martedì 7 ottobre 2014

De libertate

Avendo a che fare quasi a cadenza quotidiana con il femminismo e le sue (ahimé spesso) deliranti adepte, mi è anche capitato di spulciare alcuni articoli sul divario salariale (in inglese pay gap) che intercorrerebbe fra gli stipendi di uomini e donne. Penso che il cruciale nodo di Gordio che avvolge gelosamente la questione possa essere incredibilmente sciolto in una maniera piuttosto elementare se si va a guardare la quinta pagina del suddetto documento redatto da nientepopodimeno che la Commissione Europea, il che implica già a prescindere che si ha a che fare con qualcosa di abbastanza lontano dal blog del primo sfigato che vi insegna come truccare i motorini. Il calcolo del divario salariale, per loro stessa ammissione, non tiene assolutamente conto di tutte le dinamiche che lo influenzano: semplificando un po' ma non troppo la questione, è come prendere un campione di cento persone di cui quaranta cassiere, dieci dottoresse, dieci cassieri e quaranta dottori. È ovvio che gli stipendi degli uomini risultino più alti, nevvero? Ma è anche ovvio che la colpa non sia da imputarsi alla virilità dei suddetti quanto piuttosto alle professioni esercitate. Una chicca: guardate la percentuale italiana nella tredicesima pagina del documento, siamo così democratici che se ci sono stipendi da schifo qui devono essere recepiti proprio da tutti! Una volta dimostrato, dunque, che le donne guadagnano di meno perché scelgono di lavorare di meno, di fare meno carriera o di accedere a professioni dichiaratamente meno remunerative, resta da approdare all'ultima spiaggia: perché le donne scelgono questo? Sono intrappolate da sedicenti stereotipi di genere o prendono le loro decisioni autonomamente? Francamente ritengo la donna occidentale abbastanza indipendente e intelligente da riuscire a stabilire da sé ciò che ritiene sia il meglio per la propria persona: probabilmente, coi tempi che corrono, l'unica costrizione in cui potrebbe incorrere nel civile ovest del mondo potrebbe essere quella di seguire la tradizione lavorativa di famiglia, ma questo fardello spetta a pari merito anche agli eredi maschi, quindi automaticamente non conta. Per le donne di altri Paesi, beh, che dire? Quando si vive in condizioni disagiate, non è mai una sola categoria a passarsela male. Alle donne viene inculcata in maniera subdola sin dalla notte dei tempi l'idea che debbano essere mogli e madri? Sinceramente preferisco vedere la situazione al contrario (o meglio, io la intendo così): sono più propensa a credere che sia stata la società ad adattarsi alla natura e non viceversa. Il mercato punta su femminilità (nome che probabilmente solo nella mente delle femministe evoca ammassi di bizzarre chincaglierie rosa di dubbia utilità da annientare spietatamente) e maternità perché è quello che vuole la gran parte delle donne, come natura comanda: del resto, l'istinto primario è quello della riproduzione della specie, e non credo nemmeno che sia necessaria una notevole dose di intuito o di approfondite conoscenze scientifiche per capire il motivo per cui le donne ne sono psicologicamente coinvolte in maniera maggiore degli uomini. Alcune vi si possono a buon diritto opporre con la ragione di cui siamo dotate in quanto esseri umani, ma resteranno comunque una minoranza: la ragione, in genere, è più utile a controllare l'istinto e ad incanalarlo entro gli argini della civiltà piuttosto che ad opporvisi in maniera totalitaria e totalizzante. Le donne che compongono la suddetta minoranza hanno e devono avere tutti i diritti della maggioranza, ma si può elementarmente dedurre che chiunque non sia dotato dalla sola bollicina dell'acqua Lete vagante nel proprio cranio sappia perfettamente che ogni essere umano è nell'intimo meravigliosamente e orgogliosamente diverso dal suo prossimo, ma che per mere questioni di comodità siamo tutti portati a generalizzare. E generalizzare è dunque qualcosa di ingiusto? No, a meno che non si dimentichi l'assioma appena enunciato. Le donne hanno