Galeso, il fiume all'ombra delle cui fronde si dice sedé Virgilio mentre scriveva le sue Georgiche, non è rimasto che un arido rivoletto che scorre ancora all'ombra plumbea dei fumi delle ciminiere dell'acciaieria della vicina Taranto, da sempre venefico elisir della città. E nonostante tutto ci sono affezionata, a questa terra quasi tutta piatta, che vede nei timidi monti del Gargano e nelle acerbe alture della Murge quasi le forme abbozzate dei seni e del ventre di una ragazzina dai capelli biondi come il grano e la pelle scurita dal solleone, in boccio da mille e mille anni. E gli occhi di un blu profondo che quasi non si distingue dalla pupilla: a noi, a dire il vero, l'acqua non mancava, è che semplicemente ne avevamo di un solo tipo, quella salata, che tuttora cinge benevola le nostre coste come un fecondo nastro ceruleo ma che non ci consente di placare l'aridità della gola. Il mare, nostro orgoglio adamantino e fonte di sostentamento sin dalla notte dei tempi insieme ai nettari d'Atena e Dioniso, è sempre stato crocevia di popoli e genti che ci hanno colonizzato ma anche arricchito. Dal mare sono arrivati i Greci e la loro saggezza, e forse anche i popoli indoeuropei; dal mare sono giunti Arabi e Bizantini, magari spinti del vento di levante (l'indrisinu locale) o dal funesto scirocco che ancora oggi annoda i capelli delle giovani donne del luogo, aiutato dal dispettoso lauru, il folletto che, secondo la tradizione salentina, intrecciava le code dei cavalli e soprattutto causava gli incubi (e che, chissà perché, sembra avere anche un debole per le fanciulle, concetto che si ritrova stranamente espresso in forma molto simile in questo celebre quadro). Si vocifera perfino che certe famiglie fossero state costrette ad allontanarsi dalla propria casa per sfuggire alle sua marachelle, ma invano. Poco male, comunque: noi siamo abituati agli spostamenti, sebbene la nostra non sia una natura nomade. Emigriamo, da sempre cerchiamo fortuna fuori da questo fazzoletto di terra che non è un'isola completa per chissà quale capriccio di Gea, perché la Storia non ci è mai gravitata attorno ma ci ha sfiorato più o meno spesso, e c'ammazziamo di nostalgia per un ritorno che non avverrà mai o troppo tardi. Siamo abituati agli spostamenti anche perché non siamo mai stati solo noi a spostarci: sono stati anche gli altri a venir da noi, come ho già ricordato, e di volta in volta li abbiamo accolti più o meno bene, ma non siamo mai stati chiusi in una sorta di fragile e trasparente guscio d'uovo fatto di malcelata presunzione e non c'è bisogno di crearne uno ora. Ma la gente, si sa, al contrario di quanto si crede, non è mica santa, e il popolo è schiera di angeli o cricca di demoni a convenienza, e in fondo in quattromila anni siamo rimasti sempre gli stessi. Siamo stati così ossessionati dalla famiglia da permettere di farci comandare perfino da quelle che poi avrebbero costituito la mafia, e l'abbiamo inventata noi, quel cancro nero, e dare tutta la colpa ai politici non servirà a niente perché i politici sono come noi e se loro rubano un milione significa che noi rubiamo dieci euro, ma sempre di furto si tratta, semplicemente proporzionato alle proprie possibilità e sempre sempre sempre giustificato, e ci sembra di essere come Ercole che indossa la bellissima camicia intrisa di veleno donatagli da Deianira. Dice mio padre che l'Italia vera inizia dalla Toscana in su, ché noi chissà perché ci ritroviamo accorpati a quelli lì, diceva la mia insegnante di storia delle medie che le cause dell'arretratezza del Sud sono iniziate quando al Nord si sono diffusi i Comuni e noi invece siamo rimasti sublimati nella bolla di monarchie paternalistiche a successione, ché alla fine comunque sai quanto ce ne fregava, si viveva mediocremente ma sempre meglio che male, dateci il panem e poi arrangiatevi. E niente. Dobbiamo andar via, perché per salvar la barca servirebbero sinergie che possiamo solo sognarci, però se quest'Italia è davvero iniziata così male come dicono tutti perché dobbiamo ostinarci a farla finir peggio, rinfacciandoci colpe e falsando dati e numeri? Il passato non serve solo a riempire tomi che decorino le librerie di qualche augusto signore annoiato, discite et mementote. Le lacrime evaporano, le azioni e i loro echi risuonano per l'eternità. Sono salentina, io, ma sono anche pugliese e italiana, sono messapica, greca e romana, araba e bizantina, francese e spagnola: sono tutto quello che sono e che sono stata. Mi è stato insegnato a viaggiare, ad esser cosmopolita ché ormai non siamo più nel Medioevo (ed è una delle cose che desidero più ardentemente da anni), a conoscere e assimilare, a vedere e non guardare, ad amare (ché senz'amore che vita è?), ma mi hanno anche detto che non in tutti i luoghi che attraverserò rimarranno le mie orme, e che ce n'è e ce ne sarà sempre uno solo, invece, in cui non si cancelleranno mai.

5 commenti:

  1. L'arretratezza meridionale è cominciata nel 1860, mia cara: la tua professoressa diceva solo sciocchezze!

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    1. Sarei curiosa di sottoporre il quesito a quel grand'uomo del mio attuale insegnante di storia e filosofia (quando si sarà ripreso dalle sue mirabolanti farneticazioni sulla politica, ovvio). Ad ogni modo, mi piacerebbe leggere qualcosa al riguardo, e ho come l'impressione che tu sappia quali tomi possano placare, almeno in parte, la mia sete...

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  2. Concordo con ReCresco. Quando vi fu l'unione di questo tormentato lembo di terra sotto un'unica bandiera, il meridione fece l'errore di dare i propri averi a quei straccioni del nord pur di mantere il loro status quo cioè i vari signorotti con i loro latifondi (se la memoria non m'inganna).
    "ormai non siamo più nel Medioevo" difatti i storici del futuro chiameranno quest'epoca neo-medioevo o qualcosa di simile visto che ci stiamo inabissando in un futuro dove ogni diritto, strappato a morsi di sangue, e ogni conoscenza, acquisita dai nostri predecessori, viene sotterrata sotto le macerie di un passato che a nessuno interessa e attira. Tempi bui, o Pythia, davanti a noi e tu lo sai molto meglio di me o riesci a vedere qualcosa di più sereno? ^__^

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    1. Beh, se è verità universalmente riconosciuta che dopo la pioggia ci sia sempre il sole, dopo il Medioevo dev'esserci per forza un Rinascimento, no? ;)

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  3. Verissimo, quindi ora bisogna arrivarci sani e vivi, possibilmente evitando il monte Ventoso. u.u

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