giovedì 4 settembre 2014

Tempus fugit

Un vecchio adagio afferma che il tempo sia la miglior medicina. A dire il vero, sono più propensa ad indicarlo come la migliore delle droghe: come una droga, infatti, altera il ricordo del passato e di conseguenza modifica la percezione del presente e la concezione del futuro. O forse, ancora, il tempo è il più potente degli anestetici, perché non fa sparire la radice del dolore, fa sparire il dolore e basta, e spesso sublima anche i nostri sentimenti proteggendoci inconsciamente da situazioni che potrebbero causarci danni simili in futuro. Fatto sta, però, che Crono è anche il più biasimato tra gli dei: capisco perfettamente che l'appropinquarsi del termine dell'operato di Lachesi possa far paura a molti (anche se azzarderei l'ipotesi che a terrorizzare i più non sia tanto la recisione del filo quanto il dolore che si teme di dover provare all'ora fatale, o perfino qualche dubbio atroce sulle proprie convinzioni riguardo l'aldilà), comprendo anche che scivolare lentamente nell'età avanzata ed assistere impotenti al decadimento del proprio corpo sia terribilmente frustrante, ma a dire il vero non riesco a risalire alle cause che in ogni dannatissimo caso ci fanno rimpiangere la gloria che passò, vera o presunta che sia. La fanciullezza è per definizione l'estate della vita e quindi è buona ed encomiabile per definizione: ma possibile che tutti guardino solo a lei come all'unico periodo generoso della vita? Possibile che, col passare del tempo, nessuno abbia preso le scelte giuste o sia diventato il prediletto della Tyche? Dubito che, lasciatasi ormai alle spalle la primavera della gioventù, sia stata tutta una sequela di errori, inciampi e arrangiamenti in un'escalation di allontanamenti dai sogni primigeni. Semplicemente, il tempo ha rimediato ai ricordi spiacevoli del passato edulcorandoli, relegandoli in un cassetto sperduto della mente o facendoli svanire: è uno dei sistemi più evoluti di sopravvivenza psichica inconsciamente adottati dall'uomo. Se però proviamo a far luce sul fenomeno in una scala decisamente più vasta, arriviamo al mitico detto del "si stava meglio quando si stava peggio" e "questa generazione ormai è rovinata", frasi fatte per mezzo delle quali basta davvero poco per arrivare a rivalutare in maniera positiva perfino il Ventennio; poco importa che la tecnologia, almeno in questi concitati decenni di fine XX secolo e inizio XXI, si sia evoluta a ritmi pressoché insostenibili, migliorando innegabilmente la vita quotidiana di gran parte della popolazione mondiale: pare proprio che il progredire dei tempi sia inversamente proporzionale alla promozione della pubblica morale. Mi sembra piuttosto facile dedurre che non sia affatto così, altrimenti la società sarebbe diventata un'unica, gigantesca babilonia da parecchio tempo: è che, tutto sommato, questo guardare al passato prossimo come ad una meravigliosa Arcadia da riproporre ed emulare non è una tendenza recente, anzi, affonda le sue radici nell'antichità, ed è quindi un retaggio culturale che ci portiamo appresso da molto più tempo di quel che pensiamo. Come dimenticare gli integerrimi Romani, che, nel periodo repubblicano, non si stancavano mai di predicare l'efficacia degli insostituibili costumi degli antenati ed elogiarne incessantemente il mirabolante operato storico, opponendosi con le unghie e con i denti al novello spiffero di ellenizzazione che stava iniziando a penetrare nello Stato? I maiores dei cittadini dell'Urbe dovevano essere stati, almeno stando a quanto si favoleggiava, dei cittadini davvero irreprensibili: pii, leali, onesti, severi, giusti, rispettosi di tutte le leggi possibili e immaginabili, perfetti e inimitabili come le Mary Sue dei romanzetti fantasy da due assi. Perfino l'Adone di Prassilla capirebbe che, con buona pace dei moralisti, tutto ciò mai è esistito e mai esisterà, semplicemente