giovedì 19 giugno 2014

Mors tua, laetitia mea

Per quanto io adori e veneri sommamente la classicità, devo riconoscere di essere grata a chi di dovuto per essere nata agli sgoccioli del ventesimo secolo: per esempio, in quanto donna, ho dei diritti che un tempo non mi sarebbero mai stati riconosciuti, ma, se vogliamo essere più prosaici, noi "moderni" abbiamo anche detto addio ai vasi da notte, abbiamo l'elettricità, l'acqua corrente, i computer, la pizza, il cioccolato e un sacco di altre cose utilissime e fighissime che ci hanno migliorato la vita in un modo non indifferente e per di più in un arco di tempo relativamente breve. Certo, per contro devo ammettere che la nascita in quest'epoca mi ha precluso la conoscenza di tali e tante opere dell'ingegno umano, ma mi consolo dicendomi che molto probabilmente se fossi nata nell'epoca prefissata avrei avuto decisamente molte più probabilità di nascere in una famiglia di gente comune a cui, a dire il vero, non poteva fregare granché quale fosse l'ultima opera scritta dal Sommo o da chiunque altro e la cui preoccupazione principale sarebbe stata sfamare tutte le bocche di casa (in genere piuttosto numerose). Devo inoltre riconoscere di essere nata nella parte "ricca e civilizzata" del mondo che, nonostante l'attuale crisi economica e i suoi sempiterni problemi, è infinitamente meglio di una qualsivoglia zona dell'Africa centrale o di un villaggio sperduto in Medio Oriente. Sono nata fortunata, dunque, e, sebbene talvolta venga smossa da moti di nostalgia per epoche che non ho mai vissuto, non ci vuole molto tempo per farmi ritornare in me e pensare che al massimo la sfiga maggiore è stata non nascere in un'epoca più avanzata in cui gli individui avessero a disposizione la macchina del tempo per viaggi di durata più o meno lunga. Perché se c'è una cosa che proprio non riesco a "perdonare" agli antichi è la seguente.
Non molto tempo fa ho guardato due delle trasposizioni cinematografiche del romanzo "Quo vadis?" di Henryk Sienkiewicz (per la cronaca, la prima è il kolossal peplum del 1951 e la seconda, più recente, è una produzione polacca del 2001) e sono rimasta profondamente colpita dalle scene in cui venivano massacrati i cristiani; non tanto per l'identità delle vittime o per la correttezza della loro condanna, ma per le modalità di esecuzione: che gli antichi non fossero soliti andarci troppo per il sottile non era certo una novità per la sottoscritta, però vederlo in un film in cui non si può che provare una profonda empatia per gli sventurati di turno mi ha lasciato l'amaro in bocca e un nodo in gola. In genere, soprattutto quando si parla di classicità, siamo abituati ad assistere a scene di guerra che ci portano a tifare per l'una o per l'altra parte o comunque, quando si scivola nell'ambito della schiavitù, a pensare che in fondo per l'epoca fosse non un crimine ma una cosa di ordinaria amministrazione. Giusto, giustissimo. La guerra, per gli antichi, non aveva affatto la valenza negativa che ha assunto oggi: faceva parte della vita quotidiana ed è perfino superfluo specificare che a Roma le porte del tempio di Giano erano quasi sempre aperte e anzi ci si meravigliò non poco quando furono chiuse durante il principato di Augusto. Era il loro pane quotidiano e, per quanto riguarda più specificamente i Romani, era la base su cui avevano costruito il loro impero, la loro civiltà: non c'è Roma senza guerra, e tra l'altro se si vantavano di discendere da Marte un motivo ci doveva pur essere, no? Da una visione così naturale, disinvolta, quasi sfacciata del conflitto armato tra popolazioni (vedi Tacito che si lamentava di non avere eventi bellici contemporanei di primaria importanza da narrare) non poteva che derivare una totale indifferenza nei confronti della schiavitù: era le legge del più forte, il premio del vincitore. I Greci, invece, non avevano le mire espansionistiche della progenie dell'Enialio ma lo sprezzante appellativo di "barbari" destinato ai popoli non ellenofoni la diceva piuttosto lunga sul loro concetto di civiltà e umanità. La vita di ciascun individuo di nascita libera, poi, era strettamente connessa al suo ruolo nell'amministrazione della città e la distinzione tra esistenza pubblica e privata era praticamente inesistente: l'esistenza di una persona era funzionale solo in base al ruolo che poteva svolgere per la collettività, non rivestiva una certa importanza in quanto semplice e pura vita da salvare e tutelare e perciò chiunque si fosse macchiato di crimini più o meno gravi era inevitabilmente condannato a supplizi e morti a dir poco raccapriccianti. Credo che si pensi relativamente poco a questo lato della classicità, la quale in genere richiama alla mente uomini in toga che tengono in mano pergamene, donne lussuriose lascivamente sdraiate sui triclini o tenaci soldati che combattono e muoiono eroicamente; le atrocità delle guerre, essendo più recenti, ci sono anche più familiari e ci evocano spettri di un passato ancora fresco d'inchiostro, ma ci si ricorda relativamente poco della schiavitù, dai cui orrori solo in pochi si salvarono: in rari casi era perfino preferibile essere lo schiavo di un nobile piuttosto che un uomo libero ma povero. Qualche voce fuori dal coro nell'epoca classica in effetti si era levata, ma il cambiamento più radicale si verificò soltanto con l'avvento del cristianesimo, sebbene, ahimé, la scia di sangue fosse ben lungi dall'arrestarsi nei secoli a venire. È stato impiegato comunque troppo, troppo tempo per capire che la vita era l'unica cosa su questo mondo infame il cui valore non potesse essere nemmeno lontanamente stimato e che ciascuna persona avesse semplicemente il diritto di vivere, e di vivere bene, in virtù del suo status di essere umano. Gli spettacoli della morte che tanto dilettavano Romani e non negli anfiteatri (pratica che comunque permarrà nei secoli successivi perché alla gente piace il sanguinolento) erano probabilmente la forma più abietta e immonda di divertimento mai concepita sin dalla notte dei tempi; pensavo che un salto di qualità si fosse avuto con l'invenzione della TV, ma rabbrividisco pensando al dichiarato successo di certi programmi televisivi di cronaca nera che si soffermano ossessivamente e morbosamente sulle modalità di esecuzione della sfortunata vittima di turno e sui retroscena del delitto e fanno di tutto per aizzare la folla più o meno velatamente, perché, oltre a scatenare beceri istinti forcaioli, individuano nel colpevole di turno il capro espiatorio di tutti i mali del mondo e lavano implicitamente le coscienze del popolino, che è tutto tranne che santo. Vox populi, vox Dei 'sta ceppa. Chi compie questo genere di azioni tenta biecamente di sfruttare l'altrui sventura come valvola di sfogo per la rabbia e l'indignazione repressa della gente comune e l'idea che qualcuno possa trarre qualche forma più o meno diretta, più o meno marcata, di diletto dalla dipartita di qualcun altro, fosse anche quest'ultimo il peggiore fra gli uomini e non una ragazzina innocente, mi disturba profondamente. Il cosiddetto turismo dell'orrore che vede partire pullman e gruppi organizzati per andare a vedere il luogo in cui si è consumata una data strage mi causa un ribrezzo indescrivibile e in tutto ciò non posso che vedere un riverbero della bruciante passione dei nostri antenati per le esecuzioni pubbliche. Quando un decesso viene spettacolarizzato, viene automaticamente annullato tutto ciò che v'è dietro: viene annichilita la vita di un uomo, una vita, dannazione, una vita, un'intera esistenza vista in funzione della propria fine! È disumano e basta. Sono state abbandonate, nel corso del tempo, torture e stragi col preciso scopo di intrattenere la plebe, ma il fatto che quest'ultima tragga la propria linfa da certe notizie che dovrebbero suscitare solo sentimenti di profonda pietà mi fa capire che ancora siamo lontani anni luce dalla vera umanità. Abbiamo abolito ufficialmente questo genere di cose (un traguardo niente affatto scontato, i cui fautori ringrazierò in eterno), ma mi amareggio pensando che ogni qualvolta si presenta la ghiotta occasione di squadrare la Moira di qualcun altro dall'alto in basso nessuno si risparmi. La vita va bene, ma la morte è meglio.

