giovedì 23 ottobre 2014

De rebellione et re publica

Povera Roma mia de travertino, / te sei vestita tutta de cartone / pe' fatte rimira' da 'n imbianchino / venuto da padrone!
Questi versi, scritti da un anonimo romano in occasione della visita di Hitler a Roma nel 1938, sono le più celebri e salaci ultime parole vergate su uno dei mitici foglietti che, nella storia dell'Urbe, hanno costellato la statua parlante di Pasquino. Questo era nell'antichità una semplice scultura di marmo, come tante ve n'erano a quei tempi, tuttavia nel corso della storia gli è capitato di assumere, suo malgrado, il gravoso ma catartico ruolo di portavoce del malcontento del popolo romano. Da altera statua raffigurante il glorioso re di Sparta Menelao (forse) e ornante il superbo Stadio di Domiziano a torso sfigurato e impietosamente mutilato piazzato in uno dei tanti crocicchi della futura capitale d'Italia a far da valvola di sfogo per le invettive del popolino: bello smacco, eh? Ma Pasquino, cosa mirabile a dirsi (soprattutto se a farlo è la sottoscritta), si è fieramente guadagnato a buon diritto un ruolo di primissimo piano nelle contorte vicende che hanno avviluppato la Roma papalina e forse, al relativamente modico prezzo di un non proprio felice stato di conservazione, ha ottenuto quello che magari non avrebbe ricavato da un'esposizione in un museo, circondato e messo in ombra da tanti suoi simili, molti dei quali più esteticamente soddisfacenti o più archeologicamente interessanti. Pasquino è l'emblema di quel quid di cui lo spirito latino si è sempre voracemente nutrito e, nonostante i papi fossero i primi a volersene sbarazzare per ragioni più che ovvie, quando Adriano VI fu davvero sul punto di gettarlo nel Tevere, fu dissuaso dal farlo proprio dai suoi cardinali, che vedevano nella possibile scomparsa dell'impertinente statua un attacco troppo audace alla congenita inclinazione alla satira del popolo romano. La satira! Satura quidem tota nostra est, denunciava orgoglioso Quintiliano nel I secolo d.C., rimarcando le origini esclusivamente italiche dell'invettiva pungente fatta letteratura: e di chi poteva essere figlia la satira, se non della città eterna e dei suoi tanto megalomani quanto veraci abitanti? Oh, suadente e strisciante serpe dai denti velenosi, benedetto e centellinato flusso acre della società, opposizione fioca e fatale, unico, eloquentissimo antidoto alla secolare corruzione del potere! Per capire chi vi comanda, basta scoprire chi non vi è permesso criticare, diceva una nota massima di Voltaire. E il papa, manco a dirlo... mica era possibile criticarlo, nossignore! Benedetto XIII, per esempio, emanò addirittura un editto che prevedeva pena di morte, confisca e infamia per chi si fosse reso colpevole di pasquinate e fece presidiare la statua da guardie scelte giorno e notte... per tutta risposta, i romani andarono ad appiccicare i loro fogliettini alle altre statue parlanti: Madama Lucrezia, Marforio, il Babuino, il Facchino e l'Abate Luigi. Tappò un buco e se ne formarono cento altri, insomma. Ma cos'altro avrebbe potuto fare il popolo? Una rivoluzione? Morto un papa se ne fa un altro, e poi come non ricordare a tal proposito l'aneddoto narrato da Valerio Massimo che vedeva protagonisti Dionigi, crudelissimo tiranno di Siracusa, e un'anonima vecchietta che, al contrario dei suoi concittadini, pregava affinché questo despota vivesse più a lungo possibile perché l'esperienza le aveva insegnato che alla sua morte ne sarebbe potuto arrivare uno perfino peggiore? Insomma, a meno che non vi sia qualche evento clamoroso o la proverbiale caduta dell'ultima goccia nel vaso già stracolmo a dar fuoco alle polveri, il popolo non prende le armi in mano: tuttavia, non può nemmeno restare a guardare e a subire passivamente, e la satira si presta in maniera eccellente a far da baionetta per le ragioni del volgo. La satira è probabilmente anche l'unica cosa che è rimasta anche ai nostri tempi moderni, o perlomeno qui in Italia, allo scopo, più che di denunciare i misfatti dei potenti, di sollevare un po' su il morale a noi cittadini lamentosi, anche se ammetto che davvero in politica siamo disastrati e