giovedì 12 giugno 2014

Beata solitudo, sola beatitudo

Visitatore, prima di entrare, deponi ogni alterigia, superbia e gloria. Questo vento ti porta la pace, queste pietre la primavera dell'animo. Ricordati che fuori di qui tutto è vanità e questo muto sole guarda le tue sciocchezze, le tue ricchezze perse, le tue malvagità gratuite, le tue invidie non represse. Noi qui cantiamo in eterno la gloria del Creatore, noi che prima di te coniugammo il cielo azzurro con la terra madre, noi che soffrimmo e respirammo, come ora tu nella bolgia delle tue falsità, noi che siamo uniti con l'eternità dell'essere in un continuo risucchio dell'essenza vitale. Quando tornerai nel tuo mondo, abbi in mente questa pace e serenità; penetra nel tuo animo e ritorna bambino. Ricorda che d'immortale vi è solo la Morte, benefica e pietosa verso di te. Cos'è la vita se non un soffio, un ritorno di polvere, un nulla? Essa è la vera estranea, non la Morte, fedele compagna che mai ti delude. Guarda il Signore, Egli è dentro di te! Canta le sue lodi, come queste mura, queste pietre, queste piante, questi uccelli, queste nuvole. Qui il tempo si è fermato, tutto è immobile, lo stesso come cento e mille anni fa e così sarà nei tempi, mentre le nostre anime estasiano nella luce Divina. Attraverso la carne raggiungemmo lo spirito, ed attraverso lo spirito la Pace.
Questo testo è stato trovato in una cappella del mio paese che, isolata, sorge in campagna, su un viottolo secondario che porta al mare. Se ne ricordano in pochi, ormai, e sono ancora meno quelli che la conoscono. Forse è rimasta solo qualche anziana a portare i fiori ogni settimana. C'è una nicchia nella cappella che ospita un affresco davanti al quale mi piacerebbe fermarmi anche per ore e ore a pensare, o semplicemente a stare zitta e fissare quei volti corrosi dal tempo e da mille mani devote che di volta in volta hanno chiesto una grazia per se stessi, per un parente o per un amico. La cappella è un edificio solitario in mezzo ai campi ed è perciò rimasta indenne ai rumori molesti della città o delle auto dei vacanzieri. Qui è davvero tutto silenzio. Il dipinto per onorare il quale è stato costruito questo piccolo luogo di culto (sì, fu trovato prima l'affresco per caso, e poi si edificò la cappella per conservarlo) è oltremodo rovinato e quello che resta assume quasi i contorni del grottesco e del caricaturale, ma in virtù della mia totalizzante passione per l'antico e la mia dedizione alla meditazione, la preghiera e il pensiero non posso che esserne inesorabilmente attratta.


Quando qualcosa è antico, riesco ad entrare meglio in sintonia con l'universo. Mi trasmette un profondo senso di pace e armoniosa completezza: la preghiera, certo, non deve dipendere da un dipinto, altrimenti si scivola nell'idolatria, però... più una cosa è antica, più ha assaggiato l'infinito. Davvero sei Tu qui da ancora più tempo di quest'affresco, e davvero ci resterai nei secoli dei secoli?, mi verrebbe da chiedere al cielo. Il dipinto non ha alcun valore archeologico, non è un capolavoro, è solo una comune espressione della fede popolare dei primissimi anni del Settecento, e forse è anche il suo essere non speciale per gli altri a renderlo speciale per me: è qualcosa di particolare, intimo e segreto, è il mio interlocutore silenzioso, è la mia porta per l'eternità, è la mia estasi dell'anima. Adoro pensare all'infinito perché mi trasmette la sensazione di essere solo una minuscola tessera smaltata di un mosaico immenso, perfetto e bellissimo; una tassello insignificante e simile a tanti altri senza il quale l'opera finale sarebbe però incompleta: adoro pensare alle cose più grandi di me, che io non capisco e che non capirò mai, e mi sta bene così, perché altrimenti non avrei qualcosa da indagare, anche invano. Ogni buon filosofo, a mio parere, dovrebbe, prima di esprimere le proprie congetture, riconoscere che sta compiendo un lavoro necessario ma inutile: sta cercando qualcosa che non si troverà mai e poi mai, eppure sta rispondendo ad un preciso impulso dettato dalla sua mente, dalla sua umanità. Si sta protendendo verso qualcosa di irraggiungibile per definizione, ma senza quel già vano tentativo di comprendere cosa ci sia al di là del visibile non starebbe dando fondo a tutta la sua potenzialità di essere umano. Ci sta distinguendo dalle bestie! Un lavoro che s'ha da fare. Il filosofo è colui che, agganciato ad una corda di sicurezza, si protende verso un burrone e vede, vede quanto è davvero immenso il nulla, il nero che si inabissa, e prova a fare supposizioni su quanto possa essere profondo il baratro, su come possa rivelarsi l'impatto, su cosa ci sia una volta toccato il fondo, sul modo migliore per scendere. L'ignorante, invece, se ne sta in disparte, sa che l'abisso è profondo e ha dunque ragione, ma non ci si è mai affacciato, non sa di cosa si parli, lo sa per partito preso, per sentito dire. A cosa serve affacciarsi all'abisso se già altri, la cui parola è degna di fede, lo hanno descritto per quel che è possibile? A cosa serve la filosofia se tanto poi al fondo dell'abisso non arriva nessuno? Semplicemente ad essere consapevoli di quanto sia profondo il baratro: una cosa cambia profondamente significato se ad entrare in contatto con essa sono i nostri propri sensi, e così, quasi involontariamente, si forma qualcosa di nuovo, il feto di un pensiero, di un parere, di un'opinione. Poi c'è chi ha fede, ma non la fede cieca. Gli stupidi sono ciechi. Gli stolti si buttano nel crepaccio senza riflessione, confidando in chissà cosa, sperando in un qualche miracolo, affidandosi inconsapevolmente a qualcuno di più potente, relegando a quest'ultimo la responsabilità di eventuali danni. La vera fede consiste nel prendere una scala e scendere consapevolmente nel burrone, gradino dopo gradino, roccia dopo roccia, vivendo ogni passo come se fosse il primo e mantenendo intatta la serenità, e pensando che, anche se magari ci si è procurati una scala troppo corta, poi si può sempre trovare un modo di scendere ancora più giù. E poi quando hai che a fare col crepaccio devi fare i conti con te stesso: non ci sono gli altri a distrarti, a offrirti diversivi o, peggio, persone da incolpare per le tue malefatte: sei momentaneamente fuori dalla società, è vero, ma nemmeno i pesci della Grande Barriera Corallina nuotano sempre nelle turbinose correnti dell'oceano. A volte, più spesso di quanto si creda, è necessario premere il tasto "pausa" per essere sicuro di trovarti nel vortice di tua spontanea volontà e di essere capace di gestirti e di esprimere la tua volontà, senza farti trascinare passivamente dalle onde. Estraniati, recupera le redini, fa' pace con ciò che sei.
Vedi, è questo il bello della solitudine: non sei mai davvero solo, ma ci sei tu e te stesso, e a collegarvi è il sottile filo rosso dell'infinito.

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