2 commenti:

  1. E come non darti ragione?!? I Romani e i Greci, che sono stati idealizzati in modo estremo con i movimenti neoclassici, che ne hanno cancellato i tratti più truculenti e sanguinosi, avevano certamente tradizioni che oggi ci appaiono disumane, come quelle da te citate, ma la contestualizzazione è importante e, per quanto ci possa disorientare, era davvero "ordinaria amministrazione", non c'era quella serie di tabù e di regole morali e civili subentrate - per fortuna - successivamente; è un po'come quando si parla della democrazia ateniese, pensando che in Attica siano stati inventati i parlamenti e il suffragio universale, dimenticando la base altamente razzista di applicazione del concetto di cittadinanza! Insomma, al mondo antico bisogna sempre guardare con la giusta vicinanza e la debita distanza, in un rapporto di continua messa a fuoco.
    Ben più vergognoso è, invece, questo atteggiamento di spettacolarizzazione del dolore e della morte realizzato oggi, ignorando le conquiste in termini di civiltà e pubblica decenza dei secoli che ci separano dai classici e sfruttando a sproposito l'opportunità di una comunicazione pervasiva e onnipresente: questo è puro sciacallaggio, vera e propria disumanità. Diceva Quasimodo "Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo": ecco, quando si serve un piatto al sangue la cosiddetta "civiltà" crolla in un attimo.

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    1. Io sono rimasta agghiacciata quando ho saputo dell'esistenza della tragedia di Vermicino e della sua spettacolarizzazione in diretta assoluta. Che orrore.

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