sabato 18 ottobre 2014

Nox fraudium - Numquam postea Masada expugnabitur

Correva l'anno domini 1969 nella calda terra di Sicilia, che a dire il vero non doveva essere poi così calda nel tempo in cui si svolge la vicenda che andiamo a raccontare: un'anonima notte d'ottobre, per la precisione quella tra il 17 e il 18, e che effettivamente sarebbe rimasta tale se solo non fosse successo quello che è successo. Siamo nella bella Palermo e ci accingiamo a profanare coi nostri passi il sacro pomerio dell'Oratorio di San Lorenzo, che ora di mistico e sovrannaturale sembra avere soprattutto il silenzio. Tutto tace. Ma del resto è notte fonda, cosa mai potremmo aspettarci? Perfino il rumore delle gocce di pioggia che scalfiscono inesorabili l'esterno sembra essersi azzittito, o meglio, mescolato col mutismo assordante dell'interno per creare una pacifica atmosfera, il silenzio vivo e quieto che si distingue da quello inquietante e solenne dei cimiteri. Ma non siamo soli. O comunque non lo siamo stati nelle ultime ore, poco ma sicuro. Il portone dalla serratura cigolante è già semiaperto. Ci guardiamo intorno per capire quali siano gli altri elementi che stonano col nostro ultimo ricordo di quel luogo. Gli stucchi e i rilievi sono ancora lì, immobili, candidi, ieratici, sui muri e sul soffitto. Beh, non potrebbero muoversi nemmeno se lo volessero, e men che meno potrebbero comunque volerlo. Il lampadario pure: incombe benevolo su di noi con la sua lucida e familiare mole dorata. Ma allora cos'è che non va? È solo che... il lampadario non dovrebbe essere l'unica fonte di luce qui dentro. Ce ne dovrebbe essere un'altra, che risplende da secoli, non del fuoco di natura ma di quello che ha consumato l'intera esistenza di un animo tormentato. Un momento. Bianco. C'è bianco ovunque. Bianco dappertutto. Ce n'è troppo. C'è bianco anche dove non dovrebbe esserci. C'è un grande rettangolo bianco lì dove c'era il quadro... il quadro! Dov'è finito? La tela! Manca la tela!
È nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969, infatti, che viene rubato a Palermo il dipinto della Natività con i santi Francesco e Lorenzo, opera dell'indiscusso genio di Michelangelo Merisi da Caravaggio, realizzato durante il suo dibattutissimo soggiorno siciliano. I più videro subito nei mandanti del crimine la mafia siciliana, e in effetti una successiva dichiarazione di un pentito provò a fornire agli investigatori il luogo in cui sarebbe dovuto essere nascosto il quadro, luogo che però, esaminato da cima a fondo, non rivelò alcunché. Un'altra notizia arrivò nel 1980, quando un giornalista inglese dichiarò di aver avuto dei contatti con un mercante d'arte che gli propose la Natività. Forse sarebbe potuta essere un'occasione irripetibile per riappropriarsi del quadro: del resto, Rodolfo Siviero aveva usato quella stessa tattica -fingersi interessato ad un acquisto clandestino- per restituire alla patria uno dei tanti dipinti trafugati durante la seconda guerra mondiale. Ma l'incontro era stato fissato per il 23 novembre. In Irpinia. E nessuno, inutile dirlo, aveva fatto i conti con la beffarda catastrofe che proprio quel giorno avrebbe sconvolto la terra: l'incontro, perciò, non avvenne mai. Nel '92 un altro pentito dichiarò che il dipinto aveva svolto la funzione di simbolo di prestigio nelle riunioni mafiose; nel 2009, un altro pentito ancora rivelò che l'opera avrebbe fatto una fine raccapricciante: nascosta in una stalla, rosicchiata da topi e maiali e infine data pietosamente in pasto alle fiamme. Il comando dei carabinieri per la tutela del patrimonio culturale era stato creato, per un'ulteriore ironia della sorte, solo pochi mesi prima del misterioso quanto sconvolgente furto. E, leggendo quest'articolo, pare proprio che nessuno se ne sia dimenticato, anzi. Sembra che il Caravaggio perduto sia il motore primo che anima il lavoro dell'Arma.
