giovedì 17 aprile 2014

Vitam regit fortuna, non sapientia

Sabato scorso, a venti metri da casa mia, è morto un uomo. Stava attraversando la strada per entrare nella pizzeria di fronte, dove aveva già fatto prendere posto alla moglie e alla figlia di sette anni, quando è stato investito da un'auto che non si è nemmeno fermata ma il cui guidatore si è costituito un quarto d'ora più tardi dai Carabinieri. Da quel che ho capito, il guidatore non era in stato di ebbrezza né aveva superato i limiti di velocità, e nemmeno alla vittima si possono imputare particolari disattenzioni. Ma la tragedia è comunque avvenuta; vivendo sin dalla nascita in quella zona, so bene quanto sia maledetta la curva presso la quale l'uomo ha perso la vita: in passato si erano già succeduti piccoli incidenti, che tuttavia si erano conclusi in "semplici" screzi fra automobilisti e nulla più. La costruzione dell'edificio occupato dalla pizzeria nuova, poi, non ha fatto che peggiorare le cose, ostruendo ulteriormente la visuale (che chi dice, ovviamente, che alle spalle ci sia qualche sotterfugio burocratico, ma in un paese come il mio è pressoché impossibile discernere le verità nascoste dalle malelingue). Il rumore dell'impatto ha fatto girare di scatto la moglie e la figlia, che hanno quindi assistito impotenti al concitato svolgersi del dramma. O forse, per loro, il dramma è stato una sequenza senza suono di immagini difficili da riordinare e catalogare per capire la vera entità di quanto era appena successo. Niente droga, niente alcool, niente gare di velocità fra pivelli delle quattro ruote, niente di tutto ciò, solo un... caso. Una coincidenza fatale. Né io né altri conosceremo ovviamente mai la verità, ma in casi come questi una domanda, sempre la solita, sorge spontanea: si sarebbe potuto evitare tutto ciò? Forse. Forse sì, forse no. Certo è che le cose accadono anche senza il favore degli eventi: che sia davvero la Dea Bendata a reggere le sorti del mondo? Del resto, anche una pianificazione maniacale del futuro comprende sempre un margine d'incertezza sul quale è difficile soprassedere, che ci lascia talvolta l'amara impressione di essere semplicemente gli amministratori ma non i proprietari della nostra stessa vita. Al momento della tragedia non ero in casa e non so più quale nume ringraziare per non aver assistito, in maniera più o meno diretta, a... tutto quanto. Paradossalmente, ero fuori a divertirmi con le mie amiche. I miei, invece, erano in casa ma non si sono accorti di nulla (la mia famiglia è un caso a parte, non s'accorgerebbe nemmeno dello scoppio di un'atomica in cucina). Non è la prima volta che accade una disgrazia simile né, sfortunatamente, temo che sarà l'ultima, tuttavia il fatto che sia avvenuto praticamente di fronte casa mia mi tocca in un modo indescrivibile. Siamo abituati a sentirci lontani da quei fatti che fanno notizia, per un'ora o per una settimana, sui quotidiani e sui telegiornali: li consideriamo parte di un altro mondo, lontano, più grande, tentiamo di inventarci una spiegazione plausibile anche quando nulla ha senso. Potrei dire che l'incidente è avvenuto semplicemente perché l'uomo stava attraversando la strada proprio mentre passava un'automobile, e tecnicamente è così che sono andate le cose. Tecnicamente, appunto. Ma noi non siamo macchine né robot. Siamo umani e dei resoconti nudi e crudi non ci accontentiamo. Noi abbiamo il dolore e il rimpianto e l'impotenza e la frustrazione. Abbiamo i "perché" urlati al vento incurante, al cielo disinteressato, alla terra crudele. Noi viviamo sull'atomo opaco del Male.
Oggi è anche il giovedì santo (anche se volge alla fine). Qui da noi è tradizione compiere il cosiddetto "giro dei sepolcri", ovvero un tour di tutte le chiese del paese per pregare dinanzi ai tabernacoli decorati che ciascuna ha allestito. Ebbene, ogni chiesa era (ed è tuttora) solita esporre anche la statua che sarebbe stata portata nella processione del venerdì santo dalla confraternita di quella data parrocchia. Ricordo che da piccola passavo minuti interi a fissare quella della Madonna Addolorata, provando un misto di repulsione e attrazione per quella donna dal candido volto di cartapesta e dalle ricamate vesti di pece che sembrava davvero il paradigma dell'umana sofferenza. Ne avevo paura: il contrasto fra pelle e abiti, richiamato ed esaltato poi da quello tra le luci poste alla base della statua e la palpabile oscurità del resto della chiesa mi inquietava in maniera indicibile. Ma allo stesso tempo ne ero irresistibilmente attratta: qualcosa mi spingeva a recarmi alla base della statua, nonostante sapessi benissimo che l'espressione dura di quel viso mi avrebbe spaventata o, peggio, annichilita. Chi ero io per pensare di poter aver anche solo lontanamente a che fare con quella donna misteriosa che, invero, mi sembrava già di aver intravisto da qualche parte? Cosa avevo a che spartire con quella signora immobile che ormai non avrebbe più potuto essere scalfita da alcunché? Cosa c'entravo io con quella piccola, miseranda umana a metà tra due mondi, che si era inconsciamente (incautamente?) assunta sulle proprie spalle un fardello rivelatosi poi troppo pesante? Ogni volta, ogni anno, al volto di quella nera Maria ho sovrapposto i tratti di un altro volto a me noto ma che non riuscivo a focalizzare meglio: era come se in mente avessi ben chiaro il concetto ma non trovassi parole per esprimerlo.
Lei era consapevole del dolore che avrebbe dovuto soffrire (anche a te una spada trafiggerà l'anima...), la famiglia dell'uomo morto sabato sera no. Ma l'uragano è arrivato ugualmente: improvviso, precoce, e devastante e troppo, troppo grande da sopportare. Troppo anche solo per pensare che un cuore umano potesse opporre una vera resistenza. Per quanto si possa essere preparati al peggio, il peggio troverà sempre il modo di dimostrarsi degno di questo nome.

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