perché la natura umana è sempre quella, è costellata di errori, dubbi, tradimenti, viltà, crudeltà, vizi, ripensamenti d'ogni sorta ed è bene che gli intoccabili ed ormai sfuggenti antenati restino intatti nell'Oltretomba, là dove sembrano essere stati sempre presenti e a cui sembrano essere stati destinati sin dalla nascita, a guardare e giudicare con cipiglio arcigno le male azioni dei mortali. È come se il nascere in una nuova generazione ci instillasse automaticamente nella coscienza una sorta di laico peccato originale: siamo stati generati già debitori di virtù nei confronti dei nostri genitori e dei loro coetanei e solo ricalcare in tutto e per tutto le loro orme ci salverebbe dalla dannazione eterna. Cosa ovviamente impossibile: l'animo umano è sì sempre lo stesso sin dalla notte dei tempi ma il tempo è per definizione il cambiamento, il divenire: panta rei! È come trovarsi tutti assieme in un enorme recinto: sappiamo per certo che nessuno potrà mai saltare fuori dalle staccionate, ma questo non impedisce a ciascuno di esplorare lo spazio a sua disposizione come meglio crede. Quando sono stata agli scavi di Pompei, molti dei turisti che mi circondavano, stranieri e non, sembravano assolutamente stupefatti dalla presenza di tutti i progenitori degli oggetti e delle comodità moderne (a onor del vero, la frequenza di bocche spalancate raggiungeva i suoi picchi più elevati quando si parlava dei bordelli). Oh, buon cielo! Davvero credevano che i Romani o gli antichi in generale fossero i personaggi statici intrappolati nelle pagine di qualche manuale di storia illustrato, dediti esclusivamente alle attività rigorosamente e minuziosamente spiegate in quegli stessi fogli bidimensionali? Ecco che fine fanno i maiores quando passa troppo tempo! Da terreni modelli di virtù diventano delle misere figurine di carta! È sempre meglio entrare negli annali in questo modo che vergarne in prima persona le pagine col sangue, ma il Tempo è un dio capriccioso dal lungo mantello strisciante su un sentiero di neve fresca: fa rimanere quasi intatte alcune impronte, altre le deforma, altre ancora le cancella con più o meno vigore, ma di tutte confonde i contorni. Non sappiamo cosa diranno i posteri di noi, né tanto meno se si degneranno di ricordarci; il tempo fugge e noi non possiamo preoccuparci di inseguirlo; godiamocelo, piuttosto, e contemporaneamente iniziamo a spianare la strada al futuro, in modo da non trovarci impreparati né quando esso arriverà né quando esso non arriverà perché al suo posto incroceremo lo sguardo vertiginoso di Atropo. Carpe diem, diceva il troppo spesso frainteso Orazio; Quant'è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia! / Chi vuol esser lieto, sia: / del doman non v'è certezza, ribatteva Lorenzo de' Medici. Ci tocca solo sperare che l'implacabile Crono abbia pietà di noi: ma in fondo come può averla, se non l'ha avuta nemmeno per i suoi figli? Però... però il mito dice anche che egli è stato infine sconfitto proprio dall'ultimo nato, Zeus: il Potere, la Legge, l'Ordine, il Comando. Zeus, unitosi in prime nozze con Metis e da lei aiutato a sconfiggere proprio il di lui malefico genitore; Metis, l'Intelletto, l'Astuzia, addirittura la Perfidia. C'è dunque una flebile speme di aggirare il signore dell'infinito? Forse, chissà. A noi basta sapere che non tutto è come ci è stato tramandato, che anche il migliore degli eroi aveva i suoi segreti scomodi: mi piace immaginare l'animo umano nella storia come un sottile, liscio braccialetto d'oro attorno al quale si aggrovigliano ordinati e deliziosi, seguendone le curve sinuosamente perfette, dei fili d'argento: le vicende, le convenzioni, le regole, i disordini delle varie epoche. Tutto ciò giustifica forse i nostri errori e le nostre malvagità? No, affatto: ci ricorda solo che siamo da sempre in buona compagnia.

Nessun commento:

Posta un commento