Ma l'articolo di oggi ha due titoli. Perché? Beh, il primo si riferisce indubbiamente alla vicenda appena narrata (e spero che il termine "fraudium" sia stato abbastanza ambiguo da rievocare nella mente del lettore anche un'altra notte silenziosa e rocambolesca allo stesso tempo, ma stavolta solo letteraria). Il secondo, invece, è semplicemente la traduzione latina di un motto ebraico invero quivi poco conosciuto e riferito ad un aneddoto molto particolare, narrato dallo storico Giuseppe Flavio: la caduta della roccaforte di Masada in mano romana. Pare difatti che i figli di Marte, pur di stanare i 960 rifugiati della cittadina, abbiano costruito una babilonica rampa di accesso e che, a sforzo avvenuto, abbiano trionfalmente calpestato una terra sabbiosa ma già insanguinata e dunque messa definitivamente a tacere: stando alla leggenda (e a Giuseppe Flavio), infatti, gli assediati avevano preferito uccidersi l'un altro piuttosto che cadere in mano nemica. Oggi l'archeologia tende a ridimensionare notevolmente la portata dell'evento: pare che la rampa dei Romani fosse di un'altezza molto inferiore rispetto a quella conclamata e, soprattutto, che siano state trovate solo poche decine di cadaveri rispetto alle centinaia narrate da Flavio. Insomma, la storia annienta il mito.
Ma qual è l'anello di congiunzione fra le due vicende appena narrate? Bisogna sapere che il solenne giuramento delle milizie israeliane avviene ancora oggi al grido di "mai più Masada cadrà", parole che mi hanno inspiegabilmente ricordato una frase dell'articolo, riferita al quadro: "è l'opera che più vorremmo ritrovare. Non c'è carabiniere della Tutela Patrimonio Culturale che non la ricordi almeno una volta al giorno". In entrambi i casi, dunque, c'è un avvenimento triste e importante a motivare l'azione di due determinati gruppi che in comune hanno, forse, solo l'appartenenza alle forze armate dei rispettivi paesi. Non si tratta dunque di due effettive "prime volte", ma di due veri e propri punti di svolta. I furti d'arte e le capitolazioni di città assediate non erano certo realtà novelle rispetto ai tempi in cui si sono svolte le relative vicende, eppure questi due eventi hanno costituito, per i loro stessi protagonisti nel primo caso e per i posteri nel secondo, lo "scatto della molla". Un esempio vagamente simile potrebbe essere quello di un bambino che, seppure ripetutamente avvisato della pericolosità delle spine di un rosa, abbia deciso di toccarle ugualmente e ne sia stato conseguentemente ferito: il bambino, da quel momento in poi, non toccherà più le spine non solo perché gli è già stato detto più e più volte, ma perché ha sperimentato quanto possano essere dolorose le spine. Quello della capitale importanza dei fatti rispetto alle parole è un assioma che ci viene propinato quasi a cadenza quotidiana ma in pochi conoscono le reali motivazioni che si celano dietro tutto ciò: è, in sostanza, la stessa storia di chi pensa al burrone dopo essercisi affacciato o esservi precipitato e in seguito riuscito a risalire e chi sa che il burrone è profondo solo perché gliel'hanno detto gli altri. Non è detto che il secondo sia da biasimare a priori, anzi, può capitare che qualcuno che abbia vissuto di persona un determinato evento non abbia ancora imparato la lezione e rischi di ripetere candidamente la medesima esperienza mentre può anche accadere che vi sia chi non abbia bisogno di stare in una determinata situazione per percepirne le caratteristiche: tuttavia, in genere è dall'esperienza che nascono i miglioramenti. Oscar Wilde diceva che proprio l'esperienza non era altro che il nome che gli uomini davano ai propri errori: non concordo in toto col gentiluomo vittoriano data la mia profonda convinzione che anche i fatti positivi costituiscano un bagaglio di storia privata non indifferente (insomma, non c'è bisogno di essere stati bocciati ad un esame per poter dare consigli utili a chi si accinge ad affrontarlo), però è anche vero che sono in gran parte gli errori a costituire dei punti di svolta nelle nostre esistenze (ritorna dunque il tema dell'utilità del male: gli errori sono negativi per definizione ma da essi può nascere qualcosa di positivo). Per i greci il termine corretto per quella che noi chiamiamo esperienza era ἐμπειρία, ovvero prova interna, perché solo grazie ad essa il soggetto era in grado di saggiare la realtà: molti vi arrivavano con la πρᾶξις, i più sensibili e intuitivi con il λόγος, ma in fin dei conti l'importante era giungerci. Sì, gli errori sarebbero da evitare: ma, in mancanza di tale possibilità, non è forse meglio farsi beffe della Sorte dimostrandole che anche dai suoi tiri mancini si possono trar vantaggi?

2 commenti:

  1. Sarà l'ora ma inizialmente non riuscivo a capire dove volevi andare a parare e a collegare le due parti. Hai fatto un introduzione abbastanza documentata su due eventi per poter parlare in fine dell'esperienza... Che strano modo di intrecciarli.

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  2. Mettiamola così: ho scritto anch'io a tarda ora x'D

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