non ci resta che piangere e mi vergogno quasi a dirlo ma ringrazio il cielo di non essere ancora maggiorenne per non dovermi ancora accollare il diritto/dovere del voto perché, lo dico col cuore in mano, non saprei a chi dare la mia preferenza. Ho tentato di interessarmi di politica: non è il mio campo d'interesse, ma ci sto provando comunque, perché so che è mio diritto e mio dovere influire, seppur in minima parte, sulle scelte prese dalla classe dirigente del mio Paese nel mio Paese, il problema è che... il quadro generale è, nel migliore dei casi, desolante, o meglio ancora, in uno stato indescrivibile a metà tra lo spiazzante e il disarmante. Là dentro c'è gente che ha a malapena i requisiti necessari per conseguire la terza media, che crede a idiozie complottiste, che avanza proposte oscene (improvvisamente la nomina del cavallo Incitatus a senatore da parte di Caligola parrebbe quasi un atto assennato e magari pure pietoso nei confronti della massima istituzione dello Stato) che sarebbero state ritenute obsolete pure nell'Età del Ferro e blatera idiozie razziste e manipola tutto ciò che c'è da manipolare e non si sforza nemmeno di assumere le parvenze di persona non dico competente ma almeno normale, sana di mente (il fatto che gente che pensa che lo sbarco sulla Luna sia un'invenzione della NASA o di chissà chi altro appoggi le sue rosee e villose natiche sugli scranni parlamentari mi disgusta assai). Non oso dunque pretendere che il politico spicchi fra la massa per le sue qualità superiori, chiedo solo che almeno si confonda in essa e non si metta alla berlina da solo per essersi rivelato un deficiente a tutto tondo, ecco, ché al massimo l'unica cosa buona che fa in questo caso è offrire ottimo materiale ai cabarettisti da villaggio vacanze per la settimana di Ferragosto. È che io non mi stupisco che oggi l'astensionismo alle votazioni sia salito alle stelle: sia chiaro, non lo giustifico, ma lo comprendo, perché credo che il ragionamento di fondo sia il seguente: "se proprio devo essere male governato, che almeno siano gli altri a scegliere di che morte devo morire". Eh, il problema è che certe morti sono più dolorose di altre ma il dolore è percepito da ognuno in maniera diversa, quindi una scelta s'ha da fare. Canta de Gregori in "La storia siamo noi":
E poi ti dicono "tutti sono uguali, tutti rubano nella stessa maniera" / ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera.
Ha ragione? Eh, sì. Anche quando tutto pare un'indistinta nebula grigia bisogna cercare di raccapezzarsi e non dare ascolto a chi ci dice di lasciar perdere a priori: se cadremo nella lotta, almeno sapremo di essere schiattati con onore. Il problema sta nel fatto che il potere corrompe tutto ciò con cui viene a contatto, come una specie di crudele alter ego del re Mida, e la natura umana, seppur buona in partenza, si abitua ben presto ai meccanismi arrugginiti che muovono il mondo e non trova quindi difficoltà a piegarsi ancora, una volta e per sempre, agli ingranaggi del comando: solo uomini dalla morale integerrima - e chi li trova più - potrebbero riuscire ad opporvisi, tentando di oliare i ferri incrostati, ma il loro successo è quotato uno a un miliardo: gli idealisti, infatti, o si trasformano in materialisti o vengono da questi ultimi fatti fuori. Tuttavia, dobbiamo sperare, sempre. La sera è arrivata già da un pezzo e noi non possiamo assolutamente trincerarci al di là dei nostri piccoli usci: usciamo, accendiamo torce e candele, non importa quanta luce faranno, accendiamole e basta, e se verranno spente dal vento o dal soffio di un nemico, chi se ne frega, accendiamole ancora finché non avremo esaurito tutto il combustibile, finché nella scatola di fiammiferi non sarà rimasto altro che un mucchietto di mozziconi bruciacchiati. Ne vale la pena? Oh beh, nessuna causa è persa finché c'è un solo folle a combattere per essa. E se i folli sono di più, le probabilità di vincere aumentano, anche se comunque il tutto resta un po' come il giocare alla lotteria: si rischia più o meno tanto, si perde spessissimo, ma diamine, se si vince è tutto guadagno.

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