giovedì 8 maggio 2014

De varietate itinerum

Sono una viaggiatrice per natura. Non una di quelle che mollerebbero tutto e subito per partire all'avventura, ma una di quelle che programmano metodicamente cosa fare, quanto spendere, cosa visitare e poi magari stravolgono tutti i piani se trovano qualcosa di interessante sul posto. Sono una viaggiatrice puntuale ma improvvisata, una di quelle che iniziano a trovare l'Empireo già quando stanno solo percorrendo il tragitto in auto (non è il mezzo di trasporto più poetico che si possa immaginare, ma è quello più economico, il che significa anche l'unico che io e la mia famiglia abbiamo a disposizione) e guardano il paesaggio anche se l'hanno già visto altre volte. Io vengo da una terra piatta: quella del sole, del mare e del vento, sì, ma non quella della neve e delle valli, quella dei giganti della terra che sovrastano l'orizzonte e del freddo pungente. Vengo da una terra rara, in un certo senso, perché le pianure in Italia non abbondano, ma cerco ovviamente ciò che per me non è comune e, sebbene in genere le mete prefissate siano le città d'arte, anche uscire dal mio limbo (e non lembo) di terra mi sembra un paradiso. Vivo ancorata qui tutta la vita e mi stuzzica a priori non solo l'idea di viaggiare, ma anche semplicemente quella di partire. Andare via, staccare. Celebrare i Saturnali della routine. La tradizione di famiglia prevede da alcuni anni un breve tour di una particolare zona d'Italia nella prima settimana di settembre: certo, sarebbe più corretto parlare di tour de force, date le bizzarre e incredibili modalità con cui si sviluppano i nostri scalcinati itinerari. A causa dell'eterna mancanza di pecunia siamo costretti a risparmiare sugli alloggi (preferiamo però tagliare sulla quantità e non sulla qualità) e a trascorrere, quindi, due giorni in una città che magari ne necessiterebbe cinque di visita. Dato che però non abbiamo certo intenzione di sacrificare il Colosseo per i Fori Imperiali e poi lo sanno tutti che un po' di movimento fa sempre bene, impacchettiamo per bene lo stretto indispensabile, ce lo portiamo a spalla in zainetti comprati dai cinesi riguardo ai quali ci dobbiamo pure considerare fortunati se non ci causano eritemi incurabili e, con i piedi fasciati nelle scarpe più comode che possano esistere e coperti di cerottini per stroncare le vesciche sul nascere (perché nasceranno, oh sì se nasceranno), vaghiamo di museo in museo, di chiesa in chiesa, di parco in parco, di fontana in fontana per placare la nostra sete di cultura (seeeh) e la voglia di sgambettare come gattini appena svezzati. Vogliamo che, chiariamolo, sparirà dopo cinque minuti, quando in genere cominceremo a strappare cartine geografiche per la rabbia, sbagliare fermate dell'autobus o della metropolitana, dimenticare gli orari di apertura e chiusura dei monumenti, inorridire per i prezzi astronomici dei panini con la mortadella a piazza Navona (dove, per la cronaca, ci sono quasi esclusivamente ristoranti chic), chiedere informazioni ai turisti cinesi muti (ebbene sì, è successo anche questo), intavolare conversazioni pseudo-bilingui con le turiste americane nei bagni pubblici, cronometrare perfino il tempo in cui ammirare un tale dipinto che diventa bello solo se è opera di qualcuno di famoso che è universalmente conosciuto o che ho trovato io sui libri di storia e spendere minuti interi a trattare coi venditori di souvenir sul perché la figurina di un tal santo costi tanto o sulla miniatura di quella colonna non ci faccia lo sconto, ché tanto ne compriamo in quantità per nonne zii cugini e parenti fino al ventordicesimo grado. E poi le soste per bere, no aspetta deficiente quella non è acqua potabile, quella per far riposare i piedi, imbecille ti sei seduto su un formicaio, quelle per andare in bagno, entra nel bar e prenditi un caffè anche se stamattina è il sesto, quelle per fare le foto, mettetevi in posa che siete gli unici che vanno alle parti e poi non si fanno gli album fotografici, quelle per motivi vari, mamma mi si sono slacciate le scarpe e ho perso i lacci. E come dimenticare i sempiterni problemi con l'autovettura di famiglia, le asfissianti chiamate ai nonni per sapere se anche quel giorno avessero nutrito quella colonia di fiere fameliche che portano l'improprio nome di "gatti" e se questi non avessero lasciato qualche sorpresina (non raramente è accaduto che, tornati dal viaggio, avessimo trovato la gatta sgravata che, sogghignando sotto i baffi, sembrava dirci e mo' beccateve 'sti micetti). Però. Però c'è anche la risata all'acquisto delle cartoline più fighe e coi riferimenti porno più spinti per gli amici, lo splendore di un panorama dalla cima di un colle o da un campanile, l'emozione nel sapere che magari i muri che stai toccando sono stati costruiti migliaia di anni fa e toccati da milioni di altre mani, le amicizie improvvisate coi gestori dei locali e le chiacchierate sull'andamento dell'economia della regione for dummies e l'affluenza turistica, così, come se ce ne importasse davvero qualcosa e non volessimo riflettere sul fatto che noi, in questi posti bellissimi, non ci viviamo affatto; ci sono i volantini di eventi che si svolgeranno quando noi non ci saremo, ma resta il sentimento e la punta di orgoglio nel dire "io c'ero, ci sono stato, io so, oida!" e anche solo per un attimo mi sono reinserito nel vorticoso circolo della vita, toccando altre realtà comuni e pure, ovviamente, anche le massime vette raggiunte dalla mente umana in un quadro, una statua, un libro, un monumento per cui, teoricamente, mi sono recato fin lì. C'è la bellezza del combaciare tra eterno e fuggevole, tra infinito e caducità, tra una roccia e una foglia. C'è la bellezza della nostra normalità che per un po' cambia ed entra in contatto col diverso e con l'immenso.

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