semplicemente forze e debolezze diverse rispetto a quelle degli uomini e anelare alla parità di genere non implica né dovrebbe implicare l'affannosa e vana ricerca di rendere entrambi uguali su tutti i fronti propinando degli improbabili e inesistenti cinquanta e cinquanta un po' ovunque. Oh, andiamo, è come se qualcuno, per eliminare la questione razzista fra bianchi e neri, proponesse di tingerci tutti la pelle color caffellatte per non far torto a nessuno: raccapricciante, nevvero? Uomini e donne sono naturalmente diversi e razionalmente di pari valore, né più né meno, e tutti perfettamente in grado di scegliere quali stimoli e pulsioni, esterni o interni, seguire. Sono difatti dell'idea, squisitamente di stampo filosofico, che la libertà, la vera libertà, quella assoluta... semplicemente non esista, o perlomeno non nel mondo reale. Quando nasciamo, il mondo non è un foglio bianco che noi possiamo tagliare, colorare, decorare o strappare a nostro piacimento (o, come vorrebbe qualcuno, dividere in tante caselle perfettamente uguali), il mondo è già incasinato come una tela di Pollock, è un campo sterminato in cui soffiano infiniti venti da infinite direzioni ed è fisiologicamente impossibile evitare di farsi trascinare da almeno uno di questi: il massimo che possiamo fare è sceglierceli, scegliere le nostre catene, le cose da cui lasciarci influenzare. Ci sono catene più o meno visibili, ci sono persone che non si rendono nemmeno conto di essere trascinate da uno o più venti, altre che ne negano con forza l'esistenza, altre ancora che semplicemente optano per quella che ritengono la via giusta; tuttavia anche in situazioni che riteniamo non-libere ci sono almeno due opzioni da valutare (e il fatto che talvolta una di queste sia la morte non toglie valore alla scelta). Ci sono vari gradi di libertà, credo direttamente proporzionali al numero delle opzioni che ci si presentano davanti, ma a quella pura e reale non è arrivato né mai arriverà alcuno, e a dire il vero trovo che tutto ciò sia non sia qualcosa di negativo, anzi. La libertà assoluta da sperimentare nella vita vera è un bene troppo grande per noi miseri umani, è come mettere una bomba in mano ad un bambino: qualcosa di inquantificabile, sproporzionato e sorprendentemente disarmante, con cui magari all'inizio ci si può baloccare in maniera innocua ma che dopo fin troppo poco tempo potrebbe distruggere noi stessi e quelli che ci circondano. Tuttavia... una via di fuga c'è. È la nostra mente, l'unico luogo dove tutto è possibile perché lì siamo noi a tirare i fili del nostro destino, l'unico posto in cui la volontà può veramente e perfettamente corrispondere alla possibilità. L'unico, immenso atomo in cui si fondono omogeneamente il nulla e l'infinito, in cui siamo candidamente soli e perciò possiamo essere e creare tutto quello che vogliamo senza limiti di sorta. Quello della libertà, inutile dirlo, è un nome che si colloca in quel limbo indefinito tra ciò che abbiamo timore di pronunciare e ciò che desideriamo più d'ogni altra cosa gridare al mondo, e fra i tanti che ne hanno parlato non posso non citare il Sommo, secondo cui la libertà non consiste nell'avere un buon padrone ma nel non averne nessuno. Beh, nella mia personale visione del mondo, è impossibile non avere un padrone, o meglio, diciamo che all'inizio ce ne vengono proposti tanti e noi siamo per forza di cose costretti ad averne almeno uno: la scelta fra i vari "padroni" (uomini o idee, poco importa), però, è tanto più vasta quanto noi siamo liberi. E a dirla tutta dichiararsi liberi è pure il peggiore dei fardelli, visto che implica assumere su di sé le proprie responsabilità, ma la libertà è una cosa che va ricercata in maniera sempre maggiore anche se sappiamo che non la otterremo mai per intero semplicemente perché è positiva per definizione, è uno di quei dogmi dell'esistenza della cui bontà nessuno può e deve in alcun modo dubitare, anche se, proprio in suo nome, gli sarebbe lecito farlo.

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