giovedì 16 ottobre 2014

Amors

Quello di Évariste Galois è un nome praticamente sconosciuto alla maggioranza, nonostante la storia dell'uomo che l'ha portato si sarebbe rivelata a conti fatti più che degna di diventare una leggenda popolare. Il libro che ne narra la vita ha il meravigliosamente evocativo titolo di Tredici ore per l'immortalità, tuttavia è bene far notare che quella italiana non è la pedissequa traduzione del titolo inglese, che invece recita Whom the Gods love, ovvero Colui che gli dei amano, un chiaro riferimento alla mitica frase di Menandro che ha scavalcato i naturalmente elitari confini della classicità per andare a imprimersi nella coscienza collettiva: Ὃν οἱ θεοὶ φιλοῦσινἀποθνήσκει νέος, ovvero "muore giovane colui che è caro agli dei". E Galois morì davvero giovane: non aveva nemmeno ventun anni quando un proiettile gli perforò l'addome nel corso di un duello avvenuto, a quanto sembra, per salvare l'onore della donna amata (ci sono varie versioni al riguardo, ma nell'attesa di leggere il libro ho accolto, da brava e inguaribile romantica, quella più poetica). Ma Évariste, caso più unico che raro, ha saputo guadagnarsi la fama che gli era dovuta in un altro ben più insospettabile campo: quello matematico. A soli vent'anni è un genio dei numeri e, sebbene respinto per ben due volte all'esame di ammissione all'École polytechnique, ben lungi dall'arrendersi, manda i suoi lavori prima a Cauchy, che suggerisce di modificarli perché troppo somiglianti ad un lavoro di Abel, e poi a Fourier, che muore prima di vederne la versione rivisitata. Infine è la volta di Poisson, che li rifiuta adducendo come motivazione la scarsa chiarezza espositiva degli scritti e invita il giovane a rivederli da cima a fondo. Ma, come egli stesso dichiara negli appunti frettolosamente stilati prima dell'ora fatale, non ha tempo. Sa che morirà in quel duello, ne è assolutamente certo, ma al contempo, con quella scintilla di intima sensibilità tipica dei geni, è perfettamente consapevole anche della capitale importanza del proprio lavoro. E così, in sole tredici, ticchettanti, incipienti, impietose ore, prova a riordinare freneticamente le sudate carte: sembra quasi di vederlo, rinchiuso in un bugigattolo oscuro, forse maleodorante, saturo d'aria viziata, con la sola compagnia di un misero mozzicone di candela, in preda all'ansia, quasi al delirio, vergare senza posa, praticamente a memoria, le sue formule, le sue teorie, intingere furioso la penna nel calamaio, e scrivere scrivere scrivere, consapevole con una lucidità tremenda, disarmante, terribile e logicamente elementare che il giorno dopo non potrà più godere della vita. Ed Évariste, come previsto, spira nell'ultimo giorno di maggio del 1832, rivolgendo le sue ultime, strazianti e perfino romanzesche parole al fratello Alfred: «Non piangere! Ho bisogno di tutto il mio coraggio per morire a vent'anni». Giovane, geniale e morto per amore: se probabilmente si fosse dedicato agli studi letterari anziché a quelli matematici, la Storia avrebbe fatto di lui un eroe romantico a tutti gli effetti. Ammesso che la motivazione sentimentale sia quella vera, la domanda cruciale è: vale davvero morire per amore? Tempo fa, visitando il cimitero cittadino, mio nonno mi indicò la statua di un angelo posizionata ad uno dei crocicchi: all'inizio la ritenni solo un elemento decorativo, poi mi accorsi che, alla base, v'erano una foto incorniciata e un'incisione. Avvicinandomi, mi resi conto che la foto, in bianco e nero, rappresentava una fanciulla sorridente vestita alla moda della Belle Époque e che incisi nella pietra v'erano alcuni versi scritti in un italiano piuttosto aulico ma altrettanto comprensibile, sebbene non si potesse dire lo stesso del senso complessivo delle frasi. Solo quando mio nonno mi spiegò che la ragazza si era suicidata per una delusione d'amore riuscii ad intravedere il luccichio del filo trasparente che si attorcigliava languido attorno alle lettere dell'epitaffio e ne compresi a pieno il significato. Perché la statua di un angelo, infine? Facile, la ragazza si era lanciata dal campanile della chiesa di sant'Angelo del mio paese, non era riuscita a sopportare che il fidanzato