giovedì 3 luglio 2014

Vanitas vanitatum

Qualche giorno fa io e le mie amiche di Internet stavamo discutendo sul nostro gruppo segreto di libri e non so in conseguenza di quale giro di parole siamo passate a parlare di gioielli, trucchi e frivolezze di questo genere. Io e le ragazze ci siamo conosciute durante le lotte al disagio e i lunghi e accesi dibattiti -altresì detti flame- ormai celebri su Internet (sebbene io stessa sia consapevole di essere la prima portatrice sana di disagio e abbia piena coscienza del fatto che metà dei miei contatti di Facebook mi tenga appunto fra le proprie amicizie perché sono un caso umano senza precedenti) e ognuna di noi, mediamente bella, mediamente coltivata, ha avuto modo di dare fondo alle proprie conoscenze più o meno specialistiche quando con le disagiate si superava la soglia del discorso serio. Ciononostante, non è raro che finiamo a parlare di "sciocchezze" come il colore migliore per gli smalti luccicanti o i gioielli o che a volte ci accaniamo per puro piacere su una causa da noi stesse ritenuta non necessariamente degna di nota (cosa che ci ha causato, per la cronaca, uno screzio con un paio di elementi della nostra stessa cerchia): la differenza fra noi e molti altri è che noi ammettiamo di avere dentro un certo "disagio", ma in percentuale decisamente minore di quello che rinfacciamo alle nostre... mmm, diciamo avversarie virtuali. Ebbene sì, in privato svestiamo i panni di giustiziere della Rete e diamo fondo alle peggiori chiacchiere e ai più beceri pettegolezzi da sala d'attesa del parrucchiere, civettando di tutto e di più, anche se guai a pensare a noi come alla versione parlante dei settimanali di gossip delle stelle dello spettacolo. Semplicemente intervalliamo momenti di serietà a momenti di leggerezza: ho inoltre ragione di credere che questo sia un comportamento tipicamente femminile, anche perché i pochissimi uomini del gruppo intervengono raramente quando l'argomento di turno ruota attorno a simili temi. Gli stereotipi del nostro tempo, impastati in salsa da liceo americano, sono abituati a farci credere che intelligenza e bellezza, gravitas et levitas, non possano coesistere pacificamente: o si è la ragazza pompon senza cervello o la secchiona che alle feste si mimetizza con la tappezzeria. Per quel che mi riguarda, credo di impersonare una pacifica via di mezzo: a scuola me la cavo bene (per un vezzo apotropaico, non voglio stuzzicare la Sorte descrivendo per filo e per segno i miei risultati effettivi) ed esteticamente non sarò la Venere di Milo in carne ed ossa ma almeno ho una marcia in più: io, per esempio, ho le braccia. Il numero di libri nella mia libreria non è inversamente proporzionale a quello degli smalti nel mio astuccio dei trucchi e, sebbene non baratterei mai uno dei miei adorati libri con un gioiello qualsiasi, devo ammettere di avere un debole per le cose strane, belle e non raramente inutili. Ma del resto, cos'è la bellezza, se non la più perfetta e la più inutile appendice della vita? La mia pace consiste nell'armonia del corpo e dello spirito, e nessuno dei due potrebbe sentirsi totalmente appagato se anche l'altro non lo fosse, sebbene una certa regola di base voglia invero e a ragione che si dia primaria importanza al secondo (non c'è bisogno di altri millenni di filosofia per appurarlo, vero?). Ben vengano, dunque, gli innocui ninnoli retrò con cui adoro baloccarmi, ben vengano gli sguardi incuriositi o ammirati che mi piace suscitare negli sconosciuti o nei conoscenti, ben vengano i fugaci attimi di effimero piacere o i lunghi silenzi e gli interminabili disinteressi altrui, durante i quali ci si può preparare per il vorticoso e temporaneo spettacolo della società, al cui riguardo, però, il bravo attore non dimentica che la vita vera è quella che si svolge dietro le quinte. Mi piace essere apprezzata ma non vivo affatto per quello: sono indipendente e completamente emancipata dall'opinione altrui eppure sapere di non risultare sgradevole secondo i canoni di quest'ultima mi offre un diletto non indifferente. - Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. - fece dire Goldoni alla sua Mirandolina secoli addietro, e forse, a prescindere dal contesto socio-culturale dell'epoca, non è un caso che l'abbia scritto un uomo: non so quante probabilità ci sarebbero state di farlo ammettere ad una donna, oggi come ieri. Che ci siano esponenti del mio stesso sesso che non gradiscono questo genere di attenzioni è cosa più che risaputa, ma non a caso il nostro veneziano ci ha tenuto a vergare quel quasi per evitare rappresaglie dalle più agguerrite. Io, a dire il vero, non so se proprio tutto il mio piacere consista in ciò di cui favella la locandiera: come ho già specificato, sono capacissima di trarre la mia linfa rinvigorente da ben altre cose, decisamente più importanti, tuttavia credo che il nocciolo della questione stia nel significato che si dà alla parola piacere: se si intende il passeggero appagamento dei sensi, allora sì che posso darle ragione! In Orgoglio e pregiudizio Elizabeth dice a proposito di Darcy: "Avrei potuto perdonare la sua vanità se non avesse mortificato la mia". La nostra Lizzy, la mia Lizzy, è una donna intelligente, che sa sfruttare le occasioni, sa usare bene la lingua (risparmiatevi i doppi sensi) e quasi si burla delle convenzioni sociali dell'epoca ("soltanto il vero amore potrà condurmi al matrimonio, ragion per cui rimarrò zitella"), eppure inizia ad avere in odio Darcy proprio perché egli l'ha punta nel vivo, al loro primo incontro l'ha definita, confidandosi con Bingley, appena passabile, ma non abbastanza bella da tentarlo. La bellezza non è l'asso nella manica di Lizzy, che sa benissimo che la musa stilnovistica di famiglia è la sorella maggiore Jane, ma non ha comunque intenzione di farla passare liscia a chi l'ha apostrofata in un modo così mediocre e insipido: sono quasi sicura che, se l'avessero insultata apertamente, lei ci avrebbe riso su, ma questo no. Sarò sincera: al posto di Lizzy mi sarei comportata allo stesso modo. Niente scenate da donnetta isterica, niente petardi sotto il materasso, solo qualche dardo al vetriolo fornitomi dalla mia abilità nell'arte oratoria per vendicare abilmente il velo squarciato dell'orgoglio ferito. E qui siamo nel primo Ottocento (anzi, fine Settecento se si considera la prima stesura del romanzo): i medievali, che hanno coniato le parole del titolo di oggi, cosa avrebbero detto? Sarebbero inorriditi, poco ma sicuro: omnia vanitas! Tutto ciò che non concorreva al nutrimento dello spirito e al sostentamento essenziale del corpo era pura vanità e piuttosto che le persone doveva andare ad alimentare i roghi in pubblica piazza, e quanto poco importava che si trattasse di un comune specchio di bronzo o di un capolavoro di Botticelli! Ahi, quanta bellezza perduta! In conclusione? Viva la vanità e viva le frivolezze: un quadro è molto più bello se a decorarlo è una cornice, l'importante è che non ci si dimentichi che la sola cornice vale ben poco senza la tela.

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