domenica 28 settembre 2014

De heroibus

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi.                                                     (Vita di Galileo, Bertold Brecht)
Non molto tempo fa è ricorso il decimo, triste anniversario della strage di Beslan e mi è capitato sott'occhio un vecchio articolo di giornale al riguardo dove, oltre alla consueta profusione di lutti e compianti, a metà tra il legittimo e l'irrispettoso, faceva un cammeo anche la figura dell'anziana preside della scuola, che durante le tremende ore del sequestro si era per così dire "schierata" dalla parte degli aguzzini, riprendendo i bambini che si lamentavano e tentando di assecondare i terroristi. La donna, sopravvissuta al massacro, dichiarò in seguito che tutti l'avevano additata come collaborazionista dei carnefici, la evitavano in strada e le lanciavano sguardi di ghiaccio, tanto da spingerla perfino a desiderare di morire presto. Una frase dell'articolo diceva di lei: non ha avuto il coraggio di essere un'eroina. Sono parole forti come quelle di una frase accusatoria e allo stesso tempo blande come si stima la personalità della figura umana di cui si vuol parlare, spolverate di un leggero velo di compatimento e di rimpianto per la mancata occasione della donna di assurgere agli onori della cronaca e perché no, magari di ricevere una medaglia al valor civile, in modo che la collettività venisse ancora una volta rassicurata dalla presenza di straordinarietà, pur silenziose, nella folla (un po' come gli anonimi supereroi del film Pixar Gli Incredibili). Ovviamente non so cosa sia accaduto davvero in quel luogo raccapricciante e in quegli attimi d'inferno, provo solo ad ipotizzare che... la donna abbia fatto del suo meglio per evitare ai bambini ulteriori pene: a mio parere era semplicemente convinta che assecondando gli aguzzini sarebbe riuscita a scampare al peggio, nulla di più. Non voglio nemmeno provare ad immaginare cosa passasse per la testa di quella gente in quelle ore senza fine, so solo che giudicare, almeno in questo caso, sarebbe (anzi, è) impietoso. Le parole che Brecht fa dire al suo Galileo in risposta alla frase dell'allievo Andrea Sarti "sventurata la terra che non ha eroi" sono pregne di significato e dischiudono, nella propria solenne nudità, un intero mondo, un intero universo invisibile, conosciuto e parallelo allo stesso tempo, quello appunto degli eroi. I vocabolari dicono che gli eroi sono uomini che compiono azioni fuori dall'ordinario ma essenzialmente ed esclusivamente positive: ma, vedete, gli eroi possono essere tali in positivo o in negativo. Nell'antichità fioccavano i primi, ovvero quelli che spiccavano tra tutti per coraggio e valore, qualità che però non erano aliene al resto della società (sì, lo so, i tempi son cambiati, ora non conta - o comunque non basta - essere un fuoriclasse sul campo di battaglia per essere un eroe): ora, invece, gli eroi sono coloro che compiono gesti di portata cosmica che paiono estranei al miserabile e profano mondo terreno in cui essi sono nati e cresciuti. Gli eroi, dunque, sono diventati sempre più simili a dei santi, che ci sembrano partecipi per natura della gloria divina o che comunque hanno iniziato a manifestare in età precoce i primi segni del destino che li attendeva, disgiungendosi così inesorabilmente dalla compartecipazione nella carne con gli uomini comuni: gli eroi, così inevitabilmente irraggiungibili, hanno smesso di essere dai modelli da imitare e hanno iniziato ad essere sempre di più delle icone da venerare. E Galileo... beh, di certo non è passato alla storia come un eroe: tuttora lo conosciamo come uno scienziato eccezionale, come uno fra i più grandi geni di tutti i tempi, ma non come un eroe. Galileo ha deciso che non valeva la pena rimetterci la pelle per le sue scoperte e, in fondo, un po' tutti ci siamo dispiaciuti almeno in minima parte che la creazione della sua leggenda si sia incagliata in quel malefico atto d'abiura: il mito sarebbe stato certamente completo con una morte spettacolare, da manuale ma sempreverde, in nome di ideali rivoluzionari per l'epoca ma dati per scontati nell'era attuale. Forse ricordiamo con più reverenza Giordano Bruno, passato alla storia più per la sua atroce fine sul rogo a Campo de' Fiori che per le sue spiazzanti teorie, ma ignoriamo che anche lui provò inizialmente a negare il negabile: poi, vistosi alle strette, decise di andarsene almeno dignitosamente e quindi andò incontro al destino che tutti conosciamo. E ciò ci porta a riflettere su un tema di capitale profondità: vale di più una vita o un'idea? Russell diceva che non sarebbe mai morto per le sue idee perché avrebbe potuto aver torto, ma porsi al centro di questa metaforica tavola lignea in bilico sul vertice di un ipotetico triangolo significa automaticamente limitarsi a girare il volto nella direzione ipotizzata come corretta senza muovere il corpo nello stesso verso e mancare dunque della minima dose di dogmatismo indispensabile per difenderla, mostrandosi così implicitamente pronti a voltar la faccia qualora cambi il vento. Perfino chi ha dato la vita per idee dimostratesi in seguito errate o assolutamente folli ha ottenuto dai posteri almeno un velo di rispettoso silenzio. Qualcun altro, invece, disse a suo tempo che non c'era amore più grande di quello di colui che dava la vita per gli amici, tirando così finalmente in ballo il catartico filo rosso dell'esistenza umana: l'amore. Non si muore per le proprie idee, si muore per amore delle proprie idee, così come si muore per amore di una persona: quest'ultima però è tangibile, vera, reale, degnissima per la sua stessa natura umana, l'idea invece può essere giusta o sbagliata, e sarebbe troppo facile dire che è ugualmente eroico morire per le persone e le idee giuste. L'unica cosa che so è che dar la vita per amore è la cosa più nobile in cui l'esistenza umana possa trovare compimento, perché essenzialmente nell'amore vero si fondono omogeneamente l'istinto delle bestie, la ragione delle macchine e il sentimento che è degli uomini, degli uomini soltanto. D'anima e d'amore siam fatti, d'animo e dolore viviamo. Quanto dev'essere disperato il mondo per dover trarre la propria linfa vitale dall'estremo sagrifizio del singolo, per doversi rassicurare sulla propria sopravvivenza anche solo per i prossimi cinque minuti beandosi atrocemente di siffatte azioni? L'eroe compie ciò che dovrebbero compiere tutti in un utopico e totale distacco della natura ferina da quella umana, ma in una società che pare aver dimenticato la picciola santità di cui si professa fiera e modesta portavoce ecco che svetta ombreggiante l'aurea figura di colui che adempie semplicemente il suo salvifico, onorevole, adamantino e banalissimo dovere. L'eroe sacrifica se stesso in nome di qualcun altro: l'eroe dà tutto ciò che ha per diritto naturale, la vita, in nome di qualcuno diverso dalla propria persona, e in questo gesto così intrinsecamente sommo per l'influsso della ragione e del sentimento e perversamente innaturale per la galvanizzante e vertiginosamente estatica assenza dell'istinto di sopravvivenza, in questi attimi di concitata, lucida follia, di parole che paion spade e penne dalla punta di gladio, di contrari che s'annullano e s'armonizzano come l'ago delirante d'una bussola che ora punta il nord e ora il sud ed eppure sembra aver sempre ragione si concentra l'essenza distillata dello spirito umano.

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