l'avesse lasciata per un'altra. Annetta, si chiamava. Annetta non è nemmeno un nome vero e proprio, è un diminutivo fatto nome, Annetta sa d'eterna gioventù, di quel bocciolo roseo cristallizzatosi nel sangue su un terreno sacro quel giorno o quella notte di tanti decenni fa. Ma Annetta ha dato la sua vita per una causa di cui non sappiamo nulla, di cui non so nulla, tranne che aveva a che fare con un uomo che le aveva spezzato il cuore. Ignoro del tutto quali siano stati i vincoli reali che la legavano a quello sconosciuto di cui non mi è stato tramandato nemmeno il nome, so solo che per lui o per colpa sua ci ha rimesso la vita. Magari l'aveva tradita. O semplicemente si era stancato di lei. O forse, ancora, aveva trovato un partito migliore da sposare. O magari, semplicemente, non ne era innamorato a sua volta e l'aveva respinta. O l'aveva illusa per trarne un vantaggio personale. Chissà. Mi vengono meno le forze nel giudicare l'estremo gesto della ragazza, anzi, parlandone qui mi sembra quasi di profanarne la memoria e se c'è, ovunque sia, le chiedo perdono. Mi limito a constatare, spero il più innocentemente possibile, che forse, in un mondo perfettamente razionale... non ne sarebbe valsa la pena, ecco. Un uomo a cui di lei non importava a tal punto da amarla non meritava affatto che in suo nome venisse versato del sangue. Forse, prima dell'amore per l'altro, viene l'amore per sé stessi: penso che sia la chiave di volta che ci consente di rapportarci al prossimo in maniera sana in modo da rispettare onorevolmente ogni esistenza. Con "amore per sé stessi" non alludo all'egoismo, anzi, ma a quella vena di istinto di autoconservazione che nell'animo umano dovrebbe aver perso il suo carattere bestiale e assunto quella connotazione di candida semplicità e naturalezza che si prefigge l'obiettivo di farci vivere e vivere bene ma non a tutti i costi e soprattutto non necessariamente a discapito degli altri (è qui che interviene la ragione, del resto). Tuttavia, come non mi stancherò mai di ripetere, la sola e unica forza che governa il mondo è l'amor che move il sole e l'altre stelle, proprio perché l'amore in sé... è equilibrio. L'amore vero, a parer mio, è un miscuglio omogeneo di senno e follia, di ragione e sentimento, una somma di tanti, diversi, infiniti amori che danno (o dovrebbero dare) come risultato zero, altrimenti poi l'equazione si sbilancia. Anche quello di Galois, a pensarci bene, è stato un suicidio, forse perfino più terribile di quello di Annetta perché già preannunciato: in fondo, egli sapeva che sarebbe morto, anzi, magari aveva proposto egli stesso il duello per poi scoprire solo in seguito che ci avrebbe rimesso le penne sembra ombra di dubbio. Avrebbe potuto scappare, in quelle tredici ore, oppure passare il tempo a contemplare il cielo, il sole, la luna, la natura, un bel quadro, leggere un libro, stare con gli amici o i parenti, disperarsi per aver commesso il più grave errore della sua esistenza, darsi magari perfino alla fuga... e invece no. Galois sceglie la matematica. Sceglie sé stesso e l'umanità, contemporaneamente. Non ci è nota l'identità della sua amata, né quello che provasse per lui, ed è qui che si ingarbugliano i fili delle vicende che ci impediscono di avere un quadro chiaro della situazione e di formulare uno o più pensieri al riguardo: questo, signori miei, è terreno di congetture, le scienze esatte sono campo di Évariste. La parola del titolo, amors, a dirla tutta non è latino, anzi, non esiste e basta: una leggenda metropolitana vuole però che il termine amore derivi proprio da questo sedicente alfa privativo unito al sostantivo mors, la morte; senza morte, dunque. Un'etimologia fantasiosa, palesemente costruita ad hoc, ma non per questo meno affascinante, così come lo è l'indubbia assonanza tra i termini amor e mors, che anche grammaticalmente parlando sembrano essere legati a doppio filo. Quand'è, dunque, che finisce l'uno e inizia l'altra (intesa anche in senso metaforico)? Forse, semplicemente, quando pensiamo di poter fare a meno di uno degli amori dell'equazione sbagliando ad assegnare i giusti valori agli elementi che la